Valerio Spadoni: la vita è un fumetto

«Rimpiango di aver giocato in una Roma minore, dove i buoni giocatori arrivavano solo a fine carriera, ma in un certo senso lo scudetto dell’83 è anche figlio di quelle stagioni sciagurate, e di tutti quegli errori»


25 gennaio 1976. Allo stadio Olimpico si gioca Roma-Inter, 45 mila spettatori, cielo soleggiato ma temperatura fredda. E’ il 22° minuto del primo tempo. Palla a Valerio Spadoni, il numero 11 giallorosso, che carica il tiro. Graziano Bini, stopper interista, lo anticipa di un soffio, un battere di ali. Ma con l’altra gamba impatta il ginocchio dell’attaccante avversario. E’ un rumore tremendo: crac, come si legge nei fumetti quando si rompe qualcosa.
Spadoni crolla a terra e urla tutto il suo dolore. Non è la prima volta che si fa male, già l’anno prima contro il Milan si è strappato il quadricipite sinistro ed è rimasto fermo quattro mesi. Ma stavolta si capisce subito che è una cosa molto grave, il ginocchio è uscito dall’articolazione, Bini, sconvolto, piange con le mani nei capelli. Il giorno dopo il Corriere dello Sport dà la notizia dell’infortunio di Spadoni in prima pagina. Il titolo parla di «campionato finito, ma non è l’addio al calcio».

Un recupero, sia pure a lungo termine, sembra ancora possibile. Lo ricoverano al Gemelli, nella stanza 108, decimo piano, “reparto solventi”. La camera è piccola, sul tavolo c’è un giornalino a fumetti.
Poi una bottiglia d’acqua. Nei due giorni che precedono l’operazione è una processione di compagni (ma va in ospedale anche Bini che ottiene il perdono di Spadoni: «Non ha colpa, giochi tranquillo e senza rimorsi: ha fatto il suo dovere di difensore»), pazienti dell’ospedale che tifano Roma, ragazzine invaghite del “Passator cortese del goal” con i baffi alla Charles Bronson ma senza l’aria da giustiziere. Il martedì Spadoni viene operato, il bollettino medico passato ai giornalisti dal professor Santilli dopo l’intervento sembra il referto di un pedone investito da un tir sull’autostrada: «Il calciatore Spadoni, in seguito al grave trauma del ginocchio sinistro, ha riportato la lacerazione del legamento collaterale esterno e del muscolo bicipite femorale nella zona di passaggio fra muscolo e tendine, la rottura della capsula articolare e del legamento crociato anteriore».

Spadoni, ex attaccante, mezz’ala più che una punta vera e propria, che a 25 anni e mezzo, e dopo 80 presenze in serie A e 4 in Nazionale under 23, chiuse traumaticamente con il calcio: «Stava giocando bene», si legge nella pagella del “Messaggero” per Roma-Inter, la sua ultima partita in serie A. Da metà anni Ottanta Spadoni vende strisce di carta e storie disegnate. Ha sempre avuto la passione per i fumetti, lo sbocco è stato naturale.

«Ho cominciato a leggere i fumetti da ragazzino», spiega Spadoni. «Mi piacevano gli italiani: Capitan Miki, Blek Macigno, Mandrake e l’Uomo mascherato. Poi Tex Willer della Bonelli».

Valerio vuole storie che si concludano in una puntata ed è un po’ diffidente con le strisce straniere: si sente poco legato ai supereroi americani che considera troppo di fantasia e anche ai manga giapponesi, quelli che si leggono al contrario, dall’ultima alla prima pagina. Li vende, certo: sono quelli che vanno di più, ma non lo appassionano. Il negozio non ha insegne, Valerio dice che la migliore pubblicità è il passaparola dei clienti. Sono soprattutto ragazzi e vanno a fare acquisti soprattutto di pomeriggio: a parte qualche eccezione, come questi tre appena entrati che, commenta Spadoni, «stamattina devono aver fatto fuoco a scuola».
In curva Sud lo chiamavano anche “Sciabola” per quel suo modo preciso e tagliente di calciare. Ma il rapporto con la grande città per lui non è stato sempre facile: preferiva la Romagna a Roma, la bicicletta alla macchina sportiva, Sangiovese e piadina più che vino dei Castelli e coppiette di cavallo.

