Stranieri d’Italia: S

SALLUSTRO – SANI – SANSONE – SCHIAFFINO – SCHNELLINGER – SELMOSSON – SIVORI – SKOGLUND – SOCRATES – SORMANI – SOSA – STABILE – SUAREZ


SALLUSTRO: il divo di Napoli

Nato in Paraguay da famiglia italiana, Attila Sallustro fu il primo idolo calcistico dei tifosi napoletani. Si trasferì a Napoli a 15 anni e divenne subito titolare dell’ Internazionale di Agnano, dalla cui fusione con il Neaples nacque l’Internaples, con cui giocò i campionati regionali fino al 1926, anno in cui nasceva il Napoli. Figura mitica di campione, per la prestanza fisica e le qualità tecniche, fu il leader indiscusso della squadra, che arrivò fino al terzo posto nel campionato 1933-1934, inserendosi per un breve periodo tra le grandi del campionato.
Divo a tutto campo, Sallustro invase pure le cronache rosa, sposando Lucy d’Albert, famosa soubrette del tempo. A 21 anni esordì nella Nazionale di calcio italiana, nella partita vinta dagli azzurri contro il Portogallo per 6-1, ma in seguito il commissario tecnico Vittorio Pozzo gli preferì Giuseppe Meazza, suscitando le ire dei tifosi napoletani, che ritennero ingiusta l’esclusione di Sallustro dalla Nazionale italiana, con cui giocò solo tre volte. Chiuse come allenatore-giocatore della Salernitana, rimanendo per sempre nella galleraia dei grandi del Napoli.

SANI: un 'cervello' Mondiale

Dino Sani, ovvero il cervello del gioco. Quando arrivò al Milan, nel novembre del 1961, provenendo dal Boca Juniors, la scena della squadra improvvisamente cambiò. Fino a quel momento, aveva vissuto dei gol ma anche delle bizze del grande Jimmy Greaves; dopo, fu calcio e basta, con la conquista dello scudetto.
Rapido ad ambientarsi nell’inverno milanese, “Dino” (il nome con cui era conosciuto nel calcio brasiliano) prese in mano le redini della squadra, offrendole la guida sapiente di un grandissimo costruttore di gioco, dai piedi morbidi e dal passaggio sempre puntuale. Il Milan di Rocco proseguì la sua scalata, vincendo l’anno successivo, a Wembley contro il Benfica, la prima Coppa dei Campioni conquistata da un club italiano.
Sani si era rivelato nel Palmeiras, guadagnandosi la designazione come successore in Nazionale del grande Zizinho. Lento di passo ma rapidissimo nelle intuizioni, nella Selecão divenne il mediano in appoggio alla regia del grande Didi, anche se il suo apporto al titolo mondiale del 1958 in Svezia si limitò alle prime due partite, venendo poi sostituito da Zito.
Nella sua terza stagione italiana un infortunio lo costrinse a saltare le tre sfide con il Santos per la conquista della Coppa Intercontinentale (andata, ritorno e spareggio con vittoria contestatissima dei brasiliani per 1-0), condizionando anche il resto del campionato, al termine del quale, considerato ormai anziano, tornò in patria. Dove si affermò anche come allenatore.

