TARDELLI Marco: uno Schizzo a centrocampo

Capanne, paesino abbarbicato sulle Apuane, provincia di Lucca. Marco ci nasce nel 1954, e ci cresce, come ha più volte raccontato, «in serena povertà». Infan ia modesta eppure felice, padre operaio all’Anas, lui ultimo di quattro fratelli, tutti maschi, tutti innamorati di calcio. Oddio, a Marco preme soprattutto correre, dicono abbia l’atletica nel sangue. Ma si muove bene anche sui campi da calcio, non fosse per quel fisico esile, gracilino. Cinquantanove chili, quando arriva a Pisa. Nonostante tutto, il suo no me è finito sul bloc-notes di parecchi osservatori, e la società nerazzurra lo acquista per settantamila lire.

Primi passi nelle giovanili, e un mestiere per consumare il tempo libero e mettere in tasca qualche lira: fa il camerie re in un ristorante-albergo a due passi da piazza dei Miracoli. Un’esperienza da ricordare anche più tardi, quando gli diranno che il calcio è gioia, ma anche sacrificio. «Io correvo molto, in campo, e la notte prima di una partita non chiudevo occhio, ero sempre in tensione. Niente, in confronto a quando correvo da un tavolo all’altro e mi spiegavano che col tempo mi sarebbero venuti anche i piedi piatti».

Pisa è l’inizio dell’avventura, il debutto in C dal ’72 al ’74, le prime battaglie. Pisa è un posto da non lasciare mai più, nei pensieri del giovane Marco. Invece, a vent’anni, arriva la chiamata del Como, e il ragazzo parte per il primo viaggio importante lontano da casa. Ambientarsi è dura, e lo sarebbe ancor di più se non ci fosse qualcuno ad aiutarlo. Si chiama Pippo Marchioro, quel qualcuno. Più che un allenatore è un secondo padre. «Persona stupenda. Appena possibile, mi metteva sul treno e mi spediva dai miei, a casa. Così non cadevo preda della nostalgia».

Como e Marchioro (ma anche Beltrami, “diesse” di raro acume) significano molto di più, dal punto di vista professionale: a vent’anni, Tardelli è un bel gioiellino da lanciare sui campi di Serie B, e lui non si fa pregare: quelle sue corse a perdifiato gli regale ranno un soprannome mai troppo amato, “Schizzo”, e un biglietto d’ingresso al grande circo del calcio che conta. A fine stagione il Como conquista la Serie A, Marco l’attenzione dei grandi club. Ed eccolo, il primo (breve) in contro. Marco e l’Inter si sfiorano, si accarezzano e improvvisa mente si perdono di vista.

Succede, appunto, in quell’estate del ’75. Succede, per l’esattezza, che il presidente nerazzurro Fraizzoli si fa avanti, offrendo al Como ottocento milioni a rate per il pezzo pregiato. Cifra da astronomi, per l’epoca. Sembra fatta, c’è un accordo di massima. Ma di colpo lo scenario cambia: gli ottocento milioni nelle casse del Como ci entrano, ma arrivano da Boniperti, che si presenta davanti a Beltrami deciso a chiudere l’affare in quattro e quattr’otto. Col contante in valigia. Marco Tardelli, aspirante nerazzurro, si veste di bianconero. Della Juventus scriverà un pezzo di storia.

Inizia alla corte di Carletto Parola, un anno dopo si ritrova tra le mani di Giovanni Trapattoni. Resterà a Torino dieci anni, quanto basta a riempire una bacheca di trofei, una carriera di attimi indimenticabili. Dentro il baule dei ricordi finiranno cin­que scudetti, una Coppa Uefa (vinta anche grazie a un suo gol nella partita di andata, a Torino, della finale contro l’Atletico Bilbao), una Coppa delle Coppe. Oltre a quella Coppa dei Campioni tanto attesa e poi altrettanto maledetta, quella gioia trasformatasi subito in dolore nella notte dannata dell’Heysel.

Il primo anno bianconero Marco lo vive da difensore. Parola, dopo qualche turno di panchina, lo manda in campo sulla fascia sinistra. Un terzino fuori dalle regole, sempre proiettato verso l’area avversaria, caratteristica che in fondo aveva evidenziato anche a Como. È un anno amaro, un campionato perduto quando ormai sembrava vinto, e lo scudetto finisce sulle maglie dell’altra Torino, quella di fede granata.

