MONTI Luis: l’eroe dei due mondi

L’italo-argentino ha impresso il suo nome nei libri dei record per un’impresa che probabilmente rimarrà ineguagliata: è stato l’unico calciatore a disputare due finali della Coppa del Mondo per due nazioni diverse.

Sai quanti calciatori hanno disputato due finali di Coppa del Mondo di fila? Beh, in realtà non è così raro trovare giocatori che hanno partecipato a più di una finale mondiale. Nel calcio internazionale, ci sono state delle epoche in cui alcune nazionali hanno dominato la scena per diversi anni e, in quei periodi, molti dei loro campioni hanno avuto la fortuna di giocare in due edizioni consecutive della Coppa del Mondo, raggiungendo spesso il traguardo finale. Pensiamo agli Azzurri del 1934 e del 1938, per esempio, ai brasiliani del 1958 e del 1962, e poi del 1998 e del 2002, agli olandesi del 1974 e del 1978, agli argentini del 1986 e del 1990, o ai tedeschi che hanno fatto ancora meglio e si sono presentati in tre finali consecutive tra il 1982 e il 1990.

Visto che ci sono state tante occasioni di nazionali che hanno disputato due finali consecutive, non è poi così difficile pensare a calciatori che abbiano fatto lo stesso. Fare parte di quel club speciale potrà anche essere un privilegio, ma non certo un’eccezione. Se però cambiamo un po’ la domanda e chiediamo invece quanti calciatori hanno disputato due finali consecutive, ma con due maglie diverse, allora siamo su un altro pianeta. Qui parliamo di uno solo.

Se non sai chi sia, ti presento Luis Felipe Monti, protagonista con l’Argentina nella prima finale di Coppa del Mondo nel 1930, e poi con l’Italia quattro anni dopo. Già questo sarebbe abbastanza strano da meritare una storia. Ma se aggiungiamo il fatto che ha giocato entrambe le finali sotto minaccia di morte, allora siamo di fronte a una leggenda.

L’Argentina prima della finale mondiale del 1930. Monti è il terzo in piedi da sinistra

Luis Monti nacque a Buenos Aires nel maggio 1901 e iniziò la sua carriera calcistica con il club locale Huracán, vincendo il suo primo titolo nella sua unica stagione al club prima di trasferirsi al Boca Juniors l’anno successivo. Fu una parentesi brevissima con l’Azul y Oro, durata solo tre mesi e senza mai esordire in prima squadra, prima di passare al suo terzo club diverso di Buenos Aires in meno di quattro mesi, quando firmò per il San Lorenzo. Fu con gli azulgrana che Monti, appena ventenne, si affermò come un grande calciatore.

Era un giocatore duro e grintoso quando la sua squadra non aveva il pallone, ma una volta in possesso dimostrava una qualità tecnica rara per un giocatore del suo ruolo. Il suo dinamismo gli valse il soprannome di Doble Ancho – doppia larghezza – in riconoscimento dello spazio che copriva in campo. Le sue doti lo rendevano adatto sia a giocare come centrocampista centrale che come mediano davanti alla difesa, grazie al suo fisico e alla sua capacità di leggere il gioco. Durante la sua permanenza al club, furono molti gli attaccanti avversari costretti a visitare l’infermeria dopo aver incrociato Doble Ancho.

Nel linguaggio moderno, si potrebbe dire che era in parte un “centrocampista difensivo” con abilità da “regista”. Un talento che sarebbe stato apprezzato e sfruttato appieno dall’altra parte del mondo più avanti nella sua carriera.

Luis Monti visse con il San Lorenzo un’epoca d’oro e rivestì un ruolo fondamentale nella conquista dei tre titoli nazionali nel 1923, 1924 e 1927. In Argentina, il calcio era ancora ufficialmente amatoriale, ma il professionismo avanzava a grandi passi, sfumando i confini tra i due mondi. Monti, oltre a giocare, lavorava anche per il municipio, ma i suoi due stipendi, per un totale di circa 200 dollari al mese, non gli garantivano una vita agiata. Quando si presentò l’occasione di guadagnare di più grazie alle sue doti calcistiche, non poté che accettare.

Nel 1924, il ct dell’Argentina Angel Vázquez si accorse del suo talento e lo convocò in nazionale. Tre anni dopo, Monti fece parte della squadra che vinse il campionato sudamericano con l’Albiceleste e ottenne anche una medaglia d’argento alle Olimpiadi del 1928. In quella squadra c’era anche Raimundo Orsi, che nel 1928 lasciò il Sud America per le ricchezze offerte dall’Italia, firmando per la Juventus e diventando uno degli oriundi, cioè i giocatori che cambiavano nazionalità da argentina a italiana grazie alla loro discendenza.