SANSONE: lo specialista della finta

Sarebbe dovuto andare alla Fiorentina, voluto dal grande Petrone, che per vestire la maglia viola aveva posto un categorico aut-aut: «vengo solo se viene anche Sansone, che sa passarmi il pallone…». E invece Raffaele, uruguaiano di genitori campani, non avrebbe mai giocato a fianco del grande connazionale. Solo al momento di imbarcarsi per l’Italia gli fu comunicato che avrebbe giocato per il Bolonia, e non per la Fiorentina, visto che il nuovo allentare dei viola, l’austriaco Fellsner, proveniente proprio dalla panchina bolognese, aveva intenzione di impiantare la solida tradizione del calcio danubiano anche in Toscana, e due uruguaiani in squadra sarebbero stati eccessivi. Così, ad appena ventuno anni, uno spaventato Sansone si presentò sotto le Due Torri, dove fu accolto da un altro fortissimo connazionale, Francisco Fedullo, con cui nacque spontanea una felice intesa, in campo e fuori. Erano i tempi dello “squadrone che tremare il mondo fa”, e Sansone non tardò ad inserirsi nei nuovi schemi.
Mezzala col vizio del gol, divenne celebre per le sue finte, con le quali mandava regolarmente a sedere l’avversario. Togliergli il pallone dai piedi senza commettere fallo era impresa proibitiva. Questo non significava però che non giocasse per la squadra: le valanghe di reti segnate dal grande centravanti Angelo Schiavio furono merito dei rifornimenti che puntualmente giungevano dal centrocampo, ad opera dei due sudamericani. Eppure, dopo due stagioni in rossoblu, Sansone salutò la compagnia e fece ritorno in Uruguay, al Penarol. Ma nel 1934 salì alla presidenza del club felsineo Renato Dall’Ara e volle immediatamente che “Faele” tornasse a vestire il rossoblu e per convincerlo non esitò ad offrirgli un ingaggio da favola. Sarebbero stati altri nove campionati con la maglia del Bologna, fino all’interruzione bellica, conditi da quattro scudetti, tre presenze nella Nazionale italiana, due Coppe Europa (la Champions League di allora) e un trofeo di Parigi. Si è spento nel 1994, nella città che lo aveva adottato.

SCHIAFFINO: il 'Pepe' che dava sapore al gioco

Venne soprannominato l”‘Eroe dei due Mondi” per gli allori mietuti prima in patria e poi in Italia. Iniziò la sua carriera nelle file del Penarol di Montevideo e a soli 17 anni esordì in prima squadra. La sua ascesa fu fulminea, appena un anno dopo era in Nazionale. “Pepe” era un giocatore straordinario: naturalmente ambidestro, trattava la palla con grazia ed eleganza, senza rinunciare alla concretezza, così come, portato all’individualità, riusciva ad inserire senza sforzo il proprio talento da solista nelle trame del gioco di squadra. Nel 1950 toccò l’apice della sua carriera, vincendo il Mondiale al Maracanà di Rio de Janeiro sui padroni di casa: sua la prima rete della “celeste”, suo il passaggio millimetrico che consentì a Ghiggia di fare il bis. Solo nel 1954 però, all’indomani del Mondiale in Svizzera, in cui fu votato miglior giocatore del torneo, venne raggiunto da un emissario del Milan, in cerca del regista capace di colmare il vuoto lasciato dalla partenza del “professor” Gren. Accanto a Schiaffino, tesserato come oriundo in virtù delle sue origini liguri, il Milan potè schierare Nordahl, Sörensen e il vecchio Liedholm. E fu subito scudetto, col condimento dell’esordio (non senza polemiche) nella Nazionale italiana. Famoso per la sua tirchieria, il “Pepe” possedeva un carattere tutto spigoli: un «lei si faccia gli affari suoi!», alitato a un arbitro che lo “importunava” mentre discuteva in dialetto ambrosian-castigliano con Cucchiaroni, gli costò la bellezza di cinque giornate di squalifica. Eccezionale comunque il suo apporto: teneva ben saldi i fili del gioco, senza concedersi finezze superflue, ma la sua classe era grande e gli consentiva pure bottini di gol da attaccante. Altri due scudetti e una Coppa Latina, poi, a 35 anni, il trasferimento alla Roma prima del ritorno in Uruguay.

