TREZEGUET David: Golden Boy

Nel calcio, nella vita, il tuo nome può restare legato a un attimo piuttosto che a un’intera carriera. Lo sa bene Trezeguet, gigante del pallone francese che in Italia resterà per sempre quello del “golden gol”, l’uomo che ha ucciso il sogno di gloria azzurro per un Euro 2000 che sembrava già vinto.

E pazienza se il vero killer, in fondo, si chiama Wiltord. Lui si che ha davvero infranto, spezzato, distrutto, buttando dentro quel pallone praticamente fuori tempo massimo, in faccia a undici guerrieri stanchi, e a quel gruppo in panchina che si stringeva in un abbraccio diventato improvvisamente inutile. Wiltord che rimette in gioco la Francia quando non te lo aspetti più, Trezeguet che la porta sul trono d’Europa.

Sangue argentino

La sua, di avventura, inizia dall’altra parte del mondo. In Argentina, che è casa. La famiglia Trezeguet è cresciuta a Buenos Aires, anche se le origini sono basco-francesi. Il bisnonno di David era partito all’inizio del secolo dal Sud Ovest della Francia, in cerca di fortuna. Negli anni, in quella terra di pionieri, è riuscito a trovarla. Difficile, comunque , tagliare di netto le radici con la terra madre.

L’occasione per rinsaldare il legame capita a papà Jorge, argentino nel carattere e perfino nel nome. Argentino anche nella vocazione al calcio. Centrocampista di piedi buoni e di estro piacevolmente sudamericano, Jorge Trezeguet trova un ingaggio nel ’76 a Rouen. È la terra degli avi, anche se il Nord è lontano dai luoghi d’origine. E lì, nel cuore vivo di Normandia, nel ‘77 nasce David, l’erede. Che si arrampica da francese sui suoi primi due anni di vita, prima che quel padre calciatore faccia le valigie e riporti, nel ‘79, la famiglia in Argentina.

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Un giovanissimo Trezeguet con i genitori Jorge e Beatriz

È lì che David cresce, giocando a pallone contro i muri di Baires, imparando quel calcio. Cresce in tutti i sensi, diventando un marcantonio che in campo impara ad appostarsi nelle aree avversarie, fiutando il sentiero luminoso del gol. Papà Jorge, nel frattempo, è diventato il preparatore atletico del Platense, piccolo club della capitale che vive non senza affanni l’esperienza del massimo campionato argentino, e segue con particolare attenzione il settore giovanile. E lì fa approdare quel figliolo cresciuto in fretta, che col pallone sembra saperci fare davvero.

Al punto che nel 1993, a sedici anni appena compiuti, il ragazzo arriva a debuttare in prima squadra. Tre presenze tra i grandi del calcio, evidentemente non sufficienti perché squadroni come River Plate e Boca Juniors si accorgano di lui. Ma il ragazzo non demorde, e con lui papà Jorge, che ormai gli fa da procuratore. La molla, tuttavia, scatta nella testa di Rafael Santos, il suo tecnico al Platense. David è argentino di sangue e di cultura, ci mancherebbe. Però è nato a Rouen, la sua famiglia ha origini europee e ottenere il passaporto francese, per lui, non dovrebbe essere un problema. Non lo sarà, infatti. David sa di andare incontro a un altro mondo e a un altro calcio. È giovane, non si preoccupa più di tanto. Attraversa l’Atlantico e si butta nell’avventura.

Il piccolo principe

La storia non inizia esattamente nel migliore dei modi. Trezeguet sbarca a Parigi nel 1995 e resta in prova un mese al Paris St. Germain. Non convince. I dirigenti della società gli fanno capire (con eleganza, certo, ma senza troppi giri di parole) che in fondo nella vita esistono tanti mestieri, tutti dignitosi, oltre a quello di calciatore. Una bocciatura, ma non c’è neppure il tempo per piangerci su. Perché nel frattempo qualcuno si è accorto di quel ragazzo, e probabilmente ha visto, oltre a ciò che può offrire, anche quello che può diventare.

