TASSOTTI Mauro: la leggenda silenziosa

Attraversando l’intera epopea del Milan di Sacchi e Capello, Tassotti è senza dubbio entrato a far parte della storia del calcio. Anche se, per certi versi, rimane un giocatore sottovalutato.

Tutti sanno che con il Milan ha collezionato un trofeo dopo l’altro, occupando la fascia destra in un quartetto tra i più forti di sempre. Ma sono in pochi a citarlo per la sua straordinaria evoluzione tattica e tecnica, che è andata di pari passo con quella avvenuta in generale nel calcio a partire dagli anni Ottanta. Infatti, da tipico marcatore a uomo all’italiana, sempre attaccato all’avversario a cui non disdegna di far sentire i tacchetti, si è progressivamente trasformato in un perfetto esterno nella difesa a zona, libero di svariare su tutta la corsia destra del campo. Allo stesso tempo ha affinato le sue abilità con il pallone tra i piedi fino a raggiungere risultati notevoli, soprattutto nei cross. Tanto da essere paragonato, in modo un po’ pomposo ma suggestivo, a Djalma Santos, talentuosissimo capostipite di una lunga serie di terzini d’attacco brasiliani.

Come mai, allora, questo riconoscimento incompleto? Difficile dirlo. Forse perché, dei Milan stratosferici in cui ha militato, si tende a ricordare il nome di altri giocatori, oggettivamente più tecnici e spettacolari. O forse per il suo carattere schivo e taciturno, che non lo ha reso un “personaggio” in un’epoca in cui il calcio era già un fenomeno mediatico, anche se non spinto all’eccesso come oggi.

Mauro Tassotti nasce a Roma, quartiere San Basilio, il 19 gennaio 1960. Nel 1976 entra a far parte delle giovanili della Lazio e nel giro di un paio d’anni fa il suo esordio in Serie A. Rimane con i biancocelesti per due stagioni, la seconda delle quali (1979/80) la gioca da titolare.

Con la Lazio, figurina Panini 1979/80

Arriva al Milan nell’estate del 1980, in una situazione che non è certo delle migliori: la società, a causa del suo pesante coinvolgimento nello scandalo del Totonero, è stata appena condannata alla retrocessione in Serie B e il suo presidente, Felice Colombo, radiato a vita. Un incredibile capovolgimento rispetto all’anno precedente, quando la squadra, la dirigenza e milioni di tifosi sparsi in tutta Italia festeggiavano il decimo scudetto, quello della stella sulla maglia. Il Milan vince il campionato cadetto, ma il ritorno in Serie A nella stagione 81/82 si conclude in modo disastroso, con il piazzamento al terz’ultimo posto e una nuova retrocessione in B.

Quando il Milan torna nella massima serie, Tassotti è alla sua quarta annata in rossonero. Sono state stagioni difficili, piene di ombre e povere di luci, ma qualcosa comincia a muoversi l’anno successivo, con il ritorno in panchina di Nils Liedholm. Sarà il maestro svedese, ancor prima di Sacchi, a dare inizio alla transizione verso la zona, e a intuire che quel ruvido terzino potrebbe trasformarsi in un elegante interprete del calcio moderno.

Ciò che succede nella Milano rossonera della seconda metà degli anni Ottanta è storia nota: Silvio Berlusconi acquista la società e nell’estate del 1987 sceglie per la panchina Arrigo Sacchi, allenatore ancora poco conosciuto ma dalle idee innovative, a cui regala i due gioielli olandesi Gullit e Van Basten. La leggenda ha inizio. Dopo lo scudetto del 1987/88 e la Supercoppa italiana, arrivano le Coppe dei Campioni del 1989 e del 1990 e nello stesso biennio due Coppe Intercontinentali e due Supercoppe europee.

