Italia 34: il primo miracolo italiano

L’esordio del nostro Paese sulla scena organizzativa e su quella tecnica portò a un successo di proporzioni universali

Strettissimo è l’intreccio tra politica e sport. Soprattutto quando in gioco c’è l’organizzazione di una imponente manifestazione a carattere planetario. Ciò era tanto più vero negli anni Trenta, quando lo sviluppo economico e tecnologico ancora rendeva enormi le distanze e le comunicazioni tra i Paesi. Così inquadrato, il Mondiale 1934 va ricordato sul piano organizzativo come un piccolo “miracolo” dell’Italia, dovuto soprattutto alla volontà del regime totalitario.

Ammesso e non concesso che la dittatura come forma di governo presenti dei vantaggi, uno di questi va identificato senz’altro nei benefici effetti del cosiddetto “decisionismo“: essendo uno solo ad adottare le deliberazioni, è giocoforza che queste siano rapide e molteplici. Col rischio ovviamente che siano anche rovinose, ma questa è un’altra storia. Il fattore tuttavia non basta a spiegare il successo dell’Italia come Paese organizzatore del secondo Mondiale della storia. Un contributo determinante lo offrì la volontà del Regime di promuovere la propria immagine nel mondo.

Sotto la guida di due grandi dirigenti, Giovanni Mauro e Ottorino Barassi (foto a sinistra), la Federcalcio italiana, presieduta dal gerarca Leandro Arpinati, podestà di Bologna, aveva impresso un formidabile impulso all’attività calcistica: perfettamente strutturata con l’istituzione nel 1929 del girone unico nel campionato di Serie A e promossa con un notevole sforzo di realizzazione e adeguamento di impianti. Quasi naturale che l’Italia avanzasse la propria candidatura all’organizzazione del secondo Mondiale di calcio. Inevitabile addirittura che, dopo la rinuncia dell’unico Paese concorrente, la Svezia, l’8 ottobre 1932 l’assemblea della Fifa decidesse senz’altro di assegnare alla Federazione italiana l’organizzazione della seconda Coppa del Mondo. Il nostro Paese l’avrebbe onorata con la presentazione di stadi moderni e funzionali, alcuni dei quali (come il “Berta” di Firenze) gioielli autentici di architettura.

Sul piano tecnico, l’evoluzione del calcio italiano non era stata da meno, grazie allo sviluppo di un professionismo non più mascherato e alla “caccia agli oriundi” avviata (Carta di Viareggio del 1926) attraverso l’apertura ai giocatori «provenienti da federazione estera italiani o figli di italiani». Soprattutto l’Argentina venne saccheggiata di talenti, la cui doppia cittadinanza accordata dal regime consentiva poi l’impiego in Nazionale, incrementandone il valore.

D’altronde all’affidamento all’Italia del Mondiale non erano estranee considerazioni di carattere tecnico: la Nazionale italiana aveva vinto nel 1930 la prima edizione della prestigiosa Coppa Internazionale, una sorta di campionato europeo dell’epoca, grazie soprattutto a uno storico 5-0 rifilato alla forte Ungheria sul campo di Budapest, che aveva destato logica impressione. Il suo complessivo ruolino di marcia la collocava nel ristretto novero delle Grandi d’Europa.

A guidare la nostra massima rappresentativa era stato chiamato nel 1929 (dopo due brevi parentesi olimpiche) Vittorio Pozzo, tecnico e studioso di calcio le cui molteplici esperienze estere come giocatore-studente ne avevano dilatato in misura singolare per i tempi la cultura tecnico-tattica. Parlava correntemente nove lingue e quanto all’ingaggio si accontentava con encomiabile signorilità: tra le condizioni che aveva posto di fronte alle insistenze del presidente Leandro Arpinati nel volerlo al timone azzurro c’era l’unico compenso del rimborso spese: per le esigenze del suo austero stile di vita gli era sufficiente lo stipendio di giornalista, professione mai abbandonata e sempre arredata di una scrittura acuta e piacevole.

