Uruguay 1950: indietro tutta

Con schemi vecchi e sorpassati l’Uruguay beffò un Brasile mai così bravo come quell’anno: merito dell’estrema saldezza difensiva e della fredda fantasia di Schiaffino, il tutto tenuto insieme dal genio di Varela.

Il miglior Brasile dei primi cinquant’anni del secolo, il peggior Uruguay nella storia del suo football: con queste etichette le due squadre si presentarono alla finale del campionato del mondo 1950, nello stadio Maracanà di Rio de Janeiro appena costruito. Capienza 200 mila spettatori, un impianto-meraviglia.

Il Brasile univa alla tradizionale capacità tecnica dei suoi giocatori, una variante tattica che lo rendeva (giudizio dei tecnici di casa) apparentemente imbattibile. Une versione sudamericana, con qualche licenza per non mortificare la fantasia dei giocatori, del WM già lanciato in Inghilterra nel ’35 dal famoso allenatore Herbert Chapman. La variante brasiliana definita «diagonal» prevedeva un ruotare della difesa sul suo asse, a seconda del lato sul quale si profilava l’attacco avversario.

L’Uruguay in crisi di gioco non batteva strade nuove e restava essenzialmente sugli schemi del passato: ancora i mediani larghi a fronteggiare le ali avversarie, i terzini più accentrati (il destro Gonzalez pronto a chiudere al centro con compiti di spazzatutto in casi di necessità, il terzino sinistro Eusebio Tejera primo a lanciarsi sull’attaccante opposto che si avvicinava all’area di rigore), il poderoso Varela mediocentro. Uno schema che ricalcava ancora quelli dell’Italia bi-mondiale di Vittorio Pozzo.

Quell’Uruguay era giunto al match per il titolo attraverso un cammino stentato, che non lo accreditava di molte chances contro i brasiliani. Dopo la facile vittoria sulla Bolivia nel primo incontro: 8 a 0, cinque gol di Schiaffino più le reti di Perez, Vidal e Ghiggia, la Celeste pareggiava 2-2 a stento con la Spagna di Ramallets (l’erede di Zamora), Molowny e Zarra questi gran centravanti, e faticava a battere 3-2 la Svezia. Due reti del solito irresistibile Ghiggia ed una di Perez, contro quelle di Palmer (che doveva poi giocare anche nella Juventus) e Sundqvist.

Intanto il Brasile procedeva senza fatica: 4-0 al Messico, un 2-2 contro la Svizzera, quindi 2-0 alla Jugoslavia di Dzaijc e Bobek, addirittura 7-1 alla Svezia (quattro gol di Ademir) e 6-1 alla Spagna (segnavano tutti, Ademir, Jair, Chico, Friaca, Zizinho più autorete di Parra).

Sapete come andò, al Maracanà. L’Uruguay vinse il titolo di campione del mondo. Ad Ademir restava il titolo di cannoniere con sette reti, magrissima consolazione. La Celeste si era astenuta dai due mondiali (in Italia e in Francia) successivi al primo che aveva vinto in casa, nello stadio del Centenario di Montevideo. Due partecipazioni (’30 e ’50 appunto) e due successi, il massimo possibile nel rapporto presenze-vittorie.

Il Brasile di Zizinho e Jair, Ademir e Danilo — questi gli uomini migliori di una formazione ad alto livello tecnico — finiva al tappeto davanti al suo pubblico in gramaglie, colpito dal contropiede uruguagio. Da una squadra che sommava tre caratteristiche e un uomo che in quella partita erano decisivi.

Primo punto. La saldezza difensiva, grazie alla copertura dei mediani Gambetta (a destra) e Andrade (a sinistra) ed ai rientri della mezz’ala Perez e dell’ala sinistra Moran, un tornante che anticipava una soluzione tattica in voga anche oggi.