Si chiama Arsène Wenger, quell’osservatore speciale e piuttosto interessato. Il tecnico del Monaco convince il presidente Campora a tesserare il ragazzo, gli fa fiutare l’affare. David si trasferisce da Parigi al Principato, e i primi mesi non sono esattamente una strada in discesa. È in prova, i suoi documenti non sono in regola e con lui c’è tutta la famiglia, nella stessa situazione. I permessi di soggiorno ritardano, e i Trezeguet vivono una situazione precaria da irregolari in un appartamento a due passi dal centro tecnico della Turbie, dove David va ad allenarsi.

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Al Monaco con l’inseparabile amico Thierry Henry

Vita difficile. Che si riassume in poche parole: «Ho imparato presto a reagire alle sofferenze». Aspettando di essere francese a tutti gli effetti, Didi si allena e fa conoscenza coi nuovi compagni. Tra gli altri, un coetaneo che ha appena due mesi più di lui, da subito amico e complice, sul campo e nella vita, in una scalata all’Olimpo del calcio che riuscirà ad entrambi. Thierry Henry, si chiama quel diciottenne che, come lui, crescerà bene con la maglia del Monaco e della Nazionale francese. Per ora, sono semplicemente due ragazzi pieni di voglia di arrivare, se possibile bruciando le tappe.

Parigi, 7 febbraio 1996: la prima data che David scolpisce nella memoria. Jean Tigana, tecnico del Monaco, lo chiama in prima squadra e lo fa esordire nella massima divisione. Ci mette l’anima, il ragazzo. Perché sente che tutti i sacrifici, compreso il viaggio dall’Argentina alla Francia in cerca di fortuna, stanno portando a qualcosa. E anche perché di fronte, quando si dice il destino, c’è proprio il Paris St. Germain. La squadra in cui molti pensavano che quel ragazzo, lungo e un po’ smarrito al suo primo impatto con l’Europa, non potesse arrivare da nessuna parte. Ha voglia di rivincite, David.

Comincia così, al Parco dei Principi, la sua carriera da campione del calcio francese. Sia o non sia l’effetto della sua presenza, il Monaco vince di misura in casa del Psg. Bell’inizio.

Una strada In discesa

Tigana dimostra di credere in Trezeguet, e il giocatore ripaga la sua fiducia. Nelle prime due stagioni al Monaco non entra in campo più di nove volte: quattro nell’anno d’esordio, una di più nel 1996-97, annata che si chiude con il trionfo del Monaco in campionato, una festa della quale, seppur in minima parte, David può gioire a buon diritto coi compagni. D’altra parte, il 1996 è stato un anno fondamentale sulla strada della definitiva consacrazione. Chiamato a indossare per la prima volta i colori della Nazionale della sua nuova patria calcistica, Trezeguet gioca da protagonista l’Europeo Under 18: la Francia vince, lui è il capocannoniere del torneo con quattro reti. Impossibile non accorgersi di lui, a questo punto, e non soltanto per i centottantasette centimetri d’altezza.

Nella stagione 1997-98, finalmente, parte da titolare nel Monaco. Fa coppia fissa con Thierry Henry, dentro e fuori i campi di gioco. Cresciuti nelle giovanili, insieme hanno bruciato le tappe e insieme andranno avanti fino al dicembre 1998, quando Titì partirà per l’avventura italiana alla corte della Juventus.

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Mondiali 1998: Trezeguet in rete contro l’Arabia Saudita

Legame vero, vivo, profondo, amicizia a prova di qualsiasi lontananza. David intanto sente crescere intorno a sè la fiducia di tecnico e squadra, e dà il suo apporto, notevole: diciotto reti in ventisette partite, quanto basta per convincere Aimé Jacquet, Ct della Nazionale, che quel ragazzo venuto dall’Argentina è pronto a difendere i colori della Francia. E’ il momento giusto: dietro l’angolo c’è un Mondiale da giocare sui campi di casa, e David Trezeguet è uno dei ventidue uomini che vanno incontro alla storia, destinati a diventare eroi del Dio pallone per tutti i francesi.

Il suo appuntamento con il mondo è fatto soprattutto di scampoli i partita (succederà anche a Euro 2000, a proposito di ricorsi storici): contro l’Arabia Saudita, nella seconda partita del torneo per la Francia, entra dopo mezz’ora al posto dell’infortunato Dugarry e contribuisce con un gol al bilancio (4-0) della squadra. Ha l’occasione di partire dall’inizio contro la Danimarca, ma non fa grandi cose. E non incanta (tutt’altro) neppure negli ottavi contro il Paraguay.