SCHNELLINGER: il difensore futuribile

Ormai Karl Heinz Schnellinger può essere considerato italiano a tutti gli effetti, poiché tuttora vive e lavora nel nostro paese e ha perfino addolcito il suo accento teutonico. Cresciuto nel Colonia, emerse rapidamente per la pulizia dei fondamentali, che gli consentivano di giocare come difensore, ma anche da mediano, e che si accoppiavano a una forza fisica e a una precisione di interventi formidabili. A 19 anni era già in Nazionale e in Svezia nel 1958, con due presenze, cominciava il suo eccezionale poker di Mondiali che si sarebbe concluso solo con la semifinale dell’Azteca contro l’Italia nel 1970. Nel 1962, conquistato lo scudetto col Colonia, veniva votato calciatore dell’anno. L’anno successivo lo ingaggiava la Roma, “parcheggiandolo” tuttavia al Mantova, per schierarlo in giallorosso la stagione successiva, dopo lo splendido campionato disputato. “Volkswagen”, come venne soprannominato, si ambientò benissimo, segnalandosi come uno dei difensori più continui ed eclettici del campionato (giocava col numero 6, da laterale). Nel 1965 lo acquista il Milan, di cui diventa subito una colonna, elegante ma anche duro negli interventi, perfetta sintesi del periodo d’oro del Milan anni Sessanta, che prende il volo con Nereo Rocco. Vince lo scudetto, la Coppa dei Campioni, la Coppa Intercontinentale, due volte la Coppa delle Coppe e tre la Coppa Italia. Terzino di fascia, libero o mediano, per lui non fa differenza: «Un giocatore moderno» dice «deve sapersi muovere in più ruoli». Giunto al quarto mondiale, incrocia il proprio destino con quello degli azzurri di Valcareggi, provocando con un gol all’ultimo minuto il prolungamento ai supplementari che rendono la sfida immortale.

SELMOSSON: il 'Raggio di luna'

Ennesimo prodotto pregiato sfornato dalla scuola svedese negli anni ’50, Bengt Arne Selmosson cominciò la sua carriera nelle giovanili del Sils per poi passare al Joenkoeping, dove in quattro stagioni giocò 81 partite e segnò 33 reti. Arriva in Italia nel 1952, acquistato dall’allora presidente dell’Udinese Dino Bruseschi, ma non poté essere schierato subito, a causa di un decreto del Presidente del Consiglio che impediva l’impiego di giocatori stranieri. Selmosson rimase inattivo per un anno, ma la stagione successiva fa subito impazzire i tifosi. Mezzala guizzante, dal dribbling sudamericano, trascina i bianconeri friulani, dopo anni di piazzamenti nelle posizioni medio-basse della classifica, al secondo posto, che verrà però vanificato dalla retrocessione per illecito sportivo. Irresistibile nelle giornate di vena, soprannominato “Raggio di luna”, lo svedese è giocatore completo: forte fisicamente, ottimo nel gioco aereo, inventa e segna da fuoriclasse. A fine stagione, fallito un tentativo di azionariato popolare per trattenerlo, viene ceduto alla Lazio e, dopo tre stagioni, all’indomani del Mondiale 1958 chiusosi per la Svezia col secondo posto, alla Roma, per rinsanguare le casse sociali. Nonostante l’ambiente inquieto, sfonda anche in giallorosso, ma nel novembre 1961 la nostalgia per Udine ha la meglio. Non riesce a salvare la squadra; vi giocherà altri due anni in B e con la retrocessione in C termina anche la sua carriera.