Nel 1930 si tenne in Uruguay la prima edizione della Coppa del Mondo. Luis Monti era già considerato uno dei migliori centrocampisti del continente e un pilastro della nazionale argentina. Nella prima partita contro la Francia, fu lui a segnare l’unico gol del match a dieci minuti dalla fine, lanciando l’Albiceleste verso la vittoria del girone. Nella seconda partita l’Argentina travolse il Messico per 6-3, prima di chiudere il gruppo con un 3-1 sul Cile che la portò in semifinale contro gli Stati Uniti.

Le due semifinali furono una dimostrazione di forza delle squadre sudamericane. Nell’altra partita, l’Uruguay padrone di casa sconfisse la Jugoslavia per 6-1, mentre un altro gol di Monti aprì la strada all’Argentina per un risultato altrettanto netto sugli americani. Non c’erano dubbi sul fatto che la finale tra l’Uruguay e la squadra di Monti sarebbe stata la vera sfida tra le due migliori squadre del torneo, con i vincitori che sarebbero entrati nella storia come i primi campioni del mondo riconosciuti dalla FIFA.

L’Uruguay era la potenza mondiale del calcio, avendo vinto le Olimpiadi del 1924 e nel 1928, quando Monti e l’Argentina persero ad Amsterdam la finale contro la Celeste dopo una ripetizione in seguito a un pareggio per 1-1. Monti aveva pareggiato i conti in quella seconda partita, segnando poco prima della mezz’ora dopo che Roberto Figueroa aveva portato in vantaggio l’Uruguay, ma un gol nel finale di Héctor Scarone consegnò ai campioni in carica un’altra medaglia d’oro e all’Argentina un secondo posto amaro. Due anni dopo, a Montevideo, Luis Monti e i suoi compagni erano determinati a vendicarsi.

Prima della finale, circolavano voci che Monti si fosse fatto male in una delle sfide del girone e che la situazione si fosse aggravata nella semifinale contro gli americani. Forse, in altre circostanze, avrebbe rinunciato alla partita successiva, ma questa era la chance per conquistare il titolo di migliore squadra del mondo, e per questo l’Argentina aveva bisogno di schierare tutti i suoi assi. Luis Monti era sicuramente uno di loro. Quel giorno, però, avrebbe disputato una delle sue più prestazioni peggiori. Forse le voci sugli infortuni erano fondate. O forse c’era un’altra ragione…

La partita si giocò il 30 luglio 1930 all’Estadio Centenario di Montevideo davanti a oltre 68.000 spettatori, la maggior parte dei quali tifava per l’Uruguay, desideroso di confermare il suo primato nel calcio mondiale. Dopo dodici minuti, sembrava che il sogno fosse a portata di mano, quando un tiro di Pablo Dorado si infilò tra le gambe del portiere argentino Juan Botasso portando i padroni di casa in vantaggio. L’Argentina però non si arrese e al termine del primo tempo non solo aveva pareggiato, ma era anche passata in testa.

Il primo gol arrivò al 20’, quando Carlos Peucelle trasformò un cross sul secondo palo e riportò in equilibrio la partita. Poi, a otto minuti dall’intervallo, un tiro da fuori area di Guillermo Stábile – che avrebbe chiuso il torneo come capocannoniere – sorprese il portiere di casa Enrique Ballestrero e zittì il pubblico, mandando gli ospiti negli spogliatoi con un gol di vantaggio. Come è andata poi, tutti lo sappiamo, ma il fatto che l’Argentina subisse poi tre gol nel secondo tempo e che l’Uruguay ribaltasse il risultato vincendo per 4-2, fa pensare che qualcosa, fuori o dentro il campo, successe.

Anni dopo, Lorena Monti raccontò che suo nonno le aveva parlato più volte delle minacce ricevute durante la sua carriera per alterare l’esito delle partite. Quella riguardante la finale dei Mondiali del 1930, però, le era rimasta impressa nella memoria. “All’intervallo, quando l’Argentina era in vantaggio per 2-1, gli dissero che se l’Argentina non avesse perso, avrebbero ucciso mia nonna e mia zia”. È facile dire che i giocatori non dovrebbero farsi influenzare da queste cose, ma una posizione di principio in astratto potrebbe venire a mancare se messa davanti a una scelta così drammatica, soprattutto in tempi in cui la legge e l’ordine potevano essere meno garantiti. Monti disse anche alla nipote che molti altri calciatori argentini avevano ricevuto vaghe minacce, ma nessuna così precisa come quella rivolta a lui.

