Ultimo Minuto

Nell’amarissimo «Ultimo minuto», regia di Pupi Avati, Ugo Tognazzi restituisce alla perfezione i vizi e le virtù di un anziano general manager messo da parte dal nuovo padrone della squadra. Che lo richiamerà per un colpo di scena finale al gusto della rivincita.

di Paolo Rossi

«Ogni squadra ha il suo cuore. E spesso quel cuore è nascosto, e batte e dà vita a tutto l’organismo. Non sempre è nel petto dell’allenatore o del centravanti; spesso si nasconde altrove. Ma noi sappiamo chi è l’uomo che possiede quel cuore, il cuore della nostra squadra, quello che l’ha tenuta in vita. Signori, l’avvocato Walter Ferroni».

Nel discorso tenuto durante la cena di presentazione della nuova stagione, il neo Presidente Renzo Di Carlo tratteggia un ritratto del general manager che più lusinghiero non si potrebbe. L’uomo è anziano quanto basta per averne viste tante e non farsi prendere dalla commozione. E fa bene: pochi giorni dopo verrà puntualmente licenziato.

Ultimo minuto” (1987) è un’incursione malinconica nel mondo del calcio, com’è nello stile amarognolo del suo regista, Pupi Avati. Tra gli sceneggiatori figura Italo Cucci, attento cantore degli aspetti meno dorati del calcio. La figura del dirigente rientra in questa categoria, con tutto il corollario di segreti, sotterfugi, meschinerie, accomodamenti e sana arte dell’arrangiarsi che si esercita quotidianamente.

A interpretare una figura tra le più importanti per il funzionamento di un club, c’è un Ugo Tognazzi crepuscolare, maschera tra le più efficaci della commedia all’italiana, capace d’incarnare quel retrogusto del vivere che arriva inesorabile quando meno te lo aspetti.

Ferroni ha trascorso trent’anni nella stessa società. Nome taciuto, colori biancorossi, gioca nello stadio del Vicenza ma non ha la maglia a strisce onde evitare confusioni e interpretazioni maliziose. Un’esperienza importante che però non è sufficiente a salvargli il posto all’arrivo del nuovo padrone, dinamico, giovane e accusatore: il general manager si fa chiamare avvocato, ma è un titolo usurpato, un’opportuna indagine svela che non ha neanche il diploma da ragioniere; la sua gestione del bilancio è quantomeno disinvolta; le foto della figlia con un giocatore sono compromettenti; i risultati sportivi sono deficitari, con salvezze rimediate all’ultima giornata quando l’ambiente si aspetta l’inserimento nella lotta scudetto.

Il dirigente ha orgoglio da vendere e rifiuta una proposta d’inserimento nell’organigramma come semplice accompagnatore, trasformando le ragioni dell’allontanamento in medaglie al valore personale, avendo per ben due campionati impegnato beni personali pur di aggiustare risultati che permettessero la permanenza in Serie A.

La carica dirigenziale appare un mestiere totalizzante, una passione vorace che distrugge la normalità dell’esistenza e non la ricostruisce più. Lo ricorda la figlia, scadenzandogli le tappe più significative che hanno di fatto negato una vita privata degna di tal nome: alla sua nascita non c’era per una gara di Dilettanti in Austria e la notizia della morte della moglie lo ha colto lontano, in una delle tante trasferte domenicali.

In sostanza, il general manager si pone agli antipodi della professione del calciatore. Non c’è nulla di ludico nel suo continuo peregrinare, nel soddisfare ogni minimo capriccio dei ragazzi, nell’occuparsi di ogni particolare utile per il buon esito finale, nel sistemare ogni faccenda più o meno complessa.

Di peggio, nel film, c’è solo il mestiere dell’osservatore di squadre minori (nel film interpretato da Diego Abatantuono), equivalente a un rappresentante che macina trentamila chilometri all’anno e viaggia in seconda classe, rimpiangendo il passato («Noi sì che abbiamo visto il calcio quando è stato grande») ed esibendo pateticamente medagliette e braccialetti regalati da Rivera e Sormani.

Il tempo è galantuomo, almeno in certi ambiti, anche se Ferroni stesso sa che «c’è un momento in cui si smette di vincere». Ma la persona è temprata il giusto per non dichiararsi definitivamente un ex. La cifra del suo carattere sta tutta in una convinzione espressa mentre si danna l’anima per dare una mano alla società anche da esterno: «A me i ricordi mi fanno girare i coglioni».

Dopo sole quattro giornate, l’anziano general manager verrà richiamato d’urgenza dato il pessimo ruolino di marcia della squadra, confinata in zona retrocessione. Al minuto novantesimo della sua prima partita, vissuta in panchina con un’esaltazione da Trapattoni, il gol di un esordiente diciassettenne, fortemente voluto da lui, lo ripagherà dell’enorme quantità d’impegni che ha assunto in una sola settimana, sostituendo di fatto l’allenatore nella preparazione tattica della gara.

Nell’espressione sofferente dell’uomo, ai limiti dell’infarto al fischio finale, c’è un’indicazione suggestiva: il dirigente è il corpo vivo di un club, l’anima visibile, l’unità di misura della gioia e dell’angoscia, non di rado unite insieme.

Ecco la trascrizione di una scena clou del bellissimo film. Walter Ferroni, il dirigente protagonista, si rivolge al nuovo Presidente:

«Senta, Presidente, sarà bene che le fornisca qualche altro dettaglio che magari non c’è sulla scheda. Sono vedovo da tre anni e da due non ho più rapporti sessuali. Vivo in un albergo di seconda categoria, mangio solo bistecche ai ferri, bevo acqua minerale, fumo tre pacchetti di sigarette al giorno e non mi posso nemmeno permettere la gomma da masticare perché mi si attacca al ponte. Due anni fa, per salvare la squadra dalla retrocessione, lei lo sa che cosa ho fatto? Ho venduto l’appartamento di mia moglie; in due giorni mi sono fatto tremila chilometri in macchina per convincere un amico ad aiutarci. Questo non è niente. L’anno successivo stessa cosa, sempre nella merda? 150 milioni di cambiali firmate in proprio per permettere al nostro allenatore – quello zero che è Corti – di dichiarare in televisione che aveva salvato lui la squadra dalla Serie B. Quest’estate ho costretto mia figlia a farsi corteggiare – lasciamo stare I dettagli – dal grande calciatore Boschi, e sa perché? Perché se no se ne andava di qui, se ne andava alla Fiorentina che lo aveva richiesto. E così dò a lei la possibilità di avere ancora un giocatore che sa com’è fatto un gol. lo non so quando è nata mia figlia. Ma so esattamente che il 23 dicembre 1976 abbiamo fatto 2-2 con l’Udinese e che la domenica successiva abbiamo perso 3-0 con la Roma… E allora l’altra domenica sa cosa ho fatto? Ho fatto fare un autogol a Panzani a tre minuti dalla fine, un favore personale!»