Un urto nella nebbia e il grande Torino non c’è più

Sono le diciassette di una brutta giornata d’inizio maggio. Torino, così come buona parte dell’Italia del Nord, è avvolta in una straordinaria cappa di maltempo. Il muratore Amilcare Rocco, che abita a un tiro di schioppo dalla cima di Superga, sente un rombo divenire via via sempre più forte fino a farsi assordante. Il fragore che gli passa in un lampo sopra la testa si trasforma subito dopo in un tonfo sinistro. L’uomo esce di casa, solcando la cortina di nebbia. Sulla strada incrocia alcuni contadini della zona, tutti usciti per lo stesso motivo. Correndo sgomenti verso la basilica che domina il colle, gli uomini scorgono sempre più nitido il profilo scomposto di una carlinga, sormontata da una colonna di fumo nero.

Il cappellano, don Tancredi Ricca, è già lì che si aggira tra miseri resti di corpi umani, sparsi tra lamiere arroventate e focolai di incendio. Capisce ben presto che per quelle povere anime non si può che pregare. Il giardino che sorge ai piedi della basilica è delimitato da un poderoso bastione: proprio contro di esso si era schiantato l’aereo, un Fiat G 212, provocando un foro circolare di quattro metri di diametro e proiettandosi poi sulla spianata.

Nel frattempo, poco distante, al campo dell’Aeritalia, ci si comincia a preoccupare: perché ancora non si sente il rumore del G 212? E perché dalla radio del velivolo nessuno risponde più? L’ultimo contatto è avvenuto qualche minuto prima: «Visibilità zero – aveva scandito in Morse il radiotelegrafista del campo – se volete atterrare dovete volare alla cieca». In quel momento l’aereo era già in vista di Torino. In vista si fa per dire, perché in realtà viaggiava sballottato fra nubi nerissime e raffiche di vento. Ma dopo qualche attimo di silenzio, la risposta proveniente dall’aria aveva sciolto ogni dubbio sulle intenzioni del comandante: «Quota duemila, tagliamo su Superga». Il volo sopra il colle era un fatto abituale per chi si preparava all’atterraggio. Erano le 16,58: di lì a poco si sarebbe compreso il tragico errore, causato forse da un guasto delle apparecchiature di bordo: credendosi a duemila metri di altezza, il pilota viaggiava invece a poco più di duecento. Non stava sorvolando la collina di Superga, stava per colpirla in pieno.

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Contrariamente agli addetti dell’Aeritalia, i clienti del ristorante di Superga hanno invece già percepito i contorni del dramma. Anche loro hanno sentito il rombo e il tonfo, e dopo pochissimo un uomo proveniente in automobile dal luogo della sciagura li ha messi al corrente dell’accaduto. Una decina di minuti dopo le diciassette la notizia corre via telefono dal ristorante a Torino, da dove partono tredici ambulanze, vigili del fuoco e polizia.

Sul colle, attorno alle salme, si continua a rovistare. Alcuni dei corpi sono quasi completamente svestiti per l’urto. Alcuni non hanno più volto. Valigie e pacchi regalo sono sparsi d’intorno. A un tratto qualcuno scorge due maglie di colore granata con lo scudetto tricolore e la verità passa davanti alle menti in un baleno: «E’ il Torino! E’ l’aereo del Torino che tornava da Lisbona!». La stessa verità che viene urlata di lì a poco in tutta Italia. E da tutta Italia risponde un mare di telefonate a giornali, vigili del fuoco, Aeronautica: «Ma è proprio vero? Sono loro? Sono morti proprio tutti?». I quotidiani della sera, usciti poco dopo in edizione straordinaria, vengono letteralmente strappati di mano agli strilloni.

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Già: al cospetto della Basilica di Superga, quella sera del 4 maggio 1949, si era immolata una squadra leggendaria, capace di dominare il calcio italiano come mai più sarebbe accaduto. Una squadra e una società assurti a modello assoluto e intoccabile. E proprio il grande prestigio internazionale sarebbe stato indiretto motivo della rovina. La scintilla era scoccata nel febbraio precedente, quando l’Italia marcata Torino vinse facile, 4 a 1, con il Portogallo. Era quella la prima esperienza del dopo-Pozzo: il ciclo del vecchio alpino, straordinario artefice dei massimi successi, era giunto al tramonto.

