Turks & Caicos: il Calcio in Paradiso

Nel Mar dei Caraibi c’è una piccolissima Federazione calcistica sconosciuta dove lavora un italiano: Alessio Girotti. Un racconto per capire cosa significa giocare a calcio ai bordi del Paradiso


Si racconta che un giorno, un pallone colpito troppo forte e spinto dal vento finì in acqua, lontano dalla riva. La corrente completò l’opera, portandolo al largo. E i giocatori con lo sguardo perso nel blu a un certo punto videro quel pallone salire e scendere, salire e scendere, sulla linea dell’ orizzonte. La partita, sospesa per mancanza di materia prima, l’avevano continuata delfini e balene…

Sarà anche una leggenda isolana, buona per un racconto alla Soriano, ma rende esattamente l’idea. Da quelle parti, il calcio è cosa fresca. Non è passato molto tempo da quando il campo faceva rima solo con spiaggia e ai piedi solitamente nudi sono spuntate, non sempre, scarpe con tacchetti.

Turks & Caicos, colonia britannica con autonomia interna: 40 isolotti spuntati a cerchio nel mar dei Caraibi con un certo ordine, che guardano le Bahamas a nord, Cuba a ovest, Haiti a sud e tanta acqua a est. Il posto giusto per chi ama dribblare tra pesci e coralli.

Providenciales e Grand Turk, le località principali, si dividono il soprannome di «Mecca dei subacquei». I 20mila residenti sparsi tra gli atolli abitati vivono, of course, di pesca e turismo. E giocano a pallone con le balene. Grazie, anche e soprattutto, a un italiano. Alessio Girotti, 52 anni, padre famoso, un passato da sportivo, parecchie esperienze alle spalle e un presente-futuro da pioniere del calcio, ha il sorriso nella voce quando ci descrive il suo paradiso.

Dice: «Qui l’unica cosa che c’è è il mare: ma è favoloso. Esco da casa e sono in spiaggia. E se faccio cento metri a nuoto, posso vedere le balene. Questo è il periodo giusto».
Un posto che piacerebbe molto al provetto sub Fabio Capello, uno dei suoi modelli. Ma Girotti, piuttosto che inseguire soldi e chimere, ha preferito insegnare calcio in un paradiso.
«Non diventerò milionario, ma dello stipendio sono molto contento. Da queste parti, mi permette di vivere molto bene. Bisogna tenere conto che anche i giocatori della nazionale prendono solo la diaria. E comunque non sono certo i soldi il motivo per cui sono qui».

Una fase di Turks And Caicos - Bahamas 0-4 del luglio 2011
Una fase di Turks And Caicos – Bahamas 0-4 del luglio 2011

Finalmente uno che può parlare di scelta di vita, senza rischiare che gli si rida in faccia. Nel calcio delle Turks, lui ricopre parecchie cariche: oltre a girare per le isole a scovare e crescere talenti, a tenere i rapporti tra il calcio e il Governo, è responsabile delle squadre della capitale della regione, tecnico della nazionale di Futsal (il calcetto con regole Fifa) e manager tecnico e organizzativo di tutte le nazionali: maschile, femminile e giovanile. Spiega: «Nello stile del football inglese, sono il braccio destro del direttore tecnico».
Stranamente, i britannici qui non hanno insistito molto col calcio. «Da poco i giovani si stanno avvicinando seriamente al pallone. Io e altre 4-5 persone ci occupiamo dello sviluppo di questo sport. Soltanto dal ’98 è iscritta nella Concacaf anche la federazione delle Turks & Caicos. Io sono arrivato l’anno dopo».

Facendo un lungo giro. Girotti è figlio di Massimo, prima campione di nuoto e poi uno dei bravi attori del cinema italiano. Scomparso un anno fa, quando erano appena terminate le riprese di «La finestra di fronte» di Ozpetek, con cui ha vinto il David di Donatello postumo, aveva lavorato in 118 film e coi più grandi registi del dopoguerra: Visconti («Ossessione» e «Senso»), Antonioni («Cronaca di un amore»), Germi («In nome della legge»), Rossellini e De Sica.