La minaccia condizionò la prestazione di Monti e l’esito della partita?Doble Ancho” era il pilastro dell’albiceleste e chi aveva fatto la minaccia sapeva bene quale giocatore colpire per influenzare il risultato. L’Uruguay alzò il trofeo e la famiglia di Monti fu salva. Una delusione stemperata da un grande sollievo.

Dopo i Mondiali, Monti avrebbe dovuto tornare in Argentina al San Lorenzo, ma la visita di due emissari italiani cambiò tutto. Gli annunciarono che presto avrebbe ricevuto una proposta da una squadra del Belpaese e che, accettandola, avrebbe guadagnato $ 5.000 al mese, una cifra enorme rispetto al suo stipendio attuale. In più, avrebbe avuto una casa, un’auto e altri benefit. Per rendere più credibile l’offerta imminente, gli dissero anche che dietro a tutto c’era nientemeno che Benito Mussolini.

Sì, perché la prossima Coppa del Mondo si sarebbe svolta in Italia, e il Duce voleva fortissimamente vedere trionfare gli Azzurri. Con la “campagna” degli Oriundi già in atto per reclutare giocatori stranieri di origine italiana, Monti, i cui genitori erano romagnoli, era il candidato ideale. Quando l’offerta arrivò, si scoprì che proveniva dalla Juventus. Monti si trasferì a Torino e ottenne la cittadinanza italiana, diventando così eleggibile per giocare con gli Azzurri. Aveva già giocato 16 volte per la sua Argentina, segnando cinque gol, ma da quel momento in poi avrebbe indossato solo la maglia della sua nuova patria.

Monti si unì alla Juventus nel 1932, sotto la guida di Carlo Carcano, ma quando arrivò a Torino, il club rimase deluso nel constatare che il loro nuovo acquisto stellare era a dir poco in sovrappeso e chiaramente fuori forma. Fu sottoposto a un allenamento intensivo di un mese per mettersi in condizione. Quando fu pronto, Luis Monti non solo divenne un pilastro dei bianconeri nel suo ruolo di centrocampista, ma fu anche nominato capitano della Juve con cui vinse quattro scudetti consecutivi dal 1932 al 1935. Durante una carriera di nove anni a Torino, disputò più di duecento partite, segnando 20 gol nonostante la sua posizione prevalentemente difensiva.

Solo dodici mesi dopo il trasferimento a Torino, Monti fu convocato per giocare con l’Italia. Vittorio Pozzo era l’uomo incaricato di portare al successo gli azzurri, e vide in lui un giocatore perfetto per il ruolo di “mediano offensivo” nel Metodo che aveva scelto di adottare con gli azzurri. Basato su un 2-3-5, Pozzo sapeva che per permettere ai suoi mediani di controllare il centrocampo, avrebbe dovuto rinforzare il loro numero arretrando due dei suoi attaccanti, creando così una specie di 2-3-2-3. Questo non solo rafforzava la difesa, ma permetteva anche una rapida transizione da difesa a attacco, facilitando i contropiedi in fase di recupero del pallone. Monti era l’anello di congiunzione tra il difensore del Bologna Eraldo Monzeglio e il resto della squadra e Pozzo lo riteneva fondamentale per il suo sistema di gioco.

Il 27 giugno 1934, l’Italia esordì ai Mondiali travolgendo gli Stati Uniti per 7-1 nel primo turno. Monti non andò a segno, ma il suo connazionale oriundo, Raimundo Orsi, realizzò una doppietta. Lo stesso giorno, al Littoriale di Bologna, un’anonima Argentina, privata dei suoi migliori elementi passati sotto le insegne italiane, e senza nessuno dei protagonisti della finale persa quattro anni prima contro l’Uruguay, fu eliminata dalla Svezia per 3-2.

Nei quarti di finale, l’Italia si trovò di fronte una Spagna ricca di talento. Tra le fila iberiche spiccavano nomi come Bosch e Lángara, e tra i pali c’era il mitico Ricardo Zamora. Il match fu durissimo, con entrambe le squadre che non si risparmiavano sui contrasti. Al 30’, lo spagnolo Luis Regueiro portò in vantaggio la sua squadra, ma Giovanni Ferrari, compagno di Monti alla Juve, pareggiò poco prima dell’intervallo. Con l’1-1 finale, serviva una ripetizione.