Con il Milan pre-Berlusconi

Questo Milan, che passerà alla storia come quello degli “Immortali”, è una perfetta unione di tattica e talento individuale, di forza fisica e tecnica, di gioco offensivo e di cura della fase difensiva fin nei minimi particolari. Se gli olandesi (il terzetto si completa nel 1988 con l’arrivo di Frank Rijkaard) rappresentano il collegamento con il “calcio totale” degli anni Settanta, l’attenzione per la difesa è ancora tipicamente italiana, sebbene declinata in modo completamente nuovo.

Scompare infatti la storica figura del libero, il reparto è composto da quattro giocatori in linea che marcano a zona e stanno altissimi, in modo da compattarsi con i compagni più avanzati e far scattare di continuo il fuorigioco.

Sembra quasi superfluo citare i nomi di coloro che hanno messo in pratica un rinnovamento così profondo nell’ormai paludata tradizione difensiva italiana, ma non farlo sarebbe un’omissione troppo grande: Maldini, Baresi, Filippo Galli o Costacurta e, appunto, Mauro Tassotti. Che ormai ha portato a compimento la sua metamorfosi, riponendo il martello da fabbro degli inizi per impugnare il cesello e lavorare il gioco con precisione ed eleganza. Come in uno degli episodi più leggendari dell’epopea sacchiana, l’incrocio con il Real Madrid nella semifinale della Coppa dei Campioni 1988/89.

All’andata il Milan gioca al Santiago Bernabeu e, pur avendo dominato il gioco fin dall’inizio, sul finire del primo tempo subisce il gol del temibile centravanti messicano Hugo Sánchez. Nella ripresa i rossoneri, per niente scossi dallo svantaggio, continuano ad attaccare e al 74’ raggiungono il pareggio: Tassotti scende palla al piede sulla fascia e pennella un cross a mezz’altezza per Van Basten, che con un’incredibile torsione di testa gira in porta e segna. Certo, gran parte del merito del gol va al Cigno di Utrecht, al suo fantastico gesto tecnico e atletico. Tuttavia la corsa con passo dinoccolato, la palla che rimane attaccata al piede nonostante lo sguardo punti verso l’area di rigore, infine quel traversone con il contagiri, fanno davvero pensare a Djalma Santos.

Con il Milan 428 presenze in Campionato e 62 nelle Coppe Europee

L’andata finisce 1-1, però questa squadra sta facendo parlare di sé in tutta Europa e nell’aria si percepisce che qualcosa di grande sta per succedere. E infatti al ritorno il Milan impartisce una lezione di calcio ai Blancos, sconfiggendoli per 5 a 0 e facendo finire così tante volte in fuorigioco gli attaccanti avversari da spingerli sull’orlo di una crisi di nervi.

In finale a Barcellona il Milan liquida 4-0 i rumeni dello Steaua Bucarest, scatenando la gioia delle decine di migliaia di tifosi che si sono accaparrati pressoché tutti i biglietti disponibili, visto che il regime comunista rumeno impedisce ai suoi cittadini di lasciare il paese. Il 2 a 0 è ancora opera del duo Tassotti-Van Basten, con il primo che difende la palla dall’entrata in scivolata dell’avversario e mette un cross morbido in area, dove il secondo svetta e insacca. Completano il trionfo un altro gol di Van Basten e una doppietta del Tulipano nero Ruud Gullit.

Dopo due anni e altri grandi successi, l’era di Arrigo Sacchi alla guida del Milan si chiude con un anonimo Milan-Parma 0-0. Al suo posto, nell’estate del 1991, viene scelto Fabio Capello, che ha alle spalle un’importante carriera da calciatore ma che da molti viene giudicato troppo inesperto per sedere su quella panchina. I dubbiosi però dovranno presto ricredersi.

Infatti, dopo qualche pareggio di troppo a inizio stagione, la squadra rossonera dà il via a una cavalcata trionfale che la porterà a vincere il campionato 1991/92 senza nemmeno una sconfitta e a prolungare l’imbattibilità fino alla ventiquattresima giornata del campionato 1992/93. Aggiungendo a questa striscia anche la gara d’addio di Sacchi citata in precedenza, fanno 58 partite consecutive senza perdere, record tutt’oggi imbattuto nei cinque maggiori campionati europei. È il Milan degli “Invincibili”, che prende il testimone degli “Immortali” in una staffetta vertiginosa.

