TRAUTMANN Bert: la redenzione del portiere

Quella dei prigionieri tedeschi nei territori alleati alla fine della Seconda Guerra Mondiale è un’altra brutta, bruttissima pagina della storia moderna. Come tutte le vicende legate ad un conflitto così atroce è difficile risalire ad una verità univoca: le notizie, i numeri e le responsabilità variano a seconda della fonte. Ciò che è sicuro è che negli ex territori occupati la sete di vendetta fu più forte di ogni convenzione umanitaria. Alla fine delle ostilità centinaia di migliaia, in Russia milioni, di prigionieri di guerra dell’Asse non furono rilasciati ma costretti a rimanere in condizioni di quasi schiavitù per aiutare a ricostruire quei paesi che la follia di Hitler aveva parzialmente distrutto.
Nonostante la guerra e i contrasti del “dopo” però molte persone decisero di rimanere dove erano, in territorio nemico, sperando che il tempo potesse lenire le ferite impresse per sempre nella memoria di vinti e vincitori. Tra queste c’era Bernhard (Bernd) Carl Trautmann, uno dei più grandi portieri di sempre la cui storia, a molti ignota, merita di essere raccontata.

Nato a Brema il 22/10/1923, Bernhard Carl Trautmann iniziò da giovane a giocare nel TURA Bremen e a tifare per il Werder. Scoppiata la guerra, nel 1941 si arruolò in aviazione ma finì a fare il radio operatore nei paracadutisti e fu inviato in Russia. Catturato dalle forze Sovietiche riuscì a scappare dal campo di prigionia. Spedito sul fronte occidentale fu preso dai Francesi. Ancora una volta fuggì ma nel Marzo del 1945, quando ormai il conflitto mondiale si avviava verso la fine, fu di nuovo fermato dalle Forze Alleate, questa volta dagli Americani, e trasportato nel campo di prigionia di Ashton, non lontano da Manchester.

In un’intervista rilasciata al The Guardian nel 2000 dichiarò: “A 17 anni ero già un soldato ed ho dovuto assistere all’orrore e alla bestialità della guerra. Ma la mia formazione come persona è iniziata a 22 anni, quando, come prigioniero, sono arrivato in Inghilterra. La gente fu gentile, non vedevano un soldato nemico in me ma soltanto un altro essere umano. Dopo la fine delle ostilità decisi di andare a visitare la mia famiglia che non vedevo da sei anni. Alcuni degli abitanti della zona mi diedero un cesto con tutta roba che allora era razionata, come burro, zucchero, pancetta, e una busta con 50 sterline. Mi fecero commuovere.”

Tra gli svaghi principali nella vita del campo c’era ovviamente il calcio. Si organizzavano partite con quelli vicini e il giovane Trautmann si disimpegnava piuttosto bene come mezzala destra. Un giorno però nella sua squadra venne a mancare il portiere. Si offrì volontario per andare in mezzo ai pali. Non ne uscì più.
Una volta liberato, dopo la guerra decise di rimanere dov’era. La gente lo aveva preso a ben volere, ribattezzandolo per facilità di pronuncia Bert, e chi lo aveva visto in azione come portiere era ben determinato a non lasciarselo sfuggire. Per qualche tempo difese la porta della formazione amatoriale del St Helens Town FC dove il pubblico da poche centinaia diventò di qualche migliaio, in parte attirati dalla novità dello straniero ma in molti impressionati semplicemente dalla sua abilità. Durante un’amichevole contro il Manchester City impressionò talmente gli osservatori che decisero di offrirgli subito un contratto. Era il 1949.

I dirigenti del City però non avevano preso in considerazione due cose. Una era il fatto che Trautmann avrebbe dovuto rimpiazzare Frank Swift, praticamente una leggenda da quelle parti. Swift aveva vinto la FA Cup nel 1934 ed il campionato nel 1937 e se non fosse stato per la guerra la sua carriera, soprattutto a livello internazionale, avrebbe presentato tutti altri numeri. Ma il problema principale era la sua provenienza. Bert, per quanto inserito in Inghilterra, era tedesco. Aveva combattuto contro i figli della patria che lo ospitava, aveva servito un regime infame. Più di 20mila persone scesero in piazza a protestare e molti degli abbonati minacciarono di non mettere piú piede allo stadio fin tanto che il portiere della squadra fosse stato l’ex prigioniero di guerra di Ashton. Considerando che tuttora i supporter tedeschi vengono accolti al di là della Manica da frasi quali “Una Coppa del Mondo e due guerre mondiali” e da tifosi inglesi che mimano gli aerei della RAF protagonisti decisivi della Battaglia d’Inghilterra, non è difficile immaginare quale fosse il clima che si respirava intorno allo stadio di Maine Road in quei tempi.