Più che una filosofia tattica, aveva adottato col suo avvento alla guida della Nazionale una strategia complessiva, che cosi sintetizzò nelle sue memorie: «Il calcio è un giuoco collettivo, una schiera di uomini che scendono in campo legati da un vincolo morale di concordia e da un vincolo tecnico di coesione. Sul campo si va con un piano tattico prestabilito: di esso, gli esecutori sono i giuocatori tutti; e tutti nella stessa misura, la massima, il cento per cento. Se le cose vanno bene, la percentuale di merito dei protagonisti deve conservarsi identica per tutti; allora è la squadra che è stata la migliore, in blocco, e non un determinato uomo di essa».

Nè più nè meno, era il concetto di “gruppo” applicato al calcio con qualche decennio di anticipo sulla sua teorizzazione, il segreto di un successo che se così fortemente si fondava su l’elemento morale, non prescindeva però affatto dal rigore tattico. Al punto che proprio la puntigliosità di Pozzo nell’inalveare la libertà un po’ anarcoide dei campioni del tempo sui binari di un lucido disegno tattico rappresentò uno dei capisaldi della sua inimitabile carriera. Sotto la sua guida, la Nazionale vinse per l’appunto innanzitutto la Coppa Internazionale, primo anello di una catena di risultati strepitosa.

La sua opera di rinnovamento nel corso di quasi un ventennio (con l’intervallo fatale della guerra, che ne interruppe il ciclo vincente) fu costante, sempre tuttavia privilegiando il cementarsi di un gruppo compatto da ogni punto di vista. Il magico quinquennio juventino ne favorì l’opera e l’avvento sulla scena italiana di alcuni formidabili campioni sudamericani (Monti, Orsi, Cesarini, Guaita) completò una “rosa” di assoluta qualità.

Pochi mesi prima del Mondiale, l’11 febbraio 1934. gli azzurri persero pesantemente in casa (2-4) dall’Austria: Pozzo ne trasse lo stimolo per potenziare il lavoro di preparazione fisica e apportare all’undici base importanti ritocchi, come l’investitura a titolari della coppia di terzini MonzeglioAllemandi in luogo dei mitici RosettaCaligaris. Il momento era delicato, non essendo ancora automatica la partecipazione alla fase finale del Paese ospitante.

Le iscrizioni al Mondiale avevano ottenuto un successo clamoroso rispetto a quattro anni prima. Si erano chiuse nel febbraio del 1933, con ben 32 rappresentative nazionali ad aspirare alla partecipazione. La Commissione organizzatrice, presieduta dall’avvocato Mauro, dovette approntare una fase eliminatoria, composta di dodici gruppi di due e di tre squadre, messe insieme in base a criteri soprattutto geografici.

Ma non solo, come dimostrò l’accoppiamento dell’Italia alla Grecia, che possedeva una Nazionale di calcio appena da quattro anni, corredata di valori tecnici poco più che irrisori. Sicché il 25 marzo 1934 fu facile alla rinnovata Italia di Pozzo risorgere dalla sconfitta con l’Austria, rifilando a San Siro a Milano uno sbrigativo 4-0 ai rivali ellenici.

Come negli altri “gruppi”, si giocava a partita secca e la qualificazione fu cosa fatta. Si aggiunsero Stati Uniti (vincitori dello spareggio col Messico disputato direttamente in Italia, a Roma, alla vigilia dell’avvio della manifestazione, dopo eliminazione di Cuba e Haiti), Brasile (sul Perù), Argentina (sul Cile), Egitto (su Palestina e Turchia), Svezia (su Estonia e Lituania), Spagna (sul Portogallo), Austria e Ungheria (sulla Bulgaria), Cecoslovacchia (sulla Polonia), Romania e Svizzera (sulla Jugoslavia), Belgio e Olanda (sull’Irlanda), Francia e Germania (sul Lussemburgo).

Come sedi vennero scelte Roma, Milano, Napoli, Torino, Genova, Bologna, Trieste e Firenze e l’organizzazione risultò accurata in ogni dettaglio.

I grandi assenti

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La Cecoslovacchia

L’Uruguay, campione del mondo in carica, se l’era legata al dito. La defezione delle grandi rappresentative europee nel 1930 a Montevideo non era stata digerita dalla locale federazione, impegnata ad onorare adeguatamente il primo Mondiale di calcio e il Centenario della Costituzione repubblicana celebrato in quello stesso anno in Uruguay.