Con la Nazionale un rapporto problematico: solo 7 presenze

Capello, ovviamente, non sperpera l’eredità di Sacchi, ma la sua squadra è meno “cerebrale” rispetto a quella del predecessore, non ha lo stesso perfetto equilibrio tra disciplina tattica del gruppo ed estro individuale. Però è più pratica e quando serra i ranghi segnare diventa difficilissimo per qualsiasi avversario. Lo dimostrano le sole quindici reti subite nel campionato 1993/94 e il record di imbattibilità del portiere Sebastiano Rossi, che rimane senza dover raccogliere la palla in fondo al sacco per 929 minuti tra il 7 novembre 1993 e il 27 marzo 1994 (primato che resisterà fino alla stagione 2015/16, quando Gianluigi Buffon lo porterà a 974 minuti). A segnare ci pensano i talenti offensivi, in primis Van Basten, che vive forse il suo periodo più sfavillante, drammaticamente interrotto dal calvario alla caviglia che lo costringerà al precoce ritiro. E poi l’ex avversario Papin, il versatile Massaro, il paziente Marco Simone.

Tassotti ha ormai passato i trent’anni e per lui comincia ad arrivare qualche panchina, anche perché la Coppa dei Campioni è diventata la Champions League e il numero di partite da giocare è aumentato. Prima Gambaro e poi Panucci sono scelti come sua alternativa. Tuttavia, soprattutto nelle partite che contano, la linea dei quattro difensori è sempre la stessa, con Costacurta ormai titolare fisso, anche se Filippo Galli rimane in rosa.

E di partite che contano ne arrivano tante, in particolare tre finali consecutive di Champions nel 1993, ’94 e ’95. La prima e l’ultima il Milan le perde, rispettivamente contro l’Olympique Marsiglia del presidente Bernard Tapie (che qualche mese più tardi sarà condannato dalla Federcalcio francese per corruzione) e contro un Ajax ricco di giovani talenti a cui, in un doloroso incrocio di destini, fa da chioccia il grande ex Frank Rijkaard. Ma in mezzo a queste due finali sfortunate ne arriva una che rappresenta un’altra pagina indelebile di storia milanista. Un’affermazione che per Tassotti ha un sapore speciale.

La Champions 1994: l’apoteosi di Tassotti

Stadio Olimpico di Atene, 18 maggio 1994. Milan e Barcellona si contendono la Coppa che tutti sognano. Le due squadre sono quelle che durante il torneo hanno espresso il miglior calcio e che quindi si sono meritate di raggiungere la finale. Il Milan però si presenta all’appuntamento con un grosso problema di formazione: l’assenza per squalifica di Baresi e Costacurta. La coppia centrale di difesa deve essere reinventata. Johan Cruijff, tecnico dei blaugrana, nei giorni precedenti alla partita si è lasciato andare a dichiarazioni roboanti, dicendosi certo che i suoi non solo batteranno gli avversari, ma addirittura li umilieranno.

Capello non risponde, mantiene la calma e studia le sue mosse. Decide di schierare l’esperto Galli e di spostare al centro della difesa Maldini, con Panucci sulla sinistra e Tassotti nel ruolo consueto. Completano l’undici Rossi in porta, Boban, Albertini, Desailly e Donadoni a centrocampo, Savicevic e Massaro davanti. E questo undici distrugge il Barcellona del grandissimo, ma in questo caso troppo sicuro di sé Cruijff. Un 4-0 senza storia che rispecchia fedelmente i valori visti in campo. A segnare sono due volte Massaro nel primo tempo e il francese Desailly per il poker finale. Nel mezzo, il gol folle e geniale di Savicevic, che con un pallonetto da posizione impossibile uccella Zubizarreta. Assente Baresi, è il vice Tassotti a indossare la fascia di capitano, è lui a ricevere la Coppa e ad alzarla al cielo. Una grande soddisfazione, meritatissima dopo quattordici stagioni con la maglia a strisce rosse e nere cucita addosso.

