La tragedia dell’Heysel

29 maggio 1985, finale di Coppa dei Campioni. Sugli spalti muoiono 39 persone. Quel giorno non si doveva giocare…

La Juventus si avvicinò alla finale di Bruxelles ovattata in un’atmosfera svizzera. Sette giorni di ritiro a Ginevra, gli allenamenti su un prato che sembrava dipinto col pennarello tanto il verde era netto e nitido, e ogni filo d’erba sembrava fatto a mano. Un mattino arrivò una comunicazione: il principe Emanuele Filiberto avrebbe tanto voluto salutare i giocatori. Il principe era un bambino biondo, rispetto a oggi non viaggiava, non parlava, non guidava moto d’acqua, non pubblicizzava cetrioli e nessun comico lo imitava.

Ma il contesto parve ugualmente buffo. Calciatori, dirigenti e giornalisti vennero caricati sui torpedoni e condotti alla residenza dei Savoia, dove li attendeva un bambino con zazzera pettinata da un lato e la giacca blu abbottonata fino al colletto alla coreana. Tutti gli strinsero la mano, in fila, una manina bianca e fredda. Alla fine, un funzionario della Real Casa consegnò a tutti i presenti un dono prezioso: la fotografia autografa del bambinello.

L’aria era fresca e dolce. Attorno al lago di Ginevra piroettavano le papere, e quello era più o meno il clima mentale della Juventus : gioiosa, consapevole, rasserenata, niente a che vedere con le due lunghissime vigilie che precedettero le sconfitte di Belgrado ed Atene. “Il Liverpool era forte, ma noi sapevamo di poterlo battere”, ricorda Platini. “Ci eravamo già riusciti a Gennaio, al Comunale di Torino, quando si giocò col pallone rosso dopo un’incredibile nevicata. Boniek fu magnifico, quella sera. Due a zero per noi e doppietta di Zibì, così vincemmo la Supercoppa”.

Alle dieci di mattina del 29 maggio 1985, la Grande Place di Bruxelles era già una moquette di vetri spezzati. Gli inglesi bivaccavano, molti dormivano usando come cuscini i cartoni di birra, scatoloni ormai mezzi vuoti dopo una lunga notte di bevute e pisciate, e le bottiglie scolate venivano lanciate in terra come bombe a mano, oppure in aria, per gioco. “Prima di mezzogiorno facemmo il sopralluogo allo stadio e ci mettemmo le mani nei capelli : era vecchio, decrepito, e pareva un cantiere. C’erano legni dappertutto, sembravano clave”, ricorda Giampiero Boniperti. Non è vero che lui abbia pensato solo alla coppa, alla vittoria, alla bacheca. “Io li ho visti i morti, tutti in fila all’obitorio come in guerra. Me li ricordo i Casula, papà e figlio, uno vicino all’altro. Me li ricordo tutti. E non volevo giocare: mi dissero che non si poteva, che altrimenti sarebbe stato un disastro anche peggiore”.

Il cielo dietro il settore Z era color aranciata, e pareva il riverbero del rosso delle bandiere inglesi, delle maglie, delle canotte, delle pitture sui volti stralunati. Alle 7 di sera si stava benissimo, c’era un fresco primaverile. La prima onda sembrò quasi un’illusione ottica, come se L’Heysel fosse un setaccio e qualcuno lo stesse agitando. I rossi si spostavano verso i bianconeri, ritmicamente, a orda, dal punto più lontano a quello più vicino alla tribuna centrale. E nell’aria volavano clave, aste e persino qualche mattone che la polizia belga non aveva pensato di rimuovere.
Ci mettemmo un po’ di tempo a capire cosa stesse succedendo: all’inizio sembravano solo spintoni”, dice Boniperti. Invece Boniek la ricorda così : “Eravamo negli spogliatoi, a un certo punto arrivarono notizie confuse, di scontri tra la folla, però nessuno parlò di morti. Davvero non ci fu l’esatta percezione della tragedia, e in quel momento sarebbe stato impossibile averla”.