Non fu comunque solo la ripicca a motivare la più importante defezione di Italia 1934. L’Uruguay scontava gli effetti dell’introduzione del professionismo, che aveva visto una parte dei club, due anni addietro, rifiutarsi di aderire alla nuova situazione, dando vita a un periodo di caos certo non propizio all’allestimento di una Nazionale competitiva. Il titolo avrebbe corso seri rischi, meglio evitare di metterlo in palio in attesa di tempi migliori.

Problemi analoghi tormentavano la contigua nazione argentina, in cui il professionismo era stato introdotto (sempre nel 1932) in via ancora più traumatica, con la costituzione di una Lega secessionista di grandi club, non riconosciuta dalla Fifa. Alla Federazione internazionale rimaneva affiliata la Federcalcio, che solo in extremis, dopo aver annunciato il forfait, riuscì a iscriversi al Mondiale, presentandosi però con una formazione di dilettanti di scarse qualità tecniche. I grandi campioni dell’epoca (letteralmente d’oro per il calcio argentino) restarono a casa. Così come per la seconda volta non lasciarono la propria terra i campioni britannici, pur se lo Stato libero d’Irlanda aveva rotto il fronte, partecipando con scarsa fortuna alle qualificazione (estromesso da Olanda e Belgio per peggior quoziente reti).

Uniti per vincere

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Gli assi di Pozzo: Schiavio e Meazza

«Ai ragazzi aprivo le lettere, gliele consegnavo già aperte e loro non si offendevano. Le leggevo per sapere se avevano un’amante, oppure delle preoccupazioni. Cose che dovevo conoscere per il bene della squadra». Nel racconto di Vittorio Pozzo c’è il segreto — e forse pure l’anacronismo rispetto a oggi — del ritiro azzurro per i Mondiali 1934. Il primo maggio il Ct portò trenta giocatori nell’eremo dell’Alpino, sotto il Mottarone, compiacendo la propria passione per la montagna. Di lì, in un secondo tempo, a Roveta, sui colli toscani, tra Firenze e Pisa.

In tre settimane Pozzo lavorò al famoso “gruppo” e non c’è dubbio che molto contribuì alla riuscita dell’opera il suo carisma, tale da consentirgli persino le intrusioni accennate nella vita privata dei suoi ragazzi. Per far svaporare le scorie del campionato, metteva insieme in camera i giocatori che avevano da smaltirne, come lo juventino Monti e il bolognese Schiavio, “nemici” dopo duri scontri sul campo.

Il suo paternalismo perfino esasperato non prevaleva tuttavia sullo studio rigoroso della tattica. Pozzo apportò al “Metodo” le correzioni che in pratica avviarono la squadra sulla strada feconda del contropiede. Per la preparazione atletica fu prezioso il contributo di Carlo Carcano, allenatore della Juventus, che il Ct volle con sè come collaboratore.

Così lui stesso descrisse quel periodo, con straordinaria modernità: «La preparazione l’avevo divisa in due tempi. Primo tempo, all’Alpino sopra Stresa: smaltimento degli effetti del campionato, cure fisiche, rimessa a nuovo, concordia, intesa chiara ed inderogabile sulle necessità del momento. Secondo tempo, a Roveto sopra Firenze: lavoro tecnico, su sul colle e giù allo stadio, opera tattica, organizzazione della squadra, intesa teorica e pratica, preparazione al combattimento vero e proprio. Il tutto, lontano dal pubblico nel modo più assoluto, senza nessuno che avesse occasione di scrivere degli articoli tecnici, sul colore delle magliette o sul tipo delle scarpette dei presenti, senza chiacchiere su presunti dissensi, senza lamentele sulla vita claustrale. Una voce sola, una linea direttiva unica, un principio lineare, da cima a fondo: un martello che picchiò nello stesso modo e sullo stesso chiodo per un mese e mezzo di seguito. La squadra ne uscì forgiata come un blocco, unita, fusa, concorde, decisa, accomunata nella volontà. E sì che comprendeva dei “polli” come il povero Attilio Ferraris – che ero andato a pescare a Roma già scivolante verso l’alcool ed il giuoco, per dare una riserva a Monti – o degli anziani come il povero Umberto Caligaris, che pianse quando gli dovetti negare la soddisfazione di giocare la sua sessantesima partita in maglia azzurra, cifra tonda: pianse e nascose il suo dolore incoraggiando con ogni sua forza i compagni. Un plotone dal fìsico pronto e dal gran solco della volontà scavato in fronte».