Soprattutto la popolazione di origine ebraica di Manchester non ne voleva sapere. Dovette intervenire il rabbino capo riconoscendo in Bert Trautmann una brava persona, totalmente estranea alle atrocità della guerra. Le parole del rabbino fecero calmare un po’ le acque, il resto lo fece lui stesso. Nella prima trasferta a Londra, contro il Fulham, nel 1950, il pubblico di entrambe le fazioni iniziò a fischiarlo. I padroni di casa fecero una gran prestazione ma, grazie alle prodezze del loro estremo difensore, il City perse solamente 1-0. I giocatori di entrambe le squadre, e il pubblico, applaudirono Trautmann fuori dal campo a fine partita.

Presto i tifosi si resero conto di aver appena perso una leggenda tra i pali ma di averne trovata una ancora più grande.”Quando iniziai la mia carriera qui – ha affermato in una intervista sul sito del City – la gente non mi voleva accettare, mi boicottava ma poi cambiarono idea ed io sarò per sempre grato a tutti loro per questo, chissà cosa sarebbe stato della mia vita se non fosse accaduto. Per me questo rimane il successo più grande. E lo devo ai tifosi, ai compagni di squadra, agli altri calciatori, a tutti quanti.”

Nel 1952 la Schalke cercò di riportarlo in patria facendo un’offerta sostanziosa ma i responsabili tecnici del Manchester City ebbero la forza di resistere. E non solo loro. Lo stesso Trautmann, decidendo di rimanere nel Lancashire di fatto diede addio alla nazionale. In quei tempi infatti i giocatori che militavano all’estero non venivano neanche presi in considerazione, le opportunità di vederli all’opera infatti erano assai rare. Quindi, sebbene all’epoca non vi fossero dubbi su chi fosse il miglior portiere tedesco in circolazione, la nazionale ne fece a meno e nel 1954 riuscì a compiere il “miracolo di Berna”, da 0-2 a 3-2 in finale contro la favoritissima Aranycsapat, la squadra d’oro, l’Ungheria di Puskas e compagni, portando la prima Coppa del Mondo in Germania.
Non ho mai sofferto per non aver fatto parte della nazionale campione del mondo del 1954. Ascoltai la partita alla radio eccitato e felice. Ero cosciente che per i giocatori che militavano all’estero era quasi impossibile poter essere notati dai selezionatori.”

La riconoscenza e l’amore per la sua patria adottiva e per il suo club erano stati più forti di tutto e nella finale di FA Cup del 1955, contro Newcastle United, ebbe la prima possibilità di vincere qualcosa di importante con loro. Purtroppo dopo un minuto Trautmann, il primo tedesco a partecipare ad una finale di questa competizione, già raccoglieva la palla in fondo alla rete. Nonostante il momentaneo pareggio, a lui e ai suoi compagni toccò il primo turno sui 39 gradini di Wembley, quello dei perdenti (1-3).
L’anno dopo, il cinque maggio, il City ebbe l’occasione di rifarsi. Ancora in finale di FA Cup a Wembley, questa volta contro il Birmingham. Situazione invertita rispetto all’anno precedente. Vantaggio dopo tre minuti, pareggio degli avversari e due gol segnati verso metà della ripresa. Bisognava resistere agli attacchi dei Blues per i restanti 22 minuti.

A 17′ dalla fine un cross corto arrivò nell’area del Manchester, Trautmann si precipitò fuori dalla porta per agguantare il pallone mentre l’attaccante del Birmingham Peter Murphy arrivava a tutta velocità. I due si scontrarono violentemente ed il portiere tedesco rimase a terra privo di sensi. Il massaggiatore entrò con spugna e secchio, all’epoca non si aveva altro come non si avevano rimpiazzi in panchina. 17 minuti al trionfo, bisognava stringere i denti. Bert si ritirò su ma non poteva spostare la testa. Per tre volte si accasciò al suolo perché il dolore era insopportabile. Intorno vedeva sagome nella nebbia. Riuscì a fare un altro paio di interventi. Reggendosi il collo con una mano arrivò a fine partita e questa volta oltre ad una medaglia ritirò anche la Coppa.

Il giorno dopo il dolore era ancora forte e decise di andare in ospedale. Dissero che non era niente, solo una botta, un po’ di riposo e tutto sarebbe passato. Altri tre giorni se ne andarono senza nessun miglioramento. Tornato a Manchester decise di sottoporsi ad un’altra visita. Questa volta il dottore gli fece una lastra. La diagnosi lo fece impallidire: “Dovresti essere morto o, almeno, paralizzato” gli disse il medico. Una vertebra cervicale era spezzata in due ma la violenza dell’urto aveva fatto sì che quella sotto, spostandosi a sua volta, la avesse mantenuta al suo posto.
Quando la notizia fu di dominio pubblico Trautmann assunse il ruolo di leggenda avendo aiutato, anche se a sua insaputa, la propria squadra a vincere un trofeo a rischio della sua stessa vita. “Tutti mi cominciarono a chiamare eroe ma la verità è che se io all’epoca avessi saputo di avere un osso del collo rotto mi sarei precipitato fuori dal campo e in ospedale“.