Nei quarti, contro l’Italia, parte di nuovo dalla panchina, entra in campo nella ripresa e non si fa vedere più di tanto ma nell’epilogo ai rigori butta dentro un pallone decisivo per il passaggio del turno. Venti minuti di semifinale contro la Croazia e la finale contro il Brasile vista da bordo campo. Alla fine, torna in Francia da campione del mondo, in una squadra in cui a detta di tutti è mancato solo l’attacco. Ma nessuno lo incolpa: Trezeguet, è parere comune, deve semplicemente maturare per certe ribalte; una volta che ci sarà riuscito, la Francia che guarda già il mondo dall’alto si ritroverà con un’arma in più.

Voglia di cambiare

Effetto Mondiale. Un traguardo del genere lascia comunque il segno, in un modo o nelI’altro. Può darti forza, può renderli imbattibile. Oppure può frastornarti. David Trezeguet, campione del mondo a ventun’anni, dopo la grande gioia e i giorni della festa sente crescere dentro l’irrequietezza. Ha avuto tanto, in pochi mesi. Forse troppo. Successo, fama, gloria, attenzioni. Si guarda intorno, sorride felice e forse non capisce fino in fondo. Di sicuro, per qualche mese non è più lo stesso, e al Monaco se ne accorgono un pò tutti.

Gli fanno la corte i migliori club d’Europa, lui entra nel ruolo, si diverte a fare la ruota, prende appuntamenti, tiene contatti. Sogna in grande, dice che vorrebbe andarsene. Il presidente Campora, ovviamente, la prende male: il giocatore è legato alla società fino al 2001, lui gli fa capire che non intende più tornare sull’argomento. David gli chiede a più riprese un appuntamento, per discutere il ritocco al contratto che quasi tutti i suoi colleghi campioni del mondo hanno avuto dai rispettivi club. Il numero uno gli chiude la porta in faccia, anzi non gliela apre neppure: rifiuta di riceverlo per mesi, interrompe le comunicazioni col suo giovane talento.

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Agosto 1999, Monaco-Montpellier 3-2. Trezeguet con Marco Simone

Non va meglio con Tigana: giocatore e tecnico entrano in rotta di collisione, e il risultato è che la destinazione di Trezeguet, fresco campione del mondo, è sempre più spesso la panchina. Il momento è difficile: il ragazzo resta ai margini della squadra, esce dal giro della Nazionale. perde anche l’appoggio dell’amico fraterno Thierry Henry, partito per Torino. È solo, il mondo del calcio si fa improvvisamente pesante, come quell’identità che era la sua forza fino a pochi mesi prima. L’argentino di Francia si sente fuori posto: a Buenos Aires lo chiamano “el frances”, in Francia è per tutti “l’argentin“. La cosa lo divertiva, prima. Ora. probabilmente. è un fardello in più.

Nel momento più delicato della sua breve carriera, Didi fa la cosa giusta. Si ferma a riflettere. Pensieri positivi, e finalmente tranquilli. Lo aiuta, in questo, anche l’affetto sincero di Beatrice, la compagna che di lì a poco diventerà moglie, facendogli sentire intorno il calore e la protezione di una famiglia tutta sua. Gira il vento, finalmente. David capisce che si può vivere senza troppa fretta, fuori dal campo.

Si riaccosta al presidente Campora, dopo quasi un anno di reciproca indifferenza. Firma il prolungamento del contratto (fino al 2004) con il Monaco, chiude la stagione 1998-99 con ventisette presenze e dodici reti, con un finale di campionato convincente. Ha perso per strada l’amico Henry, ma nell’estate 1999 trova al suo fianco, nel nuovo Monaco, il talento di Marco Simone. Nasce il feeling, in campo, e Didi ritrova la strada smarrita del gol.