Al momento di scremare i ventidue, il Ct cambiò i piani, aggiungendo un portiere di riserva, dopo che il guardiano più in forma, Ceresoli, si era fratturato un braccio in una partitella di avvicinamento alla manifestazione. Quando giunse il momento di scendere in campo, scrisse più tardi Pozzo, gli azzurri erano «malleabili all’estremo, non vivevano che per gli avvenimenti che li attendevano, e volevano vincere».

Il debutto non avrebbe potuto essere più morbido, contro gli Stati Uniti. Lapidariamente, il Ct la commentò in seguito così: «La nostra partita con gli Stati Uniti non merita narrazione, nè rilievo particolari. Nella Squadra americana v’era di tutto, fuorché del valore tecnico». Ne approfittò soprattutto Schiavio, per mettere a segno una tripletta, mentre l’occasione fu anche l’unica per “Viri” Rosetta, destinato a lasciare dopo che già il mitico compagno di linea Caligaris aveva dovuto dire addio al posto da titolare (fermandosi con non nascosto disappunto a quota 59 presenze in azzurro).

Cavalcata trionfale

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Cecoslovacchia-Germania 3-1: i capitani Szepan e Planicka

La formula del Mondiale era particolarmente agile, senza gironi. Le altre partite degli ottavi a eliminazione diretta emisero una drastica sentenza a favore delle squadre europee: passarono Austria, Ungheria, Spagna, Svezia, Germania, Svizzera e Cecoslovacchia. Il Brasile (privo di molti campioni, negati dal boicottaggio di varie federazioni del “futebol” locale) e la raccogliticcia Argentina vennero sbattuti fuori rispettivamente da Spagna e Svezia.

Particolarmente difficile il passaggio del turno dell’Austria “Wunderteam” (“squadra delle meraviglie”: l’etichetta era nata dopo una scintillante esibizione di gioco davanti a una delegazione della Fifa) di Hugo Meisl, impegnata fino ai supplementari dalla Francia.

Bellissimi i quarti di finale, ricchi di gioco (CecoslovacchiaSvizzera la partita più bella), di forza (la terribile Germania schiaccia la Svezia a San Siro), ma anche di botte, visto che il match tecnicamente più appetibile, lo “spareggio” tra le regine del calcio danubiano Austria e Ungheria, si risolve in una brutale rissa intervallata ogni tanto da buone espressioni di calcio.

Il confronto più combattuto, soprattutto nel senso dell’incertezza del risultato, contrappone però Italia e Spagna, ed è l’unico che necessita una ripetizione. Si gioca a Firenze, al bellissimo stadio “Berta” (l’attuale, rimodernato, “Franchi”), le due squadre si gettano gagliardamente l’una contro l’altra. I due terzini iberici, Ciriaco e il celebre Quincoces, tentano un sandwich sul guizzante Orsi, il quale tuttavia con uno scarto laterale riesce a evitare la morsa; «ed i due difensori» racconterà Pozzo «entrarono letteralmente l’uno nel corpo dell’altro, con un grande scricchiolio di ossa. Accorso io pure sul campo, il terzino Ciriaco mormorava dolorante: «Ahi, mi madre!» ed Orsi, a due passi, mi faceva cenno che in quel duplice amplesso, in quella morsa, avrebbe dovuto trovarsi lui, a fare le spese».

Poco dopo, un tiro basso di Regueiro fulmina Combi sulla sua destra, ma poco prima dell’intervallo Ferrari in mischia riequilibra la situazione. La ripresa è combattutissima, gli azzurri sembrano avere un conto aperto con la sorte: il mediano Pizziolo si frattura una gamba e nel finale dei tempi supplementari solo una serie di prodezze del leggendario portiere iberico Zamora salvano gli ospiti dalla capitolazione.