Pochi giorni di riposo e Tassotti parte con il gruppo della nazionale alla volta degli Stati Uniti per disputare la Coppa del Mondo. Ha esordito con la maglia azzurra due anni prima, all’insolita età di trentadue anni, voluto da Arrigo Sacchi, che per la sua esperienza come CT sceglie di circondarsi di uomini di fiducia. Fanno parte della spedizione americana anche i compagni di club Baresi, Costacurta, Maldini, Albertini, Donadoni e Massaro, oltre all’ex Evani, nel frattempo passato alla Sampdoria.

L’avventura oltreoceano però finirà male. L’Italia perderà in finale ai rigori contro il Brasile di Romario e Bebeto, mentre il nostro, durante il quarto di finale contro la Spagna, colpirà Luis Enrique con una gomitata in pieno volto, rompendogli il naso. Il fallo, non visto dall’arbitro, sarà in seguito sanzionato con otto turni di squalifica grazie alla prova televisiva. Un gesto brutto e inspiegabile da parte di un giocatore a volte duro, ma non scorretto.

Tassotti vince ancora un campionato con il Milan nell’annata 1995/96, anche se gioca meno della metà delle partite. Va avanti ancora un anno, poi lascia il calcio giocato nel 1997 all’età di trentasette anni, dopo diciannove stagioni da professionista, di cui diciassette in rossonero. Lo stesso giorno salutano i tifosi anche la leggenda vivente Franco Baresi e Arrigo Sacchi, clamorosamente tornato in panchina sei mesi prima dopo la breve parentesi dell’uruguaiano Oscar Washington Tabarez. Si chiude un’epoca.

Con l’amico Ancelotti in panchina

Tassotti lascia il campo, ma non il Milan. Prima allena per quattro anni la Primavera, con cui si aggiudica due volte il Torneo di Viareggio, poi, nel novembre 2001, passa in prima squadra come vice del nuovo tecnico Carlo Ancelotti. Con i due ex compagni in panchina ha inizio la terza grande fase, dopo quelle di Sacchi e Capello, del Milan berlusconiano. Tra le molte vittorie spiccano ovviamente le Champions del 2003 e del 2007.

Alla fine della stagione 2008/09 Ancelotti saluta e vola al Chelsea, mentre Tassotti rimane, sempre come vice, coadiuvando i quattro allenatori (Leonardo, Allegri, Seedorf, Inzaghi) che si avvicendano sulla panchina rossonera fino al 2015. Dopo un’altra stagione nel ruolo di osservatore rescinde il contratto con il Milan, dopo ben trentasei anni in cui, a vario titolo, ha fatto parte della società. Inizia una nuova avventura, sempre come allenatore in seconda, a fianco di uno degli uomini più rappresentativi dell’ultimo grande Milan, Andriy Shevchenko, chiamato nella sua Ucraina alla guida della nazionale.

Viene spontaneo chiedersi come mai Tassotti, con la sua esperienza e il suo palmarès, non abbia mai voluto cimentarsi nel ruolo di allenatore, preferendo sempre quello di vice. Forse la risposta è la stessa della domanda con cui abbiamo iniziato, quando ci chiedevamo perché da calciatore non avesse pienamente raggiunto il successo che avrebbe meritato. E cioè a causa del suo carattere riservato e concreto, che lo porta a preferire il duro e serio lavoro all’esposizione mediatica.

Una virtù e non un difetto, che però diventa tale in un ambiente in cui spesso l’apparenza conta più della sostanza. Ma siamo sicuri che, nel suo caso, non si tratta di un viceallenatore come tutti gli altri. Fortunati i giocatori, soprattutto i giovani, che possono imparare da lui come difendere, come spingere rimanendo corti, come mettere la palla sulla testa dell’attaccante, magari per un gol che fa la storia.

Testo di Daniele Cerri