La rivoluzione degli sponsor

La vera svolta arriva nel 1978 quando l’industriale dei gelati Teofilo Sanson, presidente dell’Udinese, inserisce sui pantaloncini dei giocatori il suo marchio: uno schiaffo alla Federcalcio proibizionista e una breccia finalmente aperta. Nell’81-82 scendono in campo le prime maglie con la pubblicità.

In principio fu Meazza. Sì, il mitico Peppino, l’icona del calcio italiano degli anni Trenta che si stagliò nell’immaginario collettivo come una leggenda della pedata, un eroe da osannare: quello che oggi si dice uomo-immagine. Mentre mostrava il suo sorriso suadente per pubblicizzare il dentifricio “Diadermina”, non poteva sapere, il “Balilla”, di aver fatto da testimone a un matrimonio che solo dopo mezzo secolo si sarebbe autenticamente consumato: il calcio che sposa gli sponsor.

Ora che lo show-business ha contaminato i prati verdi, e che perfino le “sacre” maglie del Barcellona hanno perso la verginità , i flashback stile Carosello corrono il rischio di ridursi a stucchevoli operazioni-nostalgia. Ma potrebbe anche scapparvi una risata riavvolgendo il nastro fino al 1978.

Il calcio, le divise da gioco e i gelati. Sì, i gelati. Altro che accostamento bizzarro. È un magnate dell’ice-cream, Teofilo Sanson, a tessere le fila da scaltro burattinaio. E a ribellarsi al proibizionismo. La Federcalcio nostrana, ai tempi, credeva ancora alla sacralità del gioco: quindi, niente pubblicità sulle maglie. Il buon Teofilo, presidente dell’Udinese, sai che fa? Sottoscrive un accordo tra il club friulano e la ditta di gelati: 100 milioni di lire per il campionato di B 1978-79 in cambio del marchio sui calzoncini.

Domenica 9 ottobre ’78 l’Udinese gioca con il Foggia, sui pantaloncini bianchi dei calciatori campeggia la scritta nera dello sponsor. Un fulmine a ciel sereno. Il regolamento era stato aggirato prendendosi gioco di una lacuna del comma M dell’Articolo 16 che, al terzo capoverso, recitava:

«Durante qualsiasi gara non è consentito al giocatore di portare sulle maglie distintivi di natura politica, confessionale e scritte pubblicitarie. Eventuale deroga, limitatamente a scritte pubblicitarie, è ammessa per le società del settore dilettantistico e giovanile, se direttamente autorizzate dal proprio comitato regionale».

No ai marchi sulle maglie, ma nessun riferimento ai pantaloncini. Ecco l’escamotage, che però non evitò all’Udinese la multa di 10 milioni di lire.

Teofilo Sanson con il capitano dell’Udinese Bonora. Da notare lo sponsor sui pantaloncini

«Ho cominciato a pensare a quest’idea » raccontò all’epoca Teofilo Sanson «guardando in televisione la scritta “Adidas” sui pantaloncini della nazionale olandese durante i campionati del mondo».

Il colpo di teatro di Sanson non fu, tuttavia, il primo esempio di sponsorizzazione di una squadra di calcio in Italia. Nel 1953 il Vicenza firmò una convenzione con la Lanerossi, imitato dal Monza con la Simmenthal, dal Ravenna con la Sarom, dal Modena con la Zenit (100 milioni di lire nel biennio 1957-59), dal Mantova con l’Ozo, fino ad arrivare al binomio TorinoTalmone. Uno smacco per i nostalgici del grande Toro. Nonostante l’iniezione di denaro (circa 30 milioni) da parte dell’industria del cioccolato, i granata nella stagione 1958-59 retrocedettero in Serie B e offrirono al presidente di Lega, Giuseppe Pasquale, il grimaldello per ritornare alle vecchie “buone maniere”: divieto agli abbinamenti pubblicitari, unica deroga al Vicenza che continuò così a chiamarsi Lanerossi in virtù di un accordo preesistente.

Il proibizionismo voluto da Pasquale, negli anni, alimentò il partito dei dissidenti riformatori. Il calcio era ormai entrato, attraverso la tv, nelle case degli italiani, alcuni club si erano trasformati in società per azioni, le regole di mercato iniziavano, seppure timidamente, a sovrapporsi ai princìpi ludici. L’ascesa del calcio come fenomeno di massa non si poteva arrestare e con il caso-Sanson anche i più riottosi alla modernità intuirono che non si poteva tornare indietro.

Nel fatidico ’78 si aprì un lungo e tormentato dibattito sulle sponsorizzazioni. E i dirigenti di allora arrivarono a ipotizzare una gestione comune degli introiti pubblicitari, come spiegava il presidente di Lega, Renzo Righetti, sulle pagine della Gazzetta dello Sport dell’ottobre 1978:

«Tutti i presidenti hanno convenuto che la gestione della pubblicità dovrà essere centralizzata, al fine di garantire l’equilibrio economico tra le società».

Prove tecniche di mutualità, diremmo oggi. Già erano ammessi i partner tecnici, le case produttrici di articoli sportivi che sugli indumenti indossati dai calciatori potevano stampare il proprio logo, purché non più grande del formato 3×4 cm. La scusa era che queste ditte, anziché pagare in moneta sonante, fornivano gratuitamente o con sconti eccezionali il materiale da gioco: per i club il risparmio andava dai 35 ai 45 milioni di lire l’anno.