La Nazionale era stata affidata a una commissione tecnica federale presieduta da Ferruccio Novo, vale a dire il presidente del Torino. Proprio in quell’occasione, il capitano del Portogallo, Ferreira, in cerca di un grande partner per la sua partita d’addio, convinse Valentino Mazzola a portare il Torino a Lisbona, per giocare contro il suo Benfica nel maggio successivo.

Novo si era subito mostrato in disaccordo con la promessa fatta dal suo capitano. La trasferta lusitana si incrociava infatti con il finale di campionato e, anche se il Toro era in testa per l’ennesimo anno, gli avversari incalzavano e le distrazioni potevano risultare pericolose. «Va bene – aveva detto Mazzola – facciamo così: se a San Siro contro l’Inter non perderemo, andremo in Portogallo». Novo aveva accettato: del resto non perdere a Milano avrebbe significato scudetto pressoché sicuro, con i nerazzurri tenuti a cinque punti con sole quattro partite da giocare.

Non erano più di primo pelo le colonne storiche di quella macchina micidiale. Mazzola, Loik, Menti e Grezar avevano toccato la sponda dei trent’anni, Gabetto era già sui trentatré. Gli altri erano più giovani ma sulle loro spalle pesavano quattro campionati consecutivi a far da lepri irraggiungibili. Sicché la minaccia di quell’Inter, che dopo la guerra aveva smesso di chiamarsi “autarchicamente” Ambrosiana per riappropriarsi del suo vecchio nome, era parsa quanto mai fondata.

San Siro traboccava per la partita più importante del campionato. Finalmente c’era la possibilità di mettere paura a quegli undici marziani, che l’anno prima avevano vinto il campionato con sedici punti di vantaggio sulla seconda. L’Inter calava il suo tris d’attacco, formato da Nyers, Amadei e Lorenzi (in tre andarono a segno quell’anno 65 volte). Una trazione anteriore formidabile. Il Toro doveva lasciare in tribuna un febbricitante Mazzola e non era certo una prospettiva gradevole fare a meno del superuomo, dell’atleta capace di dispensare saggezza, potenza e meraviglie tecniche in ogni parte del campo.

Ma alla fine, la missione fu compiuta: 0 a 0, con qualche patema. La strada era ormai in discesa fino alla fine. «Nell’ora del pericolo – scrisse quel giorno il direttore di Tuttosport, Renato Casalbore – la squadra granata ha svelato una potente freschezza atletica e anche questi sono segni della classe di una squadra; voglio dire: saper essere tempestivamente al momento giusto, sempre aderenti alla situazione. Ed era una situazione difficile per il Torino. Domani i campioni partono per Lisbona».

Partono, annotò Casalbore. In realtà avrebbe dovuto scrivere “partiamo”, perché sull’aereo dei granata, il 2 maggio, stava per imbarcarsi anche lui. Intorno a quell’aereo, a dire il vero, si svolse una singolare danza di appuntamenti mancati o centrati in extremis: il giovane granata Giuliano, per esempio, che già da un po’ bazzicava la comitiva dei “grandi”, fu bloccato da problemi di passaporto e lasciò il posto proprio a Casalbore. A terra rimase anche Gandolfi, il portiere di riserva che presentatosi all’aeroporto scoprì con dispetto che al suo posto era stato convocato Dino Ballarin, fratello minore di Aldo.

Così come restarono in Italia Nicolò Carosio e Ferruccio Novo: la “voce” del calcio italiano era inizialmente della partita, ma la prima Comunione del figlio lo convinse a rinunciare in favore di Renato Tosatti, della Gazzetta del Popolo. Novo, invece, era a letto malato. E infine, non partì uno dei rincalzi, Sauro Toma: qualche giorno prima, vittima di una distorsione, si era fatto visitare insieme con Maroso. Per Lisbona il medico bloccò Toma e diede via libera a Maroso. Peraltro, il fine terzino sinistro, che ad appena 24 anni aveva già le stimmate del fuoriclasse, sarebbe partito solo per ingrossare la schiera dei rincalzi.