SIVORI: genio e follia dell'angelo ribelle

Non seppe mai essere un vero leader, un uomo-squadra, al pari di Pelè, Maradona e Platini, ma sul piano della tecnica individuale non fu secondo a nessuno. Omar Sivori fu scoperto ragazzino dall’ex campione bianconero Renato Cesarini e prontamente tesserato dal River Plate, squadra che gli avrebbe garantito gloria e notorietà internazionale. In Nazionale, con Humberto Maschio e Angelillo, formò il trio di campionissimi denominati “gli angeli dalla faccia sporca”, che sbaragliarono la concorrenza al Sudamericano del 1957. Ma che nel suo destino ci fosse la Juve era chiaro fin dall’inizio: Cesarini fece una soffiata alla sua ex società, che si assicurò il fuoriclasse bruciando sul tempo la concorrenza dell’Inter. Il primo impatto sui tifosi, accorsi all’aeroporto per vederlo, fu deludente: quel ragazzo con l’aria da scugnizzo, le gambe corte e sbilenche sovrastate da una capoccia enorme, che gli era valsa il soprannome di “el cabezon”, non aveva l’aria del fuoriclasse. Bastò la prima uscita con i compagni per far innamorare il popolo bianconero: percorse ben quattro giri di campo palleggiando col suo sinistro fatato, senza mai perdere il controllo della sfera. Al suo fianco, si ritrovò l’altro grande acquisto di Umberto Agnelli, deciso a rinverdire i fasti del club di famiglia: il gigante gallese John Charles, con cui trovò un immediato affiatamento. Tanto lui era perfido e diabolico nei dribbling e nelle finte, quanto l’altro implacabile nel torreggiare di testa e sfondare di piede. Furono gol a grappoli per entrambi, e scudetto al primo colpo. La specialità di Sivori era il tunnel, perché a lui non bastava battere l’avversario, voleva umiliarlo. Il suo unico limite era di tipo caratteriale: in dodici campionati disputati in Italia si guadagnò ben trentatre giornate di squalifica e i suoi furenti litigi con gli arbitri furono all’ordine del giorno. Con la maglia della Juve disputò otto campionati e vinse tre scudetti, ma le sue sempre più frequenti “divergenze” con gli allenatori si infransero sugli scogli di Heriberto Herrera, profeta del “movimiento” e del calcio collettivo. A quel punto gli Agnelli, che pure stravedevano per lui, non lo difesero più. Così, nel 1965, passò al Napoli del comandante Lauro, dove si trovò a formare una coppia-spettacolo con Altafini, giocatore congeniale al suo carattere. Sotto il Vesuvio rimase quattro stagioni, diventando l’idolo del San Paolo.

SKOGLUND: la solitudine del campione

Lennart Skoglund, detto Nacka dal nome del quartiere di Stoccolma da cui proveniva, è stato uno dei campioni svedesi che resero grande la Nazionale scandinava negli anni ’50. Irresistibile in campo quanto indisciplinato e ingenuo fuori dal rettangolo di gioco, non entrò mai nella mentalità dell’ atleta, percorrendo una vita di eccessi. Terminata la carriera fu prima ricoverato in una clinica di recupero per alcolisti, poi, quando tutto sembrava essere tornato nonnaie, a soli 46 anni fu trovato morto in casa, ufficialmente per infarto, ma si parlò anche di suicidio.
Una vita chiusa tragicamente, ma una carriera ad altissimo livello. A 21 anni partecipa ai Mondiali brasiliani del 1950, grazie a una selezione originale: venne giocata una partita tra i giocatori scelti da una commissione tecnica e quelli scelti dai giornalisti; Nacka, inserito fra questi ultimi, ottenne la convocazione. Al ritorno in patria lo ingaggia l’Aik Stoccolma, ma dopo cinque partite accetta l’offerta dell’ Inter. A Milano esplode come inimitabile fantasista d’attacco. Vince i due scudetti consecutivi del catenaccio di Foni, nel 1953 e 1954, esaltato peraltro da grandi campioni. Nel 1958 è tra i protagonisti dello storico secondo posto ai Mondiali in patria, dietro il Brasile di Pelé. Delizia la platea di San Siro con ogni sorta di geniali invenzioni e gol strepitosi fino al 1959. quando, dopo una stagione condizionata da un infortunio, viene ceduto alla Sampdoria. Gioca due anni a Genova ma la sua parabola discendente è già iniziata. Si trasferisce a Palermo da dove, dopo appena sei partite, fugge per far ritomo in Svezia, incontro al suo tragico destino.