L’impietoso regolamento impone la ripetizione addirittura il giorno successivo. E qui Pozzo compie il proprio capolavoro, rinnovando sapientemente i ranghi dopo il massacrante impegno di 120 minuti, senza tuttavia stravolgere l’ossatura della squadra. Entrano Ferraris IV, Bertolini, Borel II e Demaria in luogo dei più acciaccati, contando che le cure mediche e la grinta facciano il resto. La Spagna cambia invece ben sette uomini, tra cui quello più decisivo, proprio il portierissimo Ricardo Zamora, a propria volta ammaccato. L’incontro, come racconta una cronaca del tempo «ebbe sprazzi di violenza quasi selvaggia. La partita, come spettacolo, visse i suoi momenti migliori negli episodi a sfondo atletico-agonistico. La gagliardia e la forza fisica sommersero totalmente la finezza e i virtuosismi».

Un imperioso colpo di testa di Meazza, su cui a lungo protestano gli spagnoli (ma il “Balilla” non si è appoggiato sulle spalle di nessuno) porta in vantaggio gli azzurri. L’attacco iberico, completamente rivoluzionato, è evanescente e l’Italia passa alle semifinali, che le oppongono a Milano il temutissimo “Wunderteam” austriaco, vincitore qualche mese prima nella famosa partita al “Mussolini” di Torino.

«Date a uomini di carattere, che hanno fatto un passo falso, l’occasione di ritornare su se stessi, di affrontare un’altra volta la stessa prova e gli stessi avversari: e vedrete cosa nascerà. Questo era il principio da cui partivo. A quella spinta dell’amor proprio e dell’orgoglio, la squadra rispose appieno»: nelle parole di Pozzo, il succo della grande partita azzurra. Quarantotto ore dopo la maratona contro gli spagnoli, con in mezzo il viaggio in treno a Milano, la squadra risponde bene, trascinata dalla carica agonistica di Ferraris IV, ripescato e “ricostruito” da Pozzo per il Mondiale quando era già – mentalmente e atleticamente – un ex.

Si gioca dopo un furioso temporale e la ricomparsa del sole, su uno scenario terso che esalta i contenuti agonistici. La superiorità del gioco azzurro nei minuti iniziali si traduce in un controverso gol di Guaita, dopo uno scontro tra Meazza e il portiere austriaco Platzer. Gli austriaci protestano invano per la carica al portiere. L’arbitro Eklind convalida. Da lì in poi. a dispetto del continuo assalto austriaco, la porta italiana correrà pochi rischi.

«Mi si lasci tessere un inno alla tempra e al carattere dei nostri giuocatori» scriverà a commento dello storico successo Pozzo, indulgendo a un pizzico di retorica. «Se lo meritano. Per il modo calmo, deciso, freddo, stoico, forte con cui sostennero le tre dure battaglie, contro la Spagna e contro l’Austria, nei quarti di finale e nella semifinale, a Firenze ed a Milano, nello spazio di quattro giorni. Coi tempi supplementari, trecento minuti di giuoco duro, arcigno, a tratti violento anche, senza mai flettere, nè davanti all’avversario, nè di fronte alla stanchezza. Erano animati da una volontà di ferro, in quel momento, i giuocatori. Sapevano quanto da loro ci si attendeva, quanto si esigeva quasi. E parevano degli ispirati. Non guardavano in faccia a nessuno. Volevano arrivare dove effettivamente finirono per arrivare. Ad un certo momento ricordavano il soldato ferito e furente, che non vuole abbandonare nè la linea nè i compagni, e continua a combattere tacendo le sue pene».

Gli azzurri sono in finale e il Paese ribolle di entusiasmo. A ricordarcelo è sempre la penna forbita e polemica di Vittorio Pozzo: «L’opinione pubblica era per noi, ora. Le due partite con gli spagnoli avevano infiammato l’ambiente. Non era più come al viaggio d’andata da Firenze a Roma, quando, alla stazione di Chiusi, alcuni bellimbusti avevano definito come “vecchi lampioni ” i nostri giuocatori, e, per poco, non avevano ricevuto in risposta la dura lezione che le loro stupidaggini non demeritavano. Tutti erano per noi, ora. Tutti, o molti, “lo avevano sempre detto”. Nulla di più instabile, di più volubile, ed in certi casi, di più goffo, degli umori del gran pubblico».