Neanche Mazzola era ancora del tutto guarito dalla sua influenza, ma come poteva rinunciare a quella trasferta che proprio lui aveva organizzato? Invano un altro grande giornalista e disegnatore di Tuttosport, Carlin Bergoglio, aveva cercato di persuaderlo: «Non andare, sei ancora malato». «I campioni e lo sport vanno onorati degnamente», sosteneva capitan Valentino. La partita non aveva tradito le attese del pubblico. Del resto, se il Torino era un punto di riferimento internazionale, anche il prestigio del Benfica era molto alto. I granata avevano perduto di misura, anche perché la fatica di San Siro non poteva essere svanita in tre giorni, ma lo spettacolo offerto sul campo era stato divertente e di buon livello.

Il giorno dopo, sulla Stampa Sera, Luigi Cavallero, che con Casalbore e Tosatti componeva il terzetto di giornalisti al seguito del Toro, aveva scritto: «Stamane i granata si sono alzati presto per prepararsi al ritorno. Tra poche ore l’aereo, che ha trasportato a Lisbona dirigenti, giocatori e giornalisti, spiccherà il volo per atterrare all’Aeronautica di Torino, tempo permettendo, verso le 17. Che le nubi ed i venti ci siano propizi e non facciano troppo ballare…».

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La mattina del 4, erano infatti giunte dall’Italia notizie poco rassicuranti. Pioveva a catini, il Po era gonfio come mai negli ultimi 50 anni e tracimava rovinosamente sulla piana. In migliaia abbandonavano le loro case. Il Fiat G 212, velivolo ad elica fabbricato solo due anni prima, era decollato in direzione Milano Malpensa, dove i giocatori avrebbero trovato il celebre “Conte Rosso”, il pullman che sempre li accompagnava in trasferta. A Barcellona, dove aveva fatto scalo per il rifornimento, il comandante Meroni era stato avvertito delle critiche condizioni meteorologiche di Torino. Eppure, chissà perché, aveva deciso di ignorare il previsto arrivo a Milano per atterrare proprio nel capoluogo piemontese. Su questa decisione fioriranno poi sospetti romanzeschi.

Nell’aeroporto catalano i granata avevano incrociato i giocatori del Milan, diretti a Madrid per affrontare il Real: «Loro erano stravolti – ricorderà il milanista Carapellese – avevano già avuto un brutto trasferimento da Lisbona a Barcellona. Parlammo di cose comuni, della loro partita con il Benfica, della nostra con il Real Madrid, della rabbia che certamente gli spagnoli avrebbero avuto per vendicare il 3-1 che l’Italia aveva inflitto proprio a Madrid alla Spagna qualche tempo prima. Parlammo pochi minuti poi ciascuno si diresse verso il proprio aereo».

A Montecitorio, la notizia della sciagura arriva mentre è in atto una discussione animata. Immediatamente i lavori vengono sospesi in segno di lutto. Il presidente del Consiglio De Gasperi è in Sardegna. Al posto suo, per Torino parte il sottosegretario Andreotti. Intanto, la strada per Superga è ormai preda di un gigantesco ingorgo: centinaia di automobili, migliaia di ciclisti, gente che a piedi sfida la pioggia. Tutti vogliono constatare di persona, ma tutti, compresi i familiari delle vittime, vengono bloccati ai cancelli della Basilica.I vigili del fuoco hanno ormai spento gli ultimi, flebili focolai. E’ arrivato anche Vittorio Pozzo. Antica anima granata, conosce e ama quella squadra che anche lui ha contribuito a formare e che ha trasferito in azzurro quasi in blocco nell’ultima parte della sua epopea azzurra. Dal Torino il vecchio maestro si è distaccato a causa di un dissidio personale con Novo, proprio l’uomo che lo ha sostituito alla guida della Nazionale. Ma i ragazzi no, non c’entrano, per lui sono come figli.

