Stefano Nava: la riserva di lusso

«Capello, un maestro di grinta calcistica. Grandissima stima di lui, ma i rapporti erano sempre conflittuali»

La fantasia? Merce sempre più rara tra i ragazzini d’oggi col pallone tra i piedi. Ma più che allenatori fondamentalisti, luogo comune tra i luoghi comuni, l’hanno uccisa gli amministratori condominiali, i vigili urbani e, certamente, anche la diffidenza, vera figlia dei nostri tempi, verso il prossimo e verso uno dei cardini dell’educazione cattolica. «Quando ero ragazzo si giocava a pallone all’oratorio, ma soprattutto per strada. Ora purtroppo non si fa più o non si può più». Stefano Nava è nato a Milano, zona Niguarda, a Nord. Primi campi quelle vie d’inizio di periferia. Anni 70: estati con l’asfalto rovente della metropoli a friggere sotto i piedi, inverni di nebbie che ancora timidamente si affacciavano in città.

Papà Giorgio dipendente di una piccola azienda farmaceutica, mamma Laura casalinga. Lui, Stefano, figlio unico, più che viziato marcato stretto, all’italiana. Il calcio, per due genitori milanesi dotati di grande realismo, non è un buon investimento. Stefano comincia la sua avventura con lo sport impugnando una racchetta da tennis. «La mia è stata un’infanzia felice. I miei genitori si sono fatti in quattro per non farmi mancare nulla. Però volevano che studiassi e il calcio — non avevano tutti i torti — mal si abbinava ai libri. Però la mia passione era grande. Mi hanno messo subito in difesa, perché ero più sviluppato rispetto ad altri». Primo domicilio calcistico la storica «Frassati»: da li è transitato anche Giovanni Trapattoni. Quindi l’Inter, non il Milan.

«Due anni in nerazzurro, poi la società passò da Fraizzoli e Pellegrini e il settore giovanile venne ridimensionato. Io finii alla Pro Sesto, ma non fui il solo a dover cambiare club. Ricordo che con me c’era Beppe Signori che andò a Leffe». Alla Pro Sesto Nava resta poco, perché lo vuole il Milan. Ma suo padre e suo madre si oppongono. L’impegno è troppo gravoso. La signora Laura, per lasciargli vivere quest’avventura, pretende (tempra da procuratore) una carta privata dal presidente della Pro Sesto, Pasini Peduzzi: se il rapporto con il Milan non andrà a buon fine, Stefano potrà tornare alla vecchia società così da continuare a giocare a pallone vicino a casa.

«Stavo in ballo dodici ore al giorno. La mattina a scuola, poi mia madre mi accompagnava a piazzale Lotto a prendere il bus per Milanello. Tornavo a casa alle nove e dovevo studiare. Una faticaccia. Però ho raggiunto la maturità scientifica e per me è stata una grossa soddisfazione. Non è stato facile, i professori erano poco comprensivi nei confronti del calcio. A parte la signora Zanaboni. Mi ha rimandato, ma ha lottato con gli altri docenti perché i miei sforzi fossero premiati».

Nava percorre tutta la trafila rossonera. «Un nome su tutti: Italo Galbiati. Fondamentale come allenatore, ma soprattutto come educatore. Ha avuto un ruolo decisivo nella mia maturazione». Invece, sul Milan in cui il giovane Nava sta crescendo, ha un impatto clamoroso l’arrivo del nuovo presidente, Silvio Berlusconi. «Nel 1984-85, prima del suo insediamento, i problemi economici e organizzativi della società erano enormi. Vivere il passaggio è stato entusiasmante: ogni cosa, improvvisamente, era seguita e curata, dalle grandi infrastrutture, come il centro sportivo di Milanello, ai piccoli dettagli del settore giovanile».

Nava mette un piede in serie A il 3 marzo 1991, Milan-Na-poli 4-1. In panchina c’è Arrigo Sacchi, in campo c’è Maradona. Ultimi fuochi per entrambi. «Maradona me lo ricordo grassottello, ma sempre ricco di intuizioni geniali. In quella partita ho capito cosa vuol dire “campione” e cosa devi possedere per giocare in serie A. Maradona andava da una parte, Careca dall’altra. Pareva impossibile, ma Maradona ha spedito il pallone tra i piedi di Careca. Mi sono detto: qui di occhi ne occorrono quattro».

Passa da Sacchi a Capello: «Il primo un innovatore, studiava tutto nei minimi dettagli, ai limiti del fanatismo. Il secondo ha saputo valorizzare il lavoro del primo, ha trasferito le sue qualità nel gruppo: mi ha insegnato a essere caparbio, grintoso. Ho una grandissima stima di lui, ma il rapporto era sempre conflittuale, non semplice».

Il suo è il ruolo del gregario di lusso che è indispensabile in qualsiasi grande squadra. Di scudetti ne vince due, 1992-93 (14 presenze) e 1993-94 (3 presenze). «Veramente, se dovessi contare i premi scudetto, allora sono tre: avendo cominciato al Milan anche la stagione 1995-96, prima di andare al Padova, ho ricevuto i soldi anche per quel titolo». Da Padova emigra al Servette con Boskov, poi alla Samp dove, nel 1999, a neanche trent’anni, termina la sua carriera a causa di un brutto infortunio muscolare con ricaduta.

«Grosso rammarico, ma compensato dalla convinzione di aver vissuto la vita che volevo e dalla felicità per aver trovato subito una mia collocazione. Vedo le difficoltà di altri giocatori a fine carriera. Io non le ho trovate».

Stefano si è comprato una casa in centro a Milano dove vive con sua moglie Olivia e il figlio Leopoldo. Per lui si è dato ai libri di puericultura. «Ho in mano “I no che insegnano a crescere”». Quanti ne dirà a suo figlio quando vorrà fare il calciatore?

StagioneClubPres (Reti)
1988-1989 Virescit Bergamo30 (2)
1989-1990 Reggiana32 (0)
1990-1991 Milan2 (0)
1991-1992 Parma19 (0)
1992-1995 Milan19 (1)
1995-1996 Padova17 (0)
1996-1997 Servette10 (1)
1997-1999 Sampdoria14 (0)
2000-2001 Pro Sesto12 (0)