SOCRATES: il dottore che non curava la fatica

Studente di medicina, intraprese la carriera di calciatore professionista per garantirsi una totale indipendenza economica dal padre. Con la maglia del Botafogo, impegnato per la maggior parte della giornata dagli studi, si presentava raramente agli allenamenti: però la domenica era protagonista sul campo. Alto, longilineo, provvisto di una naturale eleganza, di tocco morbido e geniale visione di gioco, giocava centravanti arretrato, come fulcro avanzato della squadra e attaccante aggiunto. Dopo la laurea, fu ingaggiato dal San Paolo, con la cui maglia “il tacco di Dio” (così soprannominato per la sua specialità in assist) conquistò tre titoli nazionali e un posto da titolare nella Selecão. Nel 1982, ai Mondiali di Spagna, fu capitano della favolosa formazione che diede spettacolo prima di essere fermata dall’Italia. Impegnato politicamente, il “dottore” rifiutò per qualche tempo offerte dall’estero. Poi, finalmente, nel 1984, ormai trentenne, accettò le offerte della Fiorentina. Accolto come un messia, trovò in squadra un regista classico (Pecci) di cui poteva essere alternativa, ma non complemento. Insofferente ai carichi di lavoro del tecnico De Sisti, non fece nulla per entrare nelle grazie dei tifosi. Facile incontrarlo con sigaretta in bocca e lattina di birra in mano. Gli altri giocatori viola non digerirono affatto la sua propensione al riposo. Così, dopo una stagione di vacche magre, il pigro dottore fu rispedito al mittente. In patria avrebbe dato l’addio al calcio nel 1988 dopo un paio di comparsate con Flamengo e Santos

SORMANI: il Pelè Bianco fiorisce in Lombardia

Aveva giocato due anni nel Santos con Pelè, vincendo uno scudetto, e quando arrivò in Italia, al Mantova, nel 1961, portò in dote il soprannome di “Pelé bianco”. Angelo Benedicto Sormani era un centravanti di manovra, ottimo in zona gol quanto abile sulla trequarti; lo dimostrò nelle due grandissime stagioni giocate in Lombardia, che lo resero l’uomo mercato dell’estate 1964. Finì alla Roma, per la cifra record di 500 milioni. Il trasferimento gli valse l’etichetta di “Mister mezzo miliardo” che, caricandolo di eccessive pressioni, ne soffocò il rendimento. Dopo un solo anno passò alla Sampdoria, dove la sua crisi parve volgere a un precoce declino. La stagione successiva, col passaggio al Milan, avvenne la resurrezione: in cinque anni vinse scudetto, Coppa delle Coppe, Coppa dei Campioni, Inter- continentale e Coppa Italia.
Chiuse la carriera di giocatore indossando prima la maglia del Napoli, (53 gare e 7 reti) poi quella della Fiorentina (9 gare e 0 reti) ed infine quella del Lanerossi Vicenza (46 partite e 9 reti in serie A e 11 presenze con 3 centri in serie B) dove giocò sino alla soglia dei 38 anni. Intraprese poi la carriera di allenatore ottendo buoni risultati soprattutto alla guida di formazioni giovanili.

SOSA: lo speedy gonzales del gol

Giunse a Roma nel 1988, per vestire la maglia della neopromossa Lazio, lanciata dalla gestione Calleri verso traguardi ambiziosi. Il biglietto da visita dell’allora ventiduenne Ruben Ardaiz Sosa era costituito da tre stagioni ad alto livello con la maglia del Real Saragozza. Le prime apparizioni della piccola ala furono entusiasmanti: veloce e brevilineo, possedeva un sinistro al tritolo, dalla breve come dalla lunga distanza. I tifosi lo elessero a idolo, ma ben presto dovettero ridimensionare i sogni di gloria per la sua discontinuità di rendimento, accompagnata alla facilità a innescare polemiche. Ciononostante, rimase l’anima di una squadra sempre incapace di spiccare decisamente il volo, sebbene imbottita di campioni pagati fior di miliardi. Dopo quattro stagioni alla Lazio fu chiamato dall’Inter di Ernesto Pellegrini, dove esibì nella prima stagione il meglio del repertorio. Pur non disponendo di un partner adeguato (Pancev, bollato come “bidone”, giocò pochissimo), divenne uno dei cannonieri più prolifici del campionato. L’anno seguente il macedone fu sostituito da Dennis Bergkamp, altro colossale flop. Toccò ancora a Sosa togliere le castagne dal fuoco, in una stagione vissuta costantemente nella colonna di destra della classifica. Per ricompensa, Ruben fu additato come unico responsabile dei fallimenti interisti. Non andò meglio nel campionato seguente, segnato da un grave infortunio. Un addio in sordina, per il piccolo Speedy Gonzales dal sinistro tonante. Ceduto prematuramente al Borussia Dortmund (una sola stagione con tanto di scudetto), Sosa rientrerà in patria per giocare con Nacional e Racing fino a 39 anni.