La seconda e la terza ondata fecero crollare il muretto alla base del settore Z (gli inglesi attaccavano dal V), e le persone si rotolarono addosso. Tutti morirono per schiacciamento, soffocando, calpestati. “Ci sono dei morti” fu la prima frase che cominciò a circolare in tribuna stampa. Allo stadio arrivò l’Avvocato Agnelli: fermarono l’auto sotto la tribuna, gli dissero cos’era successo, lui tornò in macchina e ripartì. Invece suo figlio Edoardo era rimasto sul prato, come inebetito. ”Non riuscivamo a distoglierlo dall’orrore, alla fine l’ho fatto rientrare negli spogliatoi urlando di non muoversi di lì”, ricorda Boniperti.

Poi si udì dall’altoparlante una specie di sospiro. La voce di Gaetano Scirea “la partita verrà giocata per consentire alle forze dell’ordine di organizzare l’evacuazione del terreno. State calmi, non rispondete alle provocazioni. Giochiamo per voi”. Mancavano appena quattro anni allo schianto di Gaetano su una strada polacca. “Io parai tutto, come in trance”, dice Stefano Tacconi. “Non ricordo niente, solo una concentrazione che non era normale, era di più. Dentro avevamo cose che non si spiegano, non si raccontano e non si conoscono”.

Vinse la Juve grazie a un rigore inesistente: fallo su Boniek fuori area, gol di Platini. Davanti alla tribuna stavano i morti in fila, i morenti, i feriti. Le transenne vennero usate come barelle da medici che tentavano tracheotomie. C’era tanto sangue, e gole aperte. Assurdi gendarmi a cavallo andavano su e giù roteando i manganelli come in una comica di Ridolini. La tv diede l’esatta misura della mostruosità, ma sul posto le cose erano diverse: i tifosi avevano capito, però non potevano sapere dei 39 cadaveri. Neanche i giocatori lo sapevano, tutto aveva i contorni sfumati del sogno. Tanta gente metteva bigliettini con numeri di telefono in mano ai giornalisti, implorando che chiamassero casa per dire “suo figlio è vivo, suo marito sta bene”. E così andò. Dalla tribuna partirono telefonate in tutta Italia. Ancora non esistevano i cellulari e le email. Alla fine tutti si sentirono vuoti, sfiniti, perduti.

La coppa dei Campioni venne consegnata alla Juventus negli spogliatoi. Platini e qualche altro fecero il giro del campo. Potevano evitarlo. Il macabro trofeo scese dall’aereo, a Torino, sventolato da Sergio Brio. “Fu una partita vera” disse e ripete Boniperti, e non ha neanche torto. Perché c’era una lastra di vetro tra le squadre e il mondo, un vetro imbrattato di sangue e molto molto spesso. Si stava là dietro come per proteggersi, per illudersi che non fosse vero.

“Quando al circo muore il trapezista, entrano i clown” disse Michel Platini. Allora sembrò una bestemmia, invece era qualcosa di assai più orribile e definitivo. Era la verità.