Ma Boniperti non si pente del suo acquisto. In campo, il giovane terzino d’attacco Tardelli è uno dei migliori. Al debutto in Serie A. si è guadagnato in fretta un posto da titolare strap­pandolo a Spinosi, uno del giro azzurro. Crescerà, con l’avvento del Trap. Diventerà un leader naturale, il prototipo del giocatore completo e moderno. Capace di destreggiarsi in qualunque ruolo, in qualunque zona del campo, senza perdere smalto, lucidità, continuità. Capace di marcare l’avversario aggredendolo, logorandolo, trasformandosi ogni volta da sorvegliante in sorvegliato speciale. Nella Juve del Trap, quella delle grandi conquiste, diventa centrocampista arretrato, e trova spesso anche la via della rete.

I suoi compagni di reparto si chiamano Causio, Furino, Benetti. Probabilmente il centrocampo più forte della storia bianconera, un posto incantato dove convivono fantasia e grinta, tecnica e potenza. Arriva lo scudetto dei 51 punti, ne arrivano altri quattro. Quel centrocampo, escluso Furino, è lo stesso della Nazionale azzurra al Mondiale argentino del ’78. Quella Juve è il sogno dei tifosi, e Marco Tardelli ne diventa il simbolo. Lui e la sua impossibilità di essere normale, lui e la sua insonnia, lui e quelle urla di gioia che sono un rito e anticipano quello più forte, più acuto, più bello. Il rito che diventerà mito.

Sette anni dopo quelle prime apparizioni in bianconero, Marco Tardelli è un’icona del calcio italiano. Il Mondiale di Spagna, nell’82, è la sua seconda volta, dopo l’avventura argentina. Ci arriva con un altro padre calcistico che gli segnerà la carriera di giocatore e, in seguito, quella di allenatore. Insomma, la vita. Enzo Bearzot costruisce intorno a sé un gruppo felice e vincente, nonostante la partenza difficile e quel silenzio-stampa che è difesa nei confronti del mondo fuori, ma che all’inizio non contribuisce a riscaldare i cuori e i rapporti.

Ma il gruppo va avanti, i due “coyotes”, quelli che non dormono la notte, Tardelli e Conti insomma, sono tra i trascinatori in campo e fuori, e il “Vecio” trova tra le zolle dei campi di Spagna la pepita d’oro Paolo Rossi. Non è questione di fortuna: i risultati premiano le scelte di Bearzot, che si porta dietro giocatori eclettici, fedeli alla causa. In quei giorni Tardelli, che a ventott’anni sta vivendo gli anni della maturazione calcistica, probabilmente immagazzina nozioni che gli serviranno anche dopo aver chiuso la carriera di giocatore: «L’avventura in Spagna è stata fantastica. Quell’esperienza mi ha insegnato che un gruppo unito può superare qualunque difficoltà». Appunto.

Il resto è tutto scritto in quella fotografia, un attimo consegnato alla storia: 11 luglio 1982, lo stadio Bernabeu stracolmo, quel passaggio illuminante del povero Scirea, il tiro che beffa Schumacher e che vale il 2-0, la corsa gridata, infinita. Destinata a resistere al tempo, come le mani alzate di Zoff che stringono la Coppa. L’urlo di Marco è l’urlo di uno del popolo, quello baciato dalla grazia che sta lì, in campo, a nome di tutti. Immortale anche per questo.

Marco torna in Italia da campione del mondo, ed è sempre lui. Sanguigno, combattivo. Arriva da eroe, pochi mesi più tardi è già considerato un traditore della patria. Di quella bianconera, nel caso. È lui, insieme a Gentile e Furino, l’ispiratore del gran rifiuto di Casale. Boniperti propone il solito contratto pronto da firmare, i tre dicono no e chiedono l’adeguamento nei confronti di quelli dei campioni stranieri. Alla Juve, fino a quel momento, si firmava in bianco. Dalla tradizione alla rivoluzione. «Mai avuto niente contro i giocatori stranieri, mai stato razzista. A Boniperti chiesi semplicemente perché noi, campioni del mondo, dovevamo andare in campo e guadagnare la metà degli stranieri?». La difesa della buona scuola italiana. Ieri come oggi, da calciatore come da tecnico. Chiamiamola pure coerenza. Insomma, questa è la prima crepa in un rapporto che sembrava destinato a durare eternamente.