Quello di Moran fu un caso particolare, la conferma che nel football anche il caso può diventare determinante. Il titolare della maglia numero undici era infatti Ernesto Vidal, ma un infortunio lo tolse di squadra proprio per la finalissima. Il commissario tecnico Juan Lopez, classe 1908, nato nel popolare quartiere «Palermo» di Montevideo, terzino modesto e praticante il canottaggio, allenatore partito da una squadra di rione dal nome romantico (la Cumparsita) per arrivare alla Nazionale, scelse il diciannovenne Ruben Moran che divenne protagonista di un successo storico.

Secondo punto. La fredda fantasia di Juan Alberto Schiaffino, chiamato Pepe dai tifosi, asso del Peñarol di Montevideo che aveva portato allo scudetto del ’49 per ripetersi nel ’51 e nel ’53. Schiaffino era il tecnico, ma anche il cinico stratega della squadra. Il suo gol che pareggiava quello iniziale del brasiliano Friaca dava la svolta alla partitissima.

Terzo punto. La rapidità del contropiede. Alcide Ghiggia, ala destra, e il centravanti Oscar Miguez erano gli autori del grande movimento sul fronte offensivo. Di Ghiggia il gol del ko.

L’uomo chiave, più dello stesso Pepe Schiaffino, era Obdulio Jacinto Varela il centrosostegno regista della difesa e uomo-spinta per il centrocampo. Tifosi e compagni di squadra (del Peñarol e della Nazionale) lo chiamavano «El Jefe», il capo. Nel 1950 Varela aveva 33 anni e doveva chiudere la carriera nella Celeste (52 presenze) a 37 per un serio infortunio in una partita contro gli inglesi. Varela era grande giocatore, forte nel tackle e nel gioco di testa, abile nel lancio lungo per il contropiede, ma soprattutto un animatore formidabile. La sua voce secca, tagliente, era un punto di riferimento.

Sul fianco sinistro dell’Uruguay faceva cose buone Roberto Andrade. Un nome storico per il football uruguaiano, continuatore di un’importante dinastia calcistica. La sua presenza da protagonista riportava il football di Montevideo al primo trionfo mondiale. Suo zio, José Leandro Andrade, mediano, era stato il leader della squadra campione mondiale nel 1930 contro l’Argentina.

Roberto Andrade, bravo al Maracanà nel 1950, non tradì lo zio neppure nel campionato del mondo del 1954 in Svizzera, vinto dalla Germania. L’Uruguay si era perso per strada, in quel torneo, ma l’Equipe giudicò comunque Andrade jr. il migliore del torneo nel ruolo di terzino destro d’attacco.


TRE FENOMENI E TANTI GREGARI

Roque Gastón MASPOLI (1920)

Fu il degno erede dei grandi portieri uruguaiani degli anni Trenta e Quaranta, tra cui Andrés Mazali ed Anibal Paz. Iniziò la carriera agonistica giocando da terzino per spostarsi successivamente tra i pali nel momento in cui entrò a far parte del Nacional. Passato al Peñarol nel 1939, con la casacca giallonera conquistò sei titoli nazionali: 1944, 1945, 1949, 1951, 1953 e 1954. Eccezionale nella presa alta, fortissimo nelle uscite, sapeva comandare alla perfezione il reparto arretrato. Conclusa la parentesi giocata si dedicò alla panchina, assumendo la direzione tecnica delle più prestigiose formazioni del campionato. È passato alla storia anche per essere stato in ben due occasioni il possessore del biglietto vincente la lotteria nazionale uruguagia.


Matias GONZÀLEZ (1927)

Era il «back-escoba» della squadra, l’uomo deputato a sbrogliare le matasse più intricate nel settore difensivo. La critica non lo riteneva all’altezza della situazione, ma con eccellenti prestazioni smentì coloro che non avevano fiducia in lui. Ad ulteriore dimostrazione del proprio valore, rimase nei ranghi della «Celeste» per altri cinque anni, chiudendo con il Sudamericano del 1955. Giocava, in campionato, nel Cerro.