di Maurizio Crosetti

Una Colpa che pesa su tutti
di Gianni Brera
Ero venuto come tantissimi altri per assistere e in certo modo prendere parte alla celebrazione di una grande festa di sport. Sono letteralmente sconvolto dall’orrore. Confesso che, per un momento, mi sono rampollate dall’ animo tutte le rabbie che a me giovane avevano instillato i politici del nostro paese, non meno caro che disgraziato (allora). Poi, a mia volta, mi sono sentito in colpa. Voci spaventose giungevano dall’antistadio, dove gli impreparatissimi belgi avevano apprestato un pronto soccorso. Chi riferiva di dieci, poi di diciotto, infine di trenta, e adesso addirittura di quarantuno morti, e forse non è finita. Purtroppo, quasi tutti nostri connazionali, che il terrore aveva spinto a cercare salvezza calpestando chiunque incontrasse nella disperata fuga. Tra quella parte di tribuna occupata da una minoranza di italiani e da una folla preponderante di liverpoolesi, tre sparuti impotenti poliziotti belgi. Eccitati dall’odio, di cui si conoscono capaci come pochi al mondo, e ancora dall’alcol, di cui sono tragicamente avidi fino all’ incontinenza più smaccata, non meno di cento mascalzoni si sono scatenati lanciando mattoni sassi e bottiglie. Il fuggi fuggi è stato accorante. La polizia belga è giunta sempre più in forze ma, ahimè, troppo tardi. Ormai l’attesa festa era bruttata da un eccidio senza precedenti in questa parte civile d’Europa. Mentre tento di esprimere la mia mortificazione di uomo di sport, i superstiti dell’ immonda mattanza passano ciascuno a raccontare la propria storia, piena di orrore e degna di umana pietà.
Lo Stadio, il caro ma obsoleto Heysel, è come gravato da una cappa di angoscia. E’ inevitabile pensare a quello che incombe su tutti buoni e malvagi, che si erano illusi di celebrare una festa: come far sgomberare lo stadio da due moltitudini fra loro ostili fino all’odio più acre ed esasperato? Gli italiani hanno a lungo insultato i poliziotti belgi troppo inferiori al loro compito: il minimo insulto era “buffoni!”: ma adesso mi chiedo in quali disperate ambasce si trovano le autorità di Bruxelles. Sono presenti almeno quindicimila italiani e altrettanti inglesi. Cosa sarà di loro, se si troveranno soli ad affrontare lo sfollamento? Se non ci fosse aria di tragedia, verrebbe fatto di ricordare come per eccessi di molto inferiori a questo è stato proibito da noi il gioco del calcio nel secolo XVI… L’ imbarazzo sfiora il rimorso in tutti noi che allo sport credevamo come all’antidoto più puro e sincero della guerra. Così come siamo caduti, la voglia è di mandare tutti al diavolo. Se vogliamo prenderci a calci, stiamo a casa nostra. E si vergognino quei popoli che, atteggiandosi a civili, mandano per il mondo questi mascalzoni efferati e ahimè più volte recidivi nei loro eccessi delittuosi. Alle 21,40 inizia una partita che alcuni bene informati dicono finta. Questo per consentire alle forze dell’ esercito acquartierate in Bruxelles di preparare due vie di ritirata e quindi di sfollamento per i gruppi nemici. A quele punto siamo giunti. Poichè si gioca, mi tocca guardare.