A fine stagione, nel 1956, fu il primo straniero ad essere eletto Giocatore dell’Anno nel campionato inglese. Dopo l’operazione dovette indossare un collare con dei sostegni per parecchio tempo. Fu in questo periodo che il nuovo beniamino della tifoseria del City dovette affrontare l’episodio più triste della sua vita. Il suo bambino di cinque anni fu investito ed ucciso da una macchina fuori la porta di casa. La tragedia segnò anche il rapporto con sua moglie che non riuscì più a riprendersi dalla tragedia. Dopo una serie intensa di allenamenti nel 1957 riprese il suo posto tra i pali ma le prime partite furono costellate da errori. Il tempismo delle uscite, la visione, la concentrazione ancora non erano tornate quelle degli anni pre-infortunio. Offrì al club di andarsene ma gli fu ovviamente risposto che non se ne parlava. Spronato ancora una volta dalla prova di fiducia nei suoi confronti si ributtò con ancora più determinazione negli allenamenti fino a tornare lentamente il portiere che tutti conoscevano.

Nel 1960 la Football League per la prima volta decise di includere un giocatore straniero nella propria rappresentativa che avrebbe dovuto affrontare l’equivalente formazione irlandese e più tardi quella italiana. La Coppa d’Inghilterra del 1956, quella che tutti ricorderanno per sempre a causa del suo incidente, rimarrà il solo trofeo vinto con la maglia del Manchester City, l’unica della sua carriera. Tra coppe e campionato la indossò 545 volte.

In una notte piovosa dell’Aprile del 1964 “Bert” Trautmann giocò il suo “testimonial”, la sua partita di addio, di fronte una selezione Manchester XI e la nazionale inglese. Bobby Charlton, Tom Finney, Stanley Matthews, tanto per citarne alcuni, lo definirono uno dei più grandi portieri di tutti i tempi. Gordon Banks, da molti indicato come il miglior portiere inglese di sempre, aggiunse ai soliti complimenti sulla sua bravura tra i pali, la sua calma e la sua precisione nella distribuzione del gioco: “Per me la cosa piú importante è che era un incredibile uomo di sport e giocava ogni partita come se ci dovesse qualcosa, se dovesse qualcosa a tutti perchè era stato un prigioniero di guerra tedesco ed era stato comunque accettato. Per me era piú vero il contrario, noi avremmo dovuto essere grati a lui per essere rimasto e averci mostrato che gran portiere era. Io di sicuro ho imparato molto da lui.”

In 60mila vollero andare a salutarlo. Non a sorpresa, considerando la freddezza con la quale all’inizio era stato accolto, quella partita rimane ancora oggi il suo ricordo più bello. Per molti calciatori i tempi difficili arrivano a fine carriera e questo caso non fa eccezione. Appena attaccati i guanti al chiodo Trautmann diventò manager dello Stockport County. La squadra venne promossa ma dopo alcuni dissapori con il presidente decise di lasciare. Nel 1966 fece da accompagnatore alla nazionale tedesca nei campionati mondiali in Inghilterra fino alla finale persa contro i padroni di casa. Ricevette nel 1967 il patentino per allenare in Germania dove tornò dopo aver divorziato dalla moglie. Le cose non andarono bene e presto, in tempi in cui gli stipendi dei calciatori non erano neanche lontanamente paragonabili a quelli assurdi di oggi, si ritrovò in difficoltà finanziare e nella poco simpatica situazione di affrontare alcuni giornali che gli ronzavano intorno per avere lo scoop dell’ex portiere famoso caduto in rovina.

Gli venne incontro il Ministero degli Esteri Tedesco che, sotto la spinta della Federazione, lo inviò in paesi come Burma, Tanzania, Yemen, Liberia, Pakistan con il compito di aiutare a sviluppare un calcio ancora in erba. Tornato in Germania si risposò nel 1987 e dal 1990 si trasferì in Spagna dove si manteneva con una pensione del governo tedesco. “Con tutti i tuffi che uno fa quando è portiere è normale che sia pieno di dolori. Il sole da queste parti li rende più sopportabili – diceva l’ex numero uno del City poco prima della sua morte avvenuta nell’estate del 2013 – e anche il dolore al collo è ancora lì. Se mi volto di scatto ho ancora delle fitte che mi fanno venire le lacrime agli occhi.