Eusebio TEJERA (1923)

Era il terzino «volante» della formazione campione, chiamato a marcare l’avversario che si presentava con la palla al piede al limite dell’area. Militava nel Nazionale con cui conquistò tre volte il titolo (1946, 1947 e 1950). Aveva esordito in Nazionale nel 1945 nel corso del Sudamericano di Santiago del Cile. Dopo la vittoriosa Rimet si trasferì in Colombia per giocare nel Deportes Cùcuta.


Schubert GAMBETTA (1923)

Infallibile rigorista, giocava da mediano metodista sull’ala sinistra avversaria. Venne inserito in squadra dal Ct Lopez per fornire un miglior apporto di grinta e tecnica alia retroguardia. Rimase sempre fedele alla maglia «tricolor» del Nacional (salvo una breve parentesi in Colombia nel 1951) con cui si aggiudicò la bellezza di nove campionati nazionali: 1940, 1941, 1942, 1943, 1946, 1947, 1950, 1952 e 1955. Debuttò in Nazionale nel 1941 a Santiago e l’anno seguente fece parte della formazione che vinse il Sudamericano disputato sul terreno casalingo di Montevideo. Era soprannominato «El mono», lo scimmiotto.


Obdulio Jacinto VARELA (1917)

Per tutti era «El Jefe», il capo. In lui si incarnava la famosa «garra charrùa», ovvero il sentimento di volontà e grinta che da sempre caratterizza il football e più in generale il popolo uruguaiano. Per numerosi anni fu il vero condottiero della squadra, sia sotto il profilo tecnico che sotto quello psicologico: sapeva infondere straordinaria carica nei compagni, soprattutto nei momenti più delicati di un match. Mosse i primi passi nel Deportivo Juventud per venir ceduto, nel 1938, ai Wanderers. Quattro anni più tardi venne acquistato dal Peñarol, e con la maglia «aurinegra» fu campione nel 1944, 1945, 1949,1951,1953 e 1954. Chiuse con il calcio nel 1955, a 38 anni, nel pieno della vigorìa fisica. Debuttò in Nazionale nel 1939 nell’incontro con il Paraguay come «suplente» di Eugenio Galvalisi, uno dei miti dell’epoca. Nel ’42 conquistò il titolo continentale con la «Celeste», nelle cui file giocò 52 volte. Una curiosità: non perse mai un confronto mondiale: si infortunò infatti nella gara contro l’Inghilterra nel 1954 e non disputò il successivo impegno, perduto contro l’Ungheria. Intrapresa la carriera di tecnico, non seppe mai sopportare i compromessi che gli venivano chiesti e per questo abbandonò il calcio: uomo di robusti principi, nel 1948 era stato uno dei promotori della «huelga», lo sciopero dei calciatori.


Victor Rodriguez ANDRADE (1927)

Nipote del mitico José Leandro Andrade, la «maravilla negra» che aveva stupito il mondo negli anni Venti e Trenta, aveva ereditato dal consanguineo la grinta e l’indomito temperamento, ma non le doti classiche di tecnica ed abilità con il pallone. Giocava nel medesimo ruolo dello zio, interpretandolo però in maniera più moderna, strettamente legata al tipo di gioco attuato in quel periodo. Cominciò nel Central, formazione che all’epoca vantava una discreta quotazione per passare successivamente al Peñarol: era il 1952, e nei due anni seguenti si laureò campione «oriental». Totalizzò complessivamente 46 presenze in Nazionale.