Cronaca di Una Strage
di Mario Sconcerti
Ho visto la scintilla di un massacro accendersi improvvisamente quasi per gioco e allargarsi in modo incredibile, pauroso, fino a travolgere una vita dopo l’ altra. Mentre scrivo sono appena passate le 21. Juventus e Liverpool avrebbero dovuto finire adesso il primo tempo di questa tragica notte di Coppa dei Campioni. Dai sotterranei dello stadio continuano invece a passare soltanto barellieri, infermieri, medici e poliziotti. Quello che è diventato un improvviso bollettino di guerra parla adesso di trentotto morti, quasi tutti italiani, moltissimi con la cassa toracica schiacciata contro i muri di recinzione, altri con la gola aperta dalle grandi punte metalliche che chiudono le transenne. Ma c’ è una confusione indescrivibile, soprattutto panico. Lo stadio Heysel è praticamente assediato dalla polizia. Dovunque piccoli ospedali da campo improvvisati, gente sanguinante, sconvolta, gente che si cerca, si chiama. La piccola infermeria dello stadio è letteralmente scoppiata in pochi minuti. Vi hanno portato un morto dopo l’ altro e uno dopo l’ altro veniva fatto scomparire nel fondo di ambulanze che continuavano ad arrivare da tutta la città. Assurdamente, con atti di fede e di disperazione, molti morti sono stati portati via avvolti nelle bandiere bianconere della Juve. Tutto è cominciato verso le 19. Lo stadio era già pieno, di gente immersa nei soliti riti di festa che precedono la grande cerimonia della partita. Non c’ erano segnali di paura. Nel pomeriggio era giunta notizia di un ferito, ma era sembrato quasi un tributo normale per orge di follia come questa.
Allo stadio colpivano comunque subito i vasti spazi che si aprivano in una curva. Era una specie di territorio di nessuno che si allargava fra una parte dei tifosi juventini e il settore dove quasi tutti gli inglesi erano stati instradati dalla polizia belga. C’era molta paura di questi tifosi del Liverpool rissosi per tradizione, molto spesso ubriachi. I belgi li avevano affidati a milleduecento agenti fin dal loro arrivo ad Ostenda due giorni fa. Li avevano tutti relegati in un paese nei pressi di Bruxelles e condotti allo stadio con linee speciali della metropolitana. Stipati nel loro settore gli inglesi hanno cominciato ad ondeggiare paurosamente poi hanno cercato il loro spazio vitale al di là delle transenne. Non un poliziotto presidiava quell’ ideale, fragilissima, terra neutra. Gli inglesi si sono immediatamente allargati a macchia d’ olio entrando in collisione con le prime file dei tifosi juventini. Sono subito volate botte, anche violente, ma per qualche istante è sembrata la solita rissa da stadio, malinconica e inevitabile. La gente indicava e quasi sorrideva. Faceva colore. Poi è successo qualcosa di tremendo, come lo sfondamento di un fronte. Di colpo quell’ improvvisa linea juventina ha ceduto, la gente è cominciata a scappare sotto i colpi di giovanissimi energumeni inglesi. Scagliavano mattoni, bottiglie e colpivano con un’ incoscienza bestiale venendo sempre più avanti. E’ esploso il panico. Gli italiani sono precipitati l’ uno sull’ altro travolgendosi a vicenda, cercando scampo in spazi che si restringevano a vista d’ occhio.
Quattro-cinque mila persone in pochi istanti si sono accalcate contro il muro di recinzione laterale sbandando paurosamente, continuando a precipitare dalle gradinate. Una fuga tragica e disperata che si è trasformata in un assalto alle transenne. L’unica speranza era il campo, il terreno di gioco, e tutti hanno cercato di passare quella acuminatissima barriera metallica. Sconvolti, imbottigliati, ancora pressati da assurde avanguardie inglesi che continuavano a picchiare, i tifosi italiani hanno cominciato una tremenda corsa al suicidio. Ho visto decine e decine di persone cadere dall’ alto delle transenne e stramazzare al suolo con il sangue che schizzava violento. E gli altri che fuggivano come pazzi. E’ successo tutto in pochi minuti e senza che la polizia belga abbia mai mosso un dito. Quando è arrivata in forze ed ha caricato gli inglesi, le tribune e il campo erano già un cimitero. Uno spettacolo agghiacciante, indescrivibile, che ha finito di accendere il resto dei tifosi italiani. Per un attimo siamo stati ad un passo dalla battaglia generale, definitiva. Dalla curva opposta gli italiani hanno infatti sfondato le reti e a decine si sono precipitati dall’ altra parte. Per fortuna stava appena entrando la polizia a cavallo che è riuscita a tamponare almeno questo assalto. Una fortuna misera che pochissimo toglie allo sgomento.
Sono adesso le 21,40. Dentro lo stadio è tutto così tornato assurdamente normale che le squadre stanno perfino entrando in campo. Fuori tre grandi tende allargano sempre più l’ ospedale di questa battaglia del calcio. La verità è che nessuno sa come far uscire cinquantamila nemici dallo stesso luogo senza altri incidenti. Si dice che stia arrivando l’ esercito. La partita sarebbe solo un grottesco tentativo per prendere tempo. Impossibile sapere se avrà una qualche ufficialità. C’è da augurarsi di no per quello che di umano resta in questa notte di pazzia. Mentre si gioca, l’ altoparlante annuncia messaggi strazianti. Nomi su nomi che cercano, gente che si dà appuntamenti disperati immersa nella paura che non verrà nessuno. Nella curva del massacro sono rimasti adesso soltanto i resti della tragedia. Documenti, sciarpe, bandiere, vestiti stracciati, scampoli di vita che non appartengono più a nessuno. Ma intanto si gioca. Lo stadio è ormai presidiato. Nessuno può muoversi dal proprio posto, in qualunque settore. Fuori, centinaia di camion e cellulari continuano a scaricare agenti.
Mentre Boniek cade in area e Platini realizza il rigore, la radio annuncia che tra i morti ci sarebbero undici bambini, tutta la squadra giovanile dell’Anderlecht. Avevano appena finito di giocare, una sorta di avanspettacolo felice che permetteva poi a tutti di vedersi la partita da sotto le tribune. Sarebbero rimasti schiacciati dalle transenne in cemento che facevano da base alle reti di recinzione travolte nel momento della grande fuga. Quando la partita finisce si scatenano scene di entusiasmo. Fuori centinaia di feriti son stati portati in dieci ospedali tra la città e la provincia. Dentro il dubbio è solo se la Coppa sarà valida o no