Adesso riparliamo di calcio. Lo Spadoni calciatore è morto sul campo, un eroe dell’Olimpico.
«Ho trascorso giorni tremendi», disse ai giornalisti quindici giorni dopo il suo incidente.
«Non è facile entrare in campo con la preoccupazione di vincere una partita e uscirne con la preoccupazione di sapere che forse non ci potrai tornare. E’ successo tutto in un momento, mi sembrava impossibile che potesse essere accaduto proprio a me. Due settimane d’ospedale però mi hanno lentamente cambiato. Ho pensato a Kilgour, l’americano dell’Ariccia che si è rotto la spina dorsale, ho pensato a quei malati che mi venivano a trovare con malattie incredibili e dicevano di farmi forza, loro che ne avevano pochissima per sè. Ho imparato ad amare di più la vita, adesso mi sento dentro un’energia immensa. Voglio guarire, lo voglio a tutti i costi».

La Roma primi anni Settanta è ancora una Rometta. Presidenti il costruttore rosso Marchini e Anzalone, allenatori Helenio Herrera al crepuscolo, Scopigno e Liedholm che per vincere in giallorosso dovrà aspettare una decina d’anni e l’arrivo del senatore Viola.
In campo (è la formazione di Roma-Inter 1975-76, l’ultimo anno di Spadoni, la Roma salva solo all’ultima di campionato): Paolo Conti, Morini, Rocca, Negrisolo, Santarini, Peccenini, Petrini, Boni, Prati, De Sisti e Spadoni.
«Ho il rimpianto di aver giocato in una Roma minore – ragiona Valerio – Nella Roma di Marchini e Anzalone i buoni giocatori arrivavano solo a fine carriera, come Del Sol. Quelli bravi e giovani venivano venduti al miglior offerente, prendi l’esempio di Capello e Spinosi. Ma considero la Roma degli anni Ottanta figlia degli errori, dei fallimenti e dei calciatori che erano passati prima. In questo senso, ma solo in questo senso, c’è anche del mio nello scudetto del 1983. La Roma dall’anno del mio infortunio ha cominciato la sua risalita. Non vendeva più, comprava».

Malgrado i trascorsi romani e romanisti, Spadoni è tifoso del Milan. E’ un piccolo mistero. Da ragazzino si esaltava per il Real Madrid di Di Stefano, Gento e Puskas. In Italia seguiva il Bologna di Bulgarelli («la più grande mezz’ala italiana del dopoguerra»), Pascutti e Haller. Il suo calciatore preferito è Pelè («Maradona nella mia classifica personale arriva al massimo secondo»), poi, a parte Di Stefano, Rivera, Mazzola, Platini e Falcao.

«Il calcio attuale non è divertente», continua. «Le squadre sono racchiuse in venti metri come in una tonnara. Le risorse atletiche contano di più di quelle tecniche, un’assurdità».
Spadoni ha un rapporto difficile con il calcio di oggi. Non vede le partite allo stadio e si sente un po’ disgustato. E non solo dal modo di giocare: il vero problema è il contorno. «Non mi ritrovo più – si lamenta – Il mio calcio era più artigianale e anche più semplice. Adesso invece è tutto esasperato, soprattutto dal punto di vista finanziario. C’è la Borsa. Ai miei tempi, il rapporto tra lo stipendio di un giocatore discreto e quello di un operaio specializzato era di dieci a uno, al massimo venti a uno. Io guadagnavo due milioni al mese, la gente normale campava con trequattrocento mila lire di stipendio».

«Mai fatto una scenata sullo zero a zero», avverte. E non ha mai fatto un goal di mano e non odiava la Lazio. In un derby una volta segnò da metà campo: traversone, la palla arriva in porta, forse dentro, forse no. L’arbitro convalida. Un altro si inventerebbe una scena da circo, via la maglia e corsa sotto la curva. Spadoni alza il braccio e torna a centrocampo. Fine.
Ecco a chi somiglia Valerio. A Corto Maltese, il marinaio di Hugo Pratt, anti-eroe, leale e disincantato. Quello che quando gli chiedevano: Ehi Corto, dove stai andando? Rispondeva: Non lo so, lontano.

Adattamento testo di Guy Chiappaventi

Valerio Spadoni (Lugo, 15 aprile 1950)

1967-1968 Baracca Lugo29 (10)
1968-1969 Atalanta0 (0)
1969-1970 Baracca Lugo31 (12)
1970-1972 Rimini71 (29)
1972-1976 Roma80 (12)
1976-1977 Rimini0 (0)