Pozzo avanza con passo eretto fra i rottami, incrociando gente che corre, che grida, che piange. «Su un lato del terrazzo – ricorderà dieci anni dopo – spazzando i rottami, qualcuno aveva già disposto quattro o cinque cadaveri. Erano i corpi, non martoriati, di Loik, di Ballarin, di Castigliano… Li riconobbi, e li nominai, sentendo uno dei presenti che aveva dato un’indicazione errata. Li conoscevo, oltre che dal viso, dagli abiti, dalle cravatte, da tutto. Fu allora che mi accorsi di un maresciallo dei carabinieri, che mi seguiva e prendeva nota di quanto dicevo. “Nessuno meglio di lei…”, sussurrò, mettendosi sull’attenti. Fu allora, mentre rovistavo fra i resti di un po’ di tutto che giacevano al suolo, che un uomo più alto di me ed avvolto in un impermeabile, mi mise una mano sulla spalla e mi disse in inglese: ‘Your boys”, i suoi ragazzi. Era John Hansen della Juventus, accorso fin lassù. Non so se piangessi, in quel momento. Dopo sì».

Pioggia, nebbia e vento, compagni maledetti di quella giornata, non danno tregua: i morti vengono via via raggruppati sul piccolo piazzale dietro la canonica e coperti da un grande telone impermeabile. Quattro di essi sono stati scagliati molto lontano dal luogo dell’impatto. Ai piedi di Renato Tosatti viene trovata una foto del Torino edizione ’46-47. E’ appena bruciacchiata ai margini, solo il viso di Castigliano è stato mangiato. Dopo tre ore l’opera di ricomposizione è compiuta: si decide di trasferire il riconoscimento ufficiale al cimitero di Torino, dove il tragico corteo arriva alle 21.

E’ ancora Pozzo, assieme ad altre due persone e a due medici, a farsi carico del triste compito. L’ex commissario azzurro ha un paio di cedimenti, ma procede nell’identificazione. In molti casi si deve riconoscere la salma da un anello, da un documento, da qualche oggetto personale. Martelli e Maroso, riconosciuti solo per eliminazione, mettono a dura prova l’animo e la scorza di Pozzo. Quella sera, in una casa di Torino, il piccolo Sandro nota uno strano via vai di gente. In quella casa vive con una donna che non è sua madre, mentre sua madre è a Cassano d’Adda con il fratellino Ferruccio. A Sandrino nessuno dice quella sera che suo padre, il grande, generoso, infedele Mazzola, non tornerà mai più. Il figlio di Ossola, invece, non può avere di questi problemi, visto che è stato appena concepito. E pensare che suo padre, appresa la lieta novella, era così eccitato che per farlo partire per Lisbona avevano dovuto faticare.

A poche ore dall’incidente, l’Italia è già in lutto: il Grande Torino era da tempo al di sopra del tifo di parte e delle beghe di campanile. Era l’orgoglio di tutti; un simbolo della rinascita italiana dopo le piaghe di guerra; un inno alla gioventù, alla forza, alla lealtà. In un attimo era finito tutto, per un guasto, un errore o chissà che altro. L’aereo sembrava ora un’invenzione perversa: Carapellese e Lorenzi, compagni in azzurro dei granata, non vorranno più salirci, per tutta la vita. Boniperti ricorderà le parole che un giorno gli disse Loik, durante una trasferta della Nazionale: «Questa – e si riferiva all’aereo – sarà la nostra bara». Il trauma sarà così forte che un anno più tardi l’Italia partirà per i mondiali brasiliani in nave anziché in aereo. Risultato: durante il viaggio tutti i palloni d’allenamento finiranno in mare e tutti gli atleti arriveranno sballottati e fuori forma.