Dall’altra parte del tabellone la Cecoslovacchia, guidata dal prodigioso mediocentro Cambal e dai gol del micidiale Nejedly, ha disintegrato i tedeschi.

E Pozzo ebbe un’idea geniale

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Finale Italia-Cecoslovacchia: Pozzo catechizza i suoi uomini

Le ore dell’attesa, le più dure, come avrebbe confessato Pozzo, erano finalmente alle spalle quando l’arbitro Eklind fischiò l’avvio della storica finale. Per gli azzurri di Pozzo, due avversari temibili. L’emozione, davanti al Duce (in tribuna accanto ai principi di casa Savoia) e idealmente all’intera nazione, ben rappresentata dai cinquantamila che colmavano le gradinate dello Stadio del Partito Nazionale Fascista (l’attuale Flaminio, completamente ricostruito nel dopoguerra); in palio, ovviamente, la Storia, cioè la possibilità di entrarvi dalla porta principale con una memorabile conquista.

E poi, ovviamente, la Cecoslovacchia, maestra di quel calcio danubiano fatto di raffinatezze tecniche cui aveva elargito negli ultimi anni campioni straordinari. Le cronache hanno teso spesso a ingigantire il duello tra le due formazioni, specie nei primi quarantacinque minuti, elevandolo a una lotta tra giganti tecnici.

La realtà, più prosaica, sta nella cronaca che sull’onda di lucidissimi ricordi ne fece Vittorio Pozzo, cronista di razza indisponibile a deformare i fatti sull’onda della retorica: «La levatura del giuoco non è troppo elevata. Le due squadre sono troppo emozionate, per giuocare bene. E’ la storia di sempre. L’importanza della posta taglia le gambe a tutti. Primo tempo in bianco assoluto. Secondo tempo, stessa falsariga. Finché, al 26. minuto, l’ala sinistra dei boemi, Puc, sguscia via, tira da lontano ed infila l’angolo basso della nostra rete, sulla destra di Combi. Il quale si è gettato in tuffo in ritardo e non è riuscito a parare. È emozionato anche lui, il buon Piero. Quel punto ha però la virtù di risvegliarci. Fa l’effetto di una staffilata sul morale dei nostri. Gli Azzurri non vogliono saperne di perdere. Ed al 36′ minuto Orsi pareggia. Si è fatto luce sulla sinistra, con una muta di inseguitori appresso, finge di tirare di sinistro e di colpo spara invece di destro, verso l’angolo lontano alto. L’imbattibile Planicka si allunga in tutta la sua lunghezza sulla sua sinistra, sfiora la palla colla punta delle dita, ma non la ferma. Uno a uno. E il pareggio. Non perdiamo, e non perderemo più. Ne sono sicuro. Prima dei tempi supplementari non rientriamo negli spogliatoi. Rimaniamo lì sul prato. I nostri hanno facce cadaveriche, per l’emozione, per il momento che hanno attraversato. Proprio come in quei momenti di attesa e di mezzo panico prima dell ‘incontro. Forza, ragazzi. Vincere bisogna. Forza e calma, veterani di tante battaglie. Ricomincia la danza, per i due tempi di quindici minuti l’uno. Intuisco una soluzione all’intricato problema: ordino a Guaita ed a Schiavio di scambiarsi il posto. C’è un fracasso tale attorno al campo – la gente è scesa fino ad un paio di metri dalle linee laterali – che nessuno mi sente. Faccio di corsa il giro del campo, e giungo a dare a Guaita le opportune disposizioni: cambiarsi, poi ricambiarsi ancora di posto, e così ogni due o tre minuti, per disorientare gli avversari. Al secondo tentativo la manovra riesce appieno. E Schiavio che, sfinito, arriva in corsa, e fa partire una rabbiosa cannonata, in senso diagonale. È Planicka che per la seconda volta deve abbassarsi e raccogliere la palla nella sua rete. Di lì, come risultato, non ci si muove più: si può esserne sicuri ora. Vittoria per due a uno».

L’entusiasmo alla fine fu indescrivibile. La vittoria fu giudicata meritata dagli osservatori, per la sapiente miscela di qualità tecniche e doti fisiche e agonistiche messa in campo dagli azzurri.