I paragoni si sprecano: il campione è cresciuto notevolmente dal punto di vista tecnico, per qualcuno assomiglia molto a Van Basten, per altri è una specie di reincarnazione di Delio Onnis, mitico bomber italo-argentino degli anni Ottanta che a Monaco è diventato leggenda coi 299 gol segnati in Prima divisione, record assoluto del campionato francese. Lui non ha dubbi: il modello di riferimento si chiama Gabriel Omar Batistuta, argentino come lui, “puntero” di razza eccelsa. Un idolo, per Trezeguet.

Perché la terra in cui è cresciuto lui non l’ha mai rinnegata, perché ce l’ha nel sangue, perché è lì che il suo calcio si è sviluppato. Anche se ha scelto a sedici anni, con convinzione, di essere francese. Il legame con Buenos Aires è nella personalità, nel temperamento: «Io sono argentino, uno che vuole vincere sempre. Per questo molti dicono che ho un brutto carattere. O meglio, lo dicono quelli che non mi frequentano. Chi conosce davvero Trezeguet, sa che non è come lo dipingono».

Il Monaco vola, la nuova coppia del gol non si ferma. A fine stagione avranno collezionato 43 reti in due: 22 Trezeguet, a un solo gol dal primato del brasiliano Anderson, capocannoniere del torneo, e 21 Simone. Lo scudetto è conquistato con largo anticipo.

Eroe d’Europa

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L’ormai storico golden gol a Euro2000. Vittima l’Italia di Zoff

Assomiglia a una favola, la rinascita dell’argentino di Francia. Non lo è, perché lui si è guadagnato nuova gloria a testa bassa, col sacrificio e senza favoritismi. Anzi. Alla guida del Monaco campione c’è Claude Puel, specie di sergente di ferro che non guarda in faccia a nessuno, nemmeno a Barthez e Trezeguet quando rientrano in colpevole ritardo da un impegno con la Nazionale e finiscono fuori rosa per un turno.

Non va diversamente coi Bleus di Lemerre. Diventato una specie di eroe nazionale il 9 ottobre del 1999, con un gol decisivo contro l’Islanda, quello del 3-2 che assicurava la qualificazione a Euro 2000, David è in ballottaggio per una maglia da titolare alla vigilia della fase finale. Paga l’esplosione della coppia HenryAnelka, sulla quale punta decisamente il Ct Lemerre. Il suo Europeo, Trezeguet se lo gioca in 135’, una partita e mezzo effettiva su tre gettoni di presenza. Pochi davvero, ma a lui bastano per lasciare il segno.

Va in rete nella partita delle cosiddette seconde linee, quella del turno eliminatorio contro l’Olanda che non conta più di tanto per la classifica, in cui Lemerre fa tirare il fiato al “duo meraviglia”. Gli bastano dodici minuti, nella semifinale contro il Portogallo, per combinare qualcosa di importante: parte da lui l’azione da cui scaturirà il fallo di mano da rigore di Abel Xavier, quello che permetterà a Zidane di chiudere la sfida al golden gol.

Ma il capolavoro, è la finale con l’Italia. Trezeguet, entrato al minuto 76, nell’ultimo disperato attacco alla corazzata azzurra fa la torre sul calcio di punizione di Barthez, offrendo a Wiltord il pallone del pareggio. E dopo tredici minuti di supplementare raccoglie il passaggio di Pires e inventa un sinistro al volo secco e preciso sotto la traversa di Toldo. Tutti a casa, Francia campione e Italia a pezzi. Colpisce, del nuovo Didì, la pazienza con cui ha saputo attendere il suo turno, certamente soffrendo ma riuscendo a trasformare la frustrazione in energia positiva da scaricare sul campo. E colpisce la sua incredibile facilità a entrare in partita, ogni volta determinante.

Orizzonte bianconero

Bel modo di festeggiare il Duemila. Per Didì è la stagione più bella, più importante. Anche se alla grande festa inscenata in Place de la Concorde per i campioni d’Europa resta in disparte. I riflettori sono puntati soprattutto su Zidane, su Henry, su Anelka, su Deschamps nuovo primatista di presenze con la maglia dei Bleus. Lui sorride, fa una breve apparizione sotto i riflettori e se ne va. Sa che è arrivato il momento dei saluti, anche nei confronti di chi lo ha cresciuto e lanciato.