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L’ultima partita del Toro a Lisbona, scambio di gagliardetti tra Mazzola e Ferreira

Già, i mondiali: sarebbe stata forse quella la consacrazione del Grande Torino, chiamato a difendere in azzurro il titolo conquistato da Meazza e compagni nell’ormai lontana ultima edizione del 1938. Giocatori che in tempi normali avrebbero partecipato a due o tre edizioni del torneo più prestigioso, non fecero in tempo a viverne una. Prima la guerra, poi la morte. Proprio in Brasile, nel 1947, i granata in tournée avevano lasciato negli occhi della “torcida” riflessi entusiasmanti. Tanto che anni dopo il giovane talento Altafini venne soprannominato “Mazzola”. Anche in occasione della trasferta brasiliana, peraltro, l’aereo che portava il Torino a Rio volteggiò pericolosamente per tre ore su un cielo in burrasca alla ricerca dell’atterraggio.

Il giorno del funerale, Torino è una città distrutta: al passaggio delle salme in molti si inginocchiano singhiozzando, come se in quelle bare ognuno avesse lasciato un pezzo della propria giovinezza. Carlin, su Tuttosport, riferisce il toccante discorso del presidente federale Barassi: «Egli aveva parlato agli atleti racchiusi tutt’intorno (sorridevano i loro ritratti sulle bare) come se sentissero, e ci era parso veramente che sentissero. Aveva assegnato ad essi, ufficialmente, il quinto scudetto consecutivo, li aveva premiati simbolicamente per nome, uno per uno, chiamando anche i giornalisti, i dirigenti, gli uomini dell’equipaggio, infine aveva ancora chiamato Mazzola: “La vedi questa bella Coppa? (e disegnava con le braccia aperte una gran coppa nell’aria). La vedi com’è bella? E’ per te, è per voi. E’ molto grande, è più grande di questa stanza, è grande come il mondo: e dentro ci sono i nostri cuori».
Una vicino all’altra, le bare di Bacigalupo, Martelli e Rigamonti, quelli del “trio Nizza”, com’erano chiamati dalla via in cui abitavano. «Noi tre dobbiamo morire insieme – diceva Rigamonti – perché siamo troppo amici; e tu Martelli, che sei piccolo, ti porteremo in tasca dal Signore Iddio». «Siamo vecchi torinesi – annota ancora Carlin – ma non ricordiamo di aver mai visto nulla di simile, una unanimità così commossa, una vibrazione così profonda».

Salutato il Grande Torino, il calcio italiano non ritroverà più per anni un modello di squadra così compatta e vincente. Anzi, di lì in poi salirà alla ribalta un ben diverso stereotipo di calciatore italico: il bambino viziato, superpagato, isterico, individualista, refrattario al sacrificio. La gente conserverà la passione per il calcio, ma perderà in buona misura la stima del calciatore. La Nazionale, infarcita di oriundi poco interessati alla causa, passerà da una delusione all’altra. Ci vorrà l’Inter di Moratti ed Herrera per riportare il nostro calcio alla gloria. E nella notte di Vienna, 27 maggio 1964, i nerazzurri vinceranno la loro prima Coppa dei Campioni ai danni del leggendario Real Madrid con due reti di Sandro Mazzola.

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Al termine della gara, un ormai invecchiato Puskas, che da ragazzino, in un’Italia-Ungheria del 1947, aveva incrociato la sua rotta con gli uomini del Grande Torino, si sfilerà la maglia a la donerà a Sandrino: «Ho conosciuto tuo padre – gli dirà – e oggi ho capito che tu sei degno di lui». La sciagura di Superga, nell’immaginazione popolare, rese eroi immortali i componenti di quella squadra. Si seppe poi che Novo, notando degli scricchiolii nella macchina perfetta che aveva costruito, aveva in mente dei ritocchi sostanziali. Esistevano già trattative per il milanista Annovazzi e per uno scambio fra Castigliano e il centrocampista dell’Inter Campatelli. Inoltre, si ipotizzava un futuro rimpiazzo di Loik, apparso fra i più logori, e dell’anziano Gabetto.Ma chissà con quale rammarico il presidentissimo si sarebbe separato dai suoi ragazzi. Raccontano che da quando il fato glieli strappò d’un colpo, Novo si perse nel dolore. Aveva azzeccato tutto prima, sbagliò tutto dopo. Come se ai piedi della Basilica fosse rimasta anche la sua anima…

Testo di Marco Filacchione

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