Che va avanti, comunque, perché Marco in bianconero vince ancora tanto: la Coppa Italia dell’83, scudetto, Coppa delle Coppe e Supercoppa europea l’anno successivo, fino al giorno del grande trionfo e della grande tragedia, della prima Coppa dei Campioni bagnata nel sangue, della folle finale di Bruxelles nell’85. L’ultima stagione è quella delle incomprensioni con Giovanni Trapattoni. Il tecnico, che ne intuisce il naturale declino, lo vede meglio in un raggio d’azione circoscritto. Praticamente lo utilizza da terzino destro. Sono discussioni, come sempre succede quando si scontrano due personalità forti. Ammette, e non gli costa fatica: «Il tempo ti fa capire tante cose. Forse lui non sbagliò a tenermi arretrato: ero più vecchio, potevo risparmiarmi e inserirmi con maggiore lucidità». Marco e la Signora continueranno ad amarsi, ma si comportano da amanti traditi. Lui saluta senza polemiche, ma sentendosi, di fondo, incompreso. Chiude con 239 gettoni di presenza (e 35 reti) in maglia bianconera. Una leggenda.

Il destino lo rimette sulla strada dell’Inter, con un contratto faraonico per l’epoca. Settecento milioni a stagione per due anni. Non è più l’Inter di Fraizzoli, che lo aveva tra le mani e se l’era lasciato sfuggire. E quella di Pellegrini, che vuole giocatori motivati e vincenti e fa follìe per Tardelli, ma anche per Marangon e Fanna. Che non vince nulla quell’anno con Castagner (poi rilevato da Corso) in panchina, né ci riuscirà con l’avvento di Trapattoni. Ecco, un altro scherzo del destino: Marco e il Trap ancora una volta insieme. Problemi? Mai, perché il vecchio maestro non è uno che serba rancore.

Semmai è la sorte, improvvisamente nemica, a decidere il declino del campione. Nel primo anno nerazzurro del Trap, Tardelli incappa in una serie incredibile di contrattempi e infortuni. Si frattura addirittura entrambe le mani, in momenti diversi. E un momento delicato della carriera, e lui così abituato a combattere deve passarlo a maledire il desti no. Due stagioni a Milano, avarissime di risultati e gioie. Pochi ricordi buoni, su tutti la doppietta contro il Real Madrid nella semifinale di Coppa Uefa, nel l’aprile dell’86: un altro 3-1, co me quello del Bernabeu, un’altra gioia seppur meno intensa. In mezzo, giorni da dimenticare, e alla fine della stagione ’86-87 un addio quasi obbligato.

Pellegrini e il diesse Beltrami, lo scopritore del giovane Tardelli a Como, gli offrono un’altra stagione da trecento milioni, lui preferisce chiudere e sembra un addio al calcio giocato. Invece, ci sarà un’appendice. Lo chiamano dalla Svizzera, il San Gallo gli offre una maglia da titolare. Da quelle parti, a Losanna, c’è già un altro mito del calcio italiano e delle magiche notti di Spagna, Giancarlo Antognoni. Marco dice sì, si butta nell’avventura col solito impegno. Durerà poco. Contrasti col mediocre tecnico Markus Frei, che soffre una presenza così ingombrante nello spogliatoio, accelerano la fine della strana storia. Ma è soprattutto un problema di stimoli: «In fondo, è stato un anno divertente. Dovevo restare a San Gallo per due stagioni, ma a un certo punto mi sono accorto che avevo sempre la stessa voglia di allenarmi, ma non più quella di scendere in campo alla domenica. E allora ho detto basta». Ha trentaquattro anni, il calcio continua a provocargli insonnia e angosce, ma è lui il primo a sapere che il calcio non può che continuare a essere la sua vita.

Dopo il ritiro dal calcio giocato inizia per lui la carriera di allenatore: Italia Under 16, poi Como, Cesena e dal 1997 Commissario Tecnico dell’Italia Under 21, con la quale diventa campione d’Europa nel 2000. Passato come allenatore dell’Inter nella stagione 2000-2001, da quel momento inizia per lui un momento sfortunato: esonerato alla fine della stagione a causa dei pessimi risultati ottenuti dalla squadra milanese (perse tra l’altro 6-0 col Milan in campionato e 6-1 col Parma in Coppa Italia). Stessa negativa sorte ebbero le esperienze con Bari, Egitto ed Arezzo.

Nel giugno 2006 ritorno “all’ovile”: entra nel CDA della Juventus sulla lunga onda del rinnovamento imposto dalla vicenda di Calciopoli, ma si dimette dopo esattamente un anno a causa di opinioni discordanti con la dirigenza bianconera. Nel 2008 colpo di scena: ancora il Trap sulla strada di Tardelli: Giovanni gli offre il ruolo di vice-allenatore della nazionale dell’Irlanda, con l’obiettivo di riportare in alto il calcio irlandese, esperienza durata fino al 2013.