Il presidente Campora, dopo la pace ritrovata, glielo aveva promesso: «Dopo gli Europei ti cederò a un club importante. Lo meriti». L’anno precedente era stata la Roma ad avvicinarsi, ma non era il momento giusto, nonostante il presidente Sensi avesse bussato addirittura alla porta del principe Alberto di Monaco, per riuscire nell’impresa. Poi entra in scena la Juventus. Luciano Moggi contatta direttamente il padre del giocatore, attraverso il quale la società bianconera raggiunge in fretta l’accordo economico con l’eroe silenzioso di Euro 2000, Cinque anni di contratto e quattro miliardi e mezzo di vecchie lire, netti, a stagione per Didì; quarantacinque miliardi nelle casse del Monaco.

Capello rasato e pizzetto ammiccante, il latino con passaporto francese comincia il suo show appena indossata la maglia zebrata numero 17, o meglio appena mister Ancelotti decide che sia giunta l’ora di provarlo al posto di Inzaghi. Il che avviene presto. Con capitan Del Piero va a formare la coppia d’attacco più prolifica di sempre nella storia juventina e la tifoseria bianconera non può far altro che ribattezzarlo Trezegol, nomignolo che sintetizza alla perfezione chi lui sia e cosa faccia.

Il suo repertorio di colpi è talmente vasto che nulla gli è precluso: può far male indifferentemente di destro e di sinistro, in acrobazia e con la palla a terra, meglio ancora se di testa, facendo valere tutto il suo metro e novanta centimetri, oltre all’ottimo senso della posizione in area. Senza contare che le sue lunghe leve lo rendono un corridore portentoso, in grado di sorprendere in contropiede anche le retroguardie più avvedute.

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Maggio 2007: la Juventus lascia l’inferno della serie B (Arezzo-Juventus 1-5)

Trezegol, lo dice il nome stesso, scandisce un intero decennio di Juventus al ritmo costante delle sue marcature, perciò non stupisce che guadagni il primo sudatissimo scudetto in bianconero vincendo il titolo di capocannoniere del campionato italiano: un traguardo che nessuno juventino era più riuscito a raggiungere dai tempi di Platini.

La stagione successiva fa già il bis tricolore e a distanza di due anni, come fosse un talismano, i suoi compagni gli chiedono un altro gol decisivo. A conclusione del 2005, infatti, la sfida scudetto si gioca a San Siro tra il Milan e la Juve di mister Fabio Capello. Il punteggio è incollato sullo 0 a 0, finché Del Piero non inventa una rovesciata-assist che David incorna in rete. È un vero e proprio tripudio. D’altronde, quella vittoria ha un sapore speciale, perché vendica il torto bruciante che i Diavoli rossoneri hanno inflitto agli juventini appena l’anno prima, durante la sfortunata notte di Manchester, nella finale di Champions League persa ai rigori. Quella volta Trezeguet sbagliò il primo rigore con un piattone poco angolato che si infranse sui guantoni di Dida.

Dopo lo tsunami Calciopoli, il Cobra transalpino sceglie di non abbandonare la nave che affonda in Serie B e aiuta a rattoppare le falle a suon di gol, colmando il disavanzo dei 9 punti di penalizzazione e riportando nel minor tempo possibile la Juve in serie A. Una lezione di umiltà e una prova di lealtà che gli juventini non dimenticano. Il francese col sangue argentino alla fine ne metterà dentro 171, una cifra mostruosa, lo straniero che ha segnato più gol in tutta la secolare storia della Juventus.

A 33 anni non ancora compiuti, Trezeguet si rimette ancora in gioco scegliendo l’Hercules Alicante, città della moglie Beatrice. Dopo solo un anno, e dopo essere stato accostato al Napoli per un suo clamoroso ritorno in serie A, David fa un’altra scelta di cuore volando in Argentina a risollevare le sorti del River Plate, clamorosamente retrocesso in serie B. Anche questa volta, come con la Juve del dopo calciopoli, missione compiuta con la promozione condita da 13 reti in 19 presenze. Altre due anonime stagioni nella serie A Argentina (River Plate e Newell’s Old Boys) fanno da chiusura del cerchio alla carriera di Trezeguet. La comparsata in India con il Pune City nel 2014 serve, infatti, solo alle statistiche e al folklore.