Le conseguenze del primo incontro si videro quando la Spagna annunciò la formazione per la seconda partita. Ben sei dei loro titolari, compreso Zamora, erano fuori causa. Gli animi non si erano placati rispetto al primo scontro e durante la partita altri tre spagnoli dovettero abbandonare il campo per infortunio. L’Italia alla fine ebbe la meglio in una sfida ancora più aspra della precedente grazie a un gol di Meazza.

Nonostante i colpi ricevuti – e inflitti – lungo il cammino, l’Italia e i suoi oriundi raggiunsero le semifinali del torneo, dove due di loro furono decisivi nella vittoria contro l’Austria. Toccava a Monti e a Enrique Guaita, che aveva seguito gli altri due Oriundi nel viaggio dall’Argentina all’Italia quando si trasferì alla Roma nel 1933.

All’epoca, l’Austria era una delle squadre più forti d’Europa, guidata dal geniale Hugo Meisl. Conosciuti come “Der Wunderteam”, praticavano un calcio sorprendentemente moderno, fatti di precisione e fluidità e basato sulla capacità di tutti i giocatori di aderire alla stessa visione. Molti li hanno considerati i precursori di quel tipo di calcio che sarebbe stato poi chiamato Totaal Voetbal e reso famoso dall’Ajax e dalle nazionali olandesi dei primi anni settanta.

Al centro della squadra austriaca, in tutti i sensi, c’era Matthias Sindelar. Centravanti e capitano carismatico della squadra, Sindelar, per via della sua corporatura esile era soprannominato Der Papierene (Cartavelina), ma il suo impatto sul gioco dell’Austria era tutt’altro che debole, e se l’Italia voleva neutralizzare le magie dei loro confinanti al là delle Alpi, avrebbe dovuto marcare a uomo Sindelar. Un compito su misura per Luis Monti, ed è così che la pensava anche Vittorio Pozzo.

Forse gli austriaci avevano già superato il loro apice, ma erano comunque una squadra di grande qualità, e si preannunciava una sfida tra la loro tecnica e l’atletismo degli italiani. In una giornata piovosa che aveva reso scivoloso il campo di San Siro, il calcio elegante dell’Austria venne penalizzato fortemente, ma fu la marcatura asfissiante di Monti su Sindelar a spegnere del tutto gli austriaci. Sebbene l’Austria avesse il controllo costante del pallone, con Sindelar bloccato da Monti i loro attacchi erano innocui e la partita si decise con un solo gol, anche se discusso, di Guaita.

Dopo la partita, l’arbitro svedese Ivan Eklind venne accusato di aver favorito gli italiani, anche e soprattutto in occasione del gol. Forse non a caso, venne scelto anche per arbitrare la finale in cui l’Italia avrebbe affrontato la Cecoslovacchia allo Stadio Nazionale PNF di Roma.

La Finale si giocò il 10 giugno 1934 davanti a 55.000 spettatori per un match dall’esito univoco per gli Azzurri: Vincere o Morire, come recitava il telegramma inviato da Mussolini il giorno prima.

In campo le cose furono tremendamente difficili per gli Azzurri. Le immagini in bianco e nero della partita non aiutano a capire le dinamiche del gioco, ma si intuisce il nervosismo dell’Italia, mentre i cechi tengono testa agli avversari. Al termine del primo tempo, il risultato era ancora fermo sullo 0-0.

A venti minuti dalla fine, l’Italia subì il gol del vantaggio avversario, realizzato da Antonín Puč, uno dei migliori attaccanti del suo tempo, con 34 gol in 60 partite con la nazionale, ma forse nessuno fu più importante di quello che segnò contro l’Italia, girandosi al limite dell’area e battendo Combi con un tiro preciso.

Nei minuti successivi, i cechi sprecarono due occasioni clamorose per chiudere la partita: Subotka sbagliò a porta vuota e Svoboda colpì il palo con una conclusione. Erano errori che si sarebbero rivelati fatali.