Alessio è cresciuto nel suo mondo, che contemplava anche lo sport, ma non il calcio: «Studiavo e giocavo a rugby, terza linea con il Rugby Roma, l’Olimpic e infine l’Algida. A 28 anni mi sono trasferito a Los Angeles: scrivevo sceneggiature. E’ stato lì che ho scoperto il pallone, attraverso amici italiani. Ho giocato, a centrocampo, fino a quasi 40 anni nella lega municipale, una sorta di seconda divisione: c’erano squadre formate da messicani, argentini, uruguaiani e inglesi. Coi piedi non ero un fenomeno, ma avevo già la vocazione dell’allenatore in campo. Una volta smesso, il passaggio in panchina è stato naturale. Poi mi sono trasferito a Key West, per la mia passione per il mare, e mi sono messo a insegnare calcio ai ragazzini. Mi sono appassionato, e ho cominciato a prendere la licenza. Intanto, giravo i Caraibi facendo sub e cercando un pezzo di terra e una casa dove stabilirmi definitivamente. L’ho trovato qui».

Fondali da paura e calcio da plasmare: il massimo per lui. «Nel ’99, ero l’unico ad avere il patentino di allenatore professionista. Sono stato subito coinvolto nel progetto. Mi sento un pioniere. L’entusiasmo è pari alle difficoltà. Per dire, a volte giochiamo senza scarpini perché non ce ne sono abbastanza, con la sterpaglia sparsa per i campi secchi. E i genitori non ci aiutano: seguono poco i ragazzi, e non li incoraggiano a fare sport. Anche selezionare i giocatori diventa un problema: non c’è un vero e proprio campionato, si sfidano le squadre della stessa isola. Per ogni spostamento è necessario un piccolo aereo, e il costo è di 100 dollari a persona. Dunque bisogna organizzare tornei che durino un po’ per evitare continui viaggi. Anche per la Nazionale. Eppoi sono davvero pochi i campi in erba, perché hanno bisogno di tanta acqua, visto che qui il clima è arido. Grazie ai fondi elargiti della Fifa, senza i quali saremmo spacciati, a Providenciales l’anno scorso è stato costruito un grande centro sportivo. E’ costato quasi un milione di dollari. Ora stiamo allestendo un campo di allenamento: lo lasceremo a sabbia, sennò spendiamo troppo».

Problemi economici, di crescita e, soprattutto, di competitività. Nel giro caraibico le donne vanno abbastanza bene, la squadra di calcetto, forse perché ha bisogno di meno giocatori e perché è guidata in toto da Girotti, meglio ancora. E’ la Nazionale maschile che è indietro. Parecchio.

Spiega il tecnico di casa nostra: «Qui i giocatori sono della Giamaica, Trinidad, Guyana e isole come Santa Lucia e Sant Vincent. Gli indigeni tra i 20 e i 30 anni che giocano sono pochi, per questo ci sforziamo di far «crescere» i bambini dagli 8 ai 14 anni. La Fifa lo sa, siamo all’inizio di una fase di sviluppo, e ci vorrà almeno una decina d’anni per diventare competitivi. Stiamo chiedendo di poter utilizzare i residenti come una sorta di oriundi: con loro potremmo far parlare di noi nei Caraibi con qualche anno di anticipo. Per i primi tempi volevamo dedicarci alle donne e al calcetto, senza impegnarci nelle qualificazioni mondiali, ma non è stato possibile. Nel 2000 abbiamo incontrato San Kitts & Newitt e abbiamo perso l’andata 6-0 e la seconda sfida 8-0. D’altronde il massimo della partita qui, un vero evento, non si parla d’ altro per giorni, è quando la nazionale sfida la selezione di marinai delle navi inglesi che transitano da Turks, come è successo il mese scorso. Facciamo fatica a vincere».

Haiti nel ’74 si qualificò ai Mondiali di Germania grazie a un altro italiano, il primo a tentare l’avventura della panchina esotica: Ettore Trevisan. Girotti non aspira a tanto, ma a qualcos’altro: «Non escludo un giorno di tornare in Italia e magari allenare una squadra di serie C. Se comincio a vincere nelle qualificazioni caraibiche, chissà… magari potrò aspirare a qualcosa di più. Ma sarebbe un’altra avventura, non un ritorno definitivo. Io questo posto me lo tengo». Giocando con vista sulle balene. Vuoi mettere?