Alcides Edgardo GHIGGIA (1926)

L’uomo che gettò nel lutto più nero l’intera nazione brasiliana con il suo gol a dieci minuti dal termine dell’incontro decisivo era, sino ad un paio di mesi prima, niente più che una giovane promessa, nemmeno tanto considerata dai tecnici locali. Debuttò infatti nella «Celeste» solamente il 6 maggio del ’50 nel primo incontro valido per la Copa Rio Branco, un trofeo disputato con cadenza annuale alla Seleção brasiliana. Si mise in luce quel giorno e per tutto il periodo della preparazione, guadagnandosi la fiducia del selezionatore Juan Lopez. Aveva iniziato nel Sudamerica di Montevideo, da cui si era trasferito all’Atlanta e quindi, dopo la stagione della «huelga», al Peñarol, con cui fu campione 1949 e 1951. Nel 1952 subì una pesante squalifica per aver aggredito un arbitro: non potendo perdere preziosi anni di carriera, decise di emigrare in Italia, più precisamente alla Roma. Giunto nella Capitale nel 1953, rimase nella penisola per otto anni, vincendo con la maglia giallorossa la Coppa delle Fiere 1960-61 ed arrivando ad indossare quella azzurra in cinque occasioni, convocato come oriundo. Nel 1961 venne acquistato dal Milan, che lo utilizzò per fare da chioccia ai giovani virgulti che stavano uscendo alla ribalta in quel periodo: per non smentirsi, si cuci lo scudetto sul petto al termine del campionato 1961-62. In patria viene ancor oggi considerato la migliore ala destra di ogni tempo: su questo giudizio pesa sicuramente la rete che diede alla sua Nazionale il secondo titolo iridato della storia. Chiuse nel 1968, a 42 anni, militando nel Danubio.


Julio PÉREZ (1925)

L’anima dinamica della squadra, colui che con il proprio movimento si poneva sempre come punto di riferimento offensivo per i compagni. Possedeva piedi d’oro, dai quali partivano lanci calibratissimi e tiri mortiferi da ogni posizione. Campione d’Uruguay con il Nacional nel 1950, 1952, 1955 e 1956, continuò la prima carriera sino alla fine degli anni cinquanta.


Oscar MIGUEZ (1927)

Era entrato nella «Celeste» a ventidue anni, e per un decennio non ne uscì più: fu un vero centravanti moderno, coraggioso, tecnico con entrambi i piedi e dalla grande elevazione. In area di rigore sapeva farsi rispettare al meglio, sgomitando prima di essere maltrattato dai difensori. Eccezionalmente dotato nel dribbling, conquistò il titolo con il Peñarol nel 1949, 1951, 1954 e 1959. Nella prima occasione era stato anche il bomber scelto del torneo.


Juan Alberto SCHIAFFINO (1925)

Ribattezzato «Pepe» sia dai primi anni di vita per l’innata vivacità mosse i primi passi della luminosissima carriera agonistica al fianco del fratello Raul (di due anni più anziano di lui), che gli fornì un esempio di dedizione e tecnica senza pari. Già a diciotto anni faceva parte dei ranghi del Peñarol e nel 1945 venne chiamato agli onori della «Celeste» pur non avendo mai giocato in campionato. Elegante nei movimenti, sempre coordinato, di un’abilità diabolica, concepiva il calcio in maniera fredda e calcolatrice: il suo era il tocco di genio, qualsiasi azione proponesse. Condusse il Peñarol, accanto ad artisti come Hohberg e Miguez, ai titoli 1949, 1951 e 1953. Dopo il Mondiale di Berna 1954 venne acquistato dal Milan. In Lombardia smentì tutti coloro che lo volevano ormai logoro (aveva però solamente 29 anni) e guidò i rossoneri agli scudetti 1955, 1957 e 1959. Curiosamente, conquistò titoli nazionali solamente negli anni dispari. Fu sfortunato protagonista della finale di Coppa dei Campioni perduta contro il Real Madrid nel 1959 (2-3). Nel 1960 passò alla Roma, dove rimase per due stagioni. È considerato tra i primi cinque calciatori di ogni epoca.


Ruben MORAN (1931)

Rappresentò la mossa vincente di Juan Lopez nel match conclusivo contro il Brasile: venne schierato infatti da ala tornante con il compito di risucchiare in avanti i difensori brasiliani e facilitare cosi le avanzate di Schiaffino e Ghiggia. La diciottenne estrema mancina assolse perfettamente al proprio compito risultando uno dei più giovani campioni del mondo della storia. Giocava nel Cerro.