STABILE: gloria e dolori del grande 'filtrador'

Capocannoniere con la maglia dell’Argentina al primo campionato del mondo di calcio in Uruguay, Guillermo Stabile, detto “el filtrador” per l’abilità nell’incunearsi in velocità nelle difese avversarie, fu ingaggiato dal Genoa quando i tempi del Grifone che vinceva campionati a mani basse erano ormai finiti, svaniti nella delusione delle cinque estenuanti finali scudetto contro il Bologna del 1925. All’annuncio, i tifosi a centinaia si riversarono al porto, per incitarlo a scendere in campo fin dalla domenica seguente. Guarda caso, l’avversario era il Bologna. La “vendetta” fu consumata: 3-1 per i liguri, con tripletta del centravanti argentino. Ma l’entusiasmo non fu del tutto positivo: la squadra si mise a giocare solo per Stabile e gli avversari non tardarono ad approntare le opportune contromisure. Una delle quali gli provocò la frattura della gamba destra durante un’amichevole contro l’Alessandria, impedendogli di terminare la stagione. Tornò in campo tardi, la stagione successiva, completamente trasformato. La classe era sempre la stessa, ma “el filtrador” non aveva più il coraggio dei vecchi tempi. Al colmo della sfortuna, la gamba fece nuovamente crac a due centimetri dalla vecchia frattura. Il campionato seguente, quello 1933-34, passò alla storia del club rossoblu per la prima retrocessione in Serie B. Poco potè Stabile, costante- mente a mezzo servizio, per evitare l’onta. Non accettando il declassamento, l’anno dopo passò al Napoli, dove ottenne scarso successo. Fece ritorno nelle file del risorto Genoa nel 1935-36, ma, rifiutando la panchina, lasciò la squadra dopo avere disputato un solo incontro di campionato. Se ne andò in Francia, nel Red Star di Parigi, fino alla guerra. Tornato in patria, fu selezionatore della Nazionale, lanciando il trio Maschio-Angelillo-Sivori.

SUAREZ: l'anima della Grande Inter

«Per fare una grande Inter occorre un grandissimo centrocampista. E il più forte che c ‘è in circolazione è Luisito Suarez del Barcellona»: così Helenio Herrera, ex allenatore dei catalani, si rivolse al presidente Angelo Moratti, alla vigilia della stagione 1961-62. Il costo del cartellino era quasi proibitivo, ma il regista dei blaugrana e delle “furie rosse” poteva vantare credenziali invidiabili: due scudetti, due Coppe di Spagna, una Coppa delle Fiere (la Coppa UEFA di oggi) e un Pallone d’Oro, vinto nel 1960. Moratti, da parte sua, giocò la carta Herrera, che il campione spagnolo considerava il proprio maestro: quando il “mago” lo contattò, Suarez non ebbe esitazioni, firmando «el centrato mas fabuloso de toda la historia del fut-bol», come titolarono i giornali catalani.
Il giocatore non deluse le attese, ma non era ancora tempo di vittorie, per l’Inter. L’anno dopo Luisito si presentò ai nastri di partenza trasformato: il giocatore geniale ma a volte troppo egoista del torneo precedente era diventato un infaticabile rifornitore dell’attacco, ispiratore del contropiede. Nel 1962-63 fu scudetto, cui seguì la conquista della Coppa dei Campioni. Era nata la Grande Inter. Di quella squadra proprio Suarez sarebbe stato il giocatore più importante. In nove anni nerazzurri avrebbe conquistato altri due scudetti, due Coppe Intercontinentali e un’altra Coppa dei Campioni, confermandosi leader di una squadra praticamente perfetta. Nel ’70 passò alla Sampdoria, dove rimase tre stagioni. Appese le scarpe al chiodo e diventato allenatore, è stato Ct sia della Nazionale maggiore che dell’Under 21 del suo paese.