Ma il desiderio di trasgredire le regole era troppo forte e così nell’agosto 1979 il presidente del Perugia, Franco D’Attoma, fece passare il pastificio Ponte per sponsor tecnico. Come? Bastava inventare una linea di abbigliamento assolutamente fittizia, la Ponte Sportwear, sfruttando un contratto di licenza con un vero produttore di articoli sportivi, e il gioco era fatto. L’artificio fu ugualmente punito, con 20 milioni di multa, quisquilie rispetto ai 400 intascati per la sponsorizzazione.

Alla fine degli anni Settanta il settimanale Guerin Sportivo condusse la sua battaglia affinché il calcio si adeguasse ai tempi, soprattutto alla ricerca di quell’autofinanziamento che rappresentava la panacea per riordinare i conti dissestati delle società. L’allora direttore Italo Cucci sosteneva che i club, anziché «scomodare lo Stato, indebitato e scroccone, per sanare i propri bilanci», avrebbero dovuto gestire in proprio lo spettacolo calcistico: «Ci troviamo davanti a una miniera inesplorata e temiamo di avventurarvici timorosi del buio quando invece già sappiamo che là c’è l’oro scintillante».

Il mondo pubblicitario era troppo allettante, lo star-system aveva già indicato la via: il calcio non poteva dire di no. Ecco lo sdoganamento tanto atteso. Dalla stagione 1981-82 i club poterono così concedere le proprie maglie, per una superficie di 100 centimetri quadrati, a quelle aziende che avevano ormai individuato nel football e nei suoi osannati interpreti le galline dalle uova d’oro. E già dai primordi si materializzò quella sperequazione che oggi è terreno di scontro nel Palazzo: in Serie A si andava dai 150 milioni di lire percepiti da Ascoli e Bologna ai 900 della Juventus, per un totale di circa 6 miliardi di lire dell’epoca.

Il trionfo Mundial ’82 innescò reazioni a catena. Fu sottoscritto un accordo tra la Figc e un pool di grandi aziende per la valorizzazione promo-pubblicitaria dell’Italia. La maglia azzurra con solo il tricolore finiva in soffitta: il 3 novembre 1984 nella gara contro la Svizzera debuttava il nuovo logo. Era stata voltata pagina definitivamente: anche la Nazionale diventava un brand.

Testo di Marco Iaria

Pablito il primo “marchio” di successo

Un giorno Paolo Rossi, non ancora “Pablito”, scese in campo con la maglia immacolata. Mentre i compagni, al Perugia, reclamizzavano la pasta Ponte. Era il 1979 e il paradosso si ripetè per altre due domeniche di campionato. Rossi non era il brutto anatroccolo, tutt’altro. Si distingueva dal gruppo perché era il più ricercato, perché era un personaggio. E uno dei suoi sponsor personali, la Polenghi-Lombardo, gli vietò di esibirsi in pubblico con il marchio di una concorrente stampato sulla divisa di gioco. C’era un contratto in esclusiva e lui non si poteva opporre. Il caso finì sulle prime pagine dei quotidiani sportivi e fu il primo grande conflitto d’interessi nella lunga storia tra calcio e sponsor in Italia.

Ai tempi c’era grande confusione e mancavano regole chiare. Come quelle che distinguevano il diritto di ogni calciatore di sfruttare la propria immagine, libero dagli obblighi contrattuali con le società d’appartenenza. La guerra tra sponsor, all’epoca, traeva linfa vitale dall’incompetenza dei dirigenti (la figura del responsabile marketing non esisteva) e dal vuoto normativo. La Polenghi voleva il goleador tutto per sé:

«È l’immagine di Rossi che a noi preme perché la campagna pubblicitaria non riguarda solo la sua bravura ma soprattutto il fatto che sia sempre in forma. Lo è perché trae energia dai nostri prodotti. Non certo perché mangia altre cose».

Altri giocatori, come Fulvio Collovati e Antonio Cabrini, prestavano il volto alla pubblicità, ma l’universo mass-mediatico che ruotava attorno a Rossi non aveva paragoni. Fu il primo calciatore italiano a fare fortuna con l’attività promo-pubblicitaria. Prima ancora che esplodesse definitivamente, pubblicizzava prodotti che andavano dalle calzature ai jeans, dalle tute sportive alle bevande. Ecco le parole dell’indimenticato Pablito:

«Sono stato uno dei primi ad aprire la strada alle sponsorizzazioni nel calcio. In Italia s’iniziava a capire in quegli anni che il nostro sport poteva e doveva valorizzare la sua popolarità. Comunque, non è che mi sentissi un privilegiato, i contratti non erano faraonici come adesso. La svolta avvenne dopo la conquista della Coppa del Mondo. Gli ingaggi salirono, la Federcalcio per tre anni ci riconobbe una percentuale sui contratti di sponsorizzazione. Prima di ogni partita della Nazionale andavano in onda gli spot del pool di grandi sponsor che si erano legati alla Figc».

Dopo la Spagna, gli americani bussarono alla porta di Pablito. L’Img, il colosso pubblicitario che cura l’immagine dei campioni dello sport mondiale, gli offrì 2,2 miliardi di lire per cinque anni, dal 1982 al 1987. «Abbiamo preso Rossi» disse un giorno il guru Mark Hume McCormack, che fondò la Img nel 1960 «perché è il calciatore più popolare, come lo era Pelé quando lo mettemmo sotto contratto».

Era iniziata una nuova era per il calcio italiano. Ancora Rossi:

«Prima mi ero affidato ad un amico che gestiva un’agenzia di pubblicità, ma quando ho firmato con la Img tutto è cambiato. Il calcio per gli americani era un fenomeno lontano, grazie all’exploit dell’82 si resero conto che potevano fare quattrini anche con noi».