Schiavio, sfinito, andò ad occupare la posizione d’ala e Guaita passò al centro, Pozzo si portò dietro la rete boema per incitare i suoi alla voce e undici minuti dopo il pareggio era cosa fatta grazie ad un tiro a mezz’altezza di Orsi, battuto da una ventina di metri e che Plánička non riuscì nemmeno a sfiorare. Ora la squadra di casa aveva il vento in poppa. I supplementari furono un monologo azzurro, e Angelo Schiavio entrò nella storia del calcio con un rasoterra che batté Plánička da posizione defilata.

Al fischio finale, sulle note dell’inno Giovinezza, gli Azzurri – tra cui Monti e i suoi due connazionali argentini Orsi e Guaita – ricevettero non solo il trofeo Jules Rimet, ma anche una coppa gigantesca che Mussolini aveva fatto realizzare apposta per l’occasione, ritenendo il premio FIFA troppo “misero” per la grandezza dei vincitori.

Luis Felipe Monti aveva impresso il suo nome nei libri dei record per un’impresa che probabilmente rimarrà ineguagliata. Non solo aveva vinto la Coppa del Mondo per la sua patria adottiva, ma era stato l’unico calciatore a disputare le finali della Coppa del Mondo per due nazioni diverse.

La sua consacrazione era ormai ufficiale, ma la sua carriera si avviava fatalmente verso un glorioso tramonto. Monti, campione del mondo, aveva già 33 anni e, nonostante il suo talento e il suo encomiabile impegno, non poteva resistere ancora a lungo. Ma il destino volle che Luisito avesse l’occasione di entrare ancora in qualche modo nella leggenda del calcio, in occasione di una sfida storica contro l’Inghilterra, considerata a quei tempi la maestra indiscussa del calcio mondiale.

Chi conosce la storia del calcio ricorda un famoso InghilterraItalia del 14 novembre 1934 a Londra, sul vecchio campo di Highbury, dove gli azzurri, appena laureati campioni del mondo, tennero testa ai “leoni” britannici perdendo di misura 3-2 al termine di una partita che ebbe toni drammatici. Infatti Luisito Monti subì una frattura a un dito del piede dopo due minuti di gioco e fu costretto ad abbandonare anzitempo una partita che gli sarebbe stata sicuramente congeniale. Vittorio Pozzo, solitamente avaro di parole, racconterà a fine partita:

«Dell’incidente a Monti non se ne accorsero nemmeno i compagni di squadra e forse la prima rete inglese fu dovuta alla cieca fiducia nell’intervento del nostro centromediano. Bisogna precisare che Luisito è fatto di una tempra speciale, taciturno, duro a morire, sa incassare i duri colpi del gioco senza lamentarsi. L’ho costretto a seguirmi negli spogliatoi. Qui giunto mi mormorò di mettergli un fazzoletto in bocca, per non piangere, per non urlare. Aveva un dito del piede spezzato… Ho abbracciato Luisito e l’ho mandato con il massaggiatore Angeli all’ospedale. Sono tornato subito in campo perché non volevo che i ragazzi si impressionassero!».

L’episodio di Londra fu il momento più drammatico ed eroico di una carriera straordinaria e sempre animata da un senso di “appartenenza” sia alle sue due patrie, Argentina e Italia, sia con quella della Juventus. Monti rimase fermo due mesi per guarire dalla frattura. Tornò a giocare anche in nazionale, ma chiuse il suo ciclo nel 1936 a Zurigo, in occasione di Italia-Svizzera, vinta di misura dagli italiani per 2-1.

A 35 anni non poteva pretendere di più dalla nazionale. Vittorio Pozzo, che sapeva essere anche giustamente freddo, stava preparando la nazionale italiana per il secondo titolo mondiale, quello conquistato a Parigi nel 1938. Monti sentiva di aver fatto la sua parte e di aver ricevuto le soddisfazioni che meritava. Non bisogna dimenticare che, oltre a un titolo di campione del mondo, si aggiudicò con la Juventus ben quattro titoli italiani (quattro su cinque del periodo d’oro). Nella stagione 1938-39 chiuse la carriera, mentre sull’Europa e nel mondo si profilavano le nubi della seconda guerra mondiale.

Appese le scarpe al chiodo iniziò, tra notevoli difficoltà in una nazione che si apprestava a entrare in guerra, la carriera di allenatore. Allenò per un anno la Triestina, poi, tornata la pace, diresse nel 1945 l’Atalanta e l’anno successivo il Vigevano. Un glorioso declino che si concluse con il suo ritorno in Argentina, sua prima patria sicuramente amata, ma alla quale, per un preciso disegno del destino, potè dare di meno rispetto alla nostra.