Juan Carlos GONZALEZ (1924)

Mediano del Peñarol, disputò in Brasile le prime due partite contro Bolivia e Spagna: gli venne poi preferito Schubert Gambetta, più portato ed affidabile sotto il profilo tattico. Un onesto comprimario che, con la maglia giallo-nera si aggiudicò i titoli nazionali 1945, 1949, 1951 e 1954.


Anibal PAZ (1918)

Anziano portiere del Nacional (con cui fu campione uruguagio 1939, 1940, 1941, 1942, 1943, 1946, 1947, 1950 e 1952) fu chiamato a sostituire il titolare Màspoli nella gara contro la Svezia. Agile, forte tecnicamente, eccellente nella presa, viene considerato inferiore a pochi colleghi nella storia della «Celeste».


Ernesto VIDAL (1923)

Era il titolare della maglia numero undici, ma fu costretto a saltare la finale per un banale infortunio di gioco. Era nato a Buie d’Istria, nelle vicinanze di Trieste, ed era emigrato giovanissimo in Argentina al seguito della famiglia. Cominciò allo Sportivo Belgrano, quindi giocò nel Rosario Central e si trasferì poi al Peñarol, assumendo la nazionalità «orientai». Scattante e potente, dal buon tiro in corsa, abile sotto rete, fu campione 1944,1945 e 1951. Nel 1953 tornò in Italia, ingaggiato dalla Fiorentina. Militò anche nella Pro Patria prima di rientrare in Sudamerica.


IL COMMISSARIO TECNICO: JUAN LOPEZ (1908-1983)

Nacque nella avenida Santa Lucia, nel popolare quartiere di Montevideo chiamato «Palermo», il 15 marzo 1908. Dimostrò subito grande interesse per tutti gli sport e al fianco del gemello Alberto entrò a far parte dell’Atlètico Central, una formazione le cui squadre giovanili andavano per la maggiore. Non andò mai oltre la terza squadra del club, giocando sempre come terzino. Si dedicò allora all’insegnamento: nel 1934 assunse la direzione tecnica del club «La Cumparsita», una compagine amatoriale del suo «barrio» (rione). Si ispirava ad Alberto Suppicci, trainer della «Celeste» campione del mondo 1930, documentandosi inoltre grazie alla visione di centinaia di partite. L’altra sua grande passione fu il canottaggio: vogava per il Club Nacional de Regatas, il corrispettivo dei calciatori «tricolores». Al remo, fu campione nazionale nel «quattro senza» e nell’«otto» dal 1931 al 1933. Nel ’44 venne chiamato alla guida del Central (la squadra dei suoi esordi come calciatore) e nel ’48 passò sulla panchina del Racing Montevideo, un incarico che ricopri contemporaneamente a quello di selezionatore della «Celeste», che lasciò solamente nel 1962. Debuttò al Sudamericano 1947 di Guayaquil vincendo poi la Copa Rio Braco (contro il Brasile) e quella «General Perón» (sull’Argentina). La Asociación Uruguaya del Fùtbol lo confermò dunque anche per l’avventura iridata del 1950, e pure in questo caso la sua opera riscosse successo ed applausi. Nel 1951 il Peñarol gli affidò i gialloneri, che condusse a tre titoli di campionato. Il 31 maggio 1953, per sua stessa ammissione, fu il più bel giorno della sua lunga carriera: l’Uruguay sconfisse i maestri inglesi per 2-1, dando eccezionale dimostrazione di perfezione tattica. Fallì la qualificazione a Svezia ’58 ma non quella al successivo Mondiale, da cui l’Uruguay usci al primo turno per mano di Urss e Jugoslavia. Si trasferì in Cile nel 1963, rimanendovi per qualche anno e quindi funse da assistente ai suoi vari successori sulla panchina della Selección sino al 1970. Mori il 4 ottobre 1983.