UMBERTO LENZINI – Intervista novembre 1975

Impresario edile “che ha studiato” e si è conquistato nelle cronache sportive fama di indovino e despota

I mattoni della Lazio

C’è un bel salto, e non di soli chilometri, fra il presidente di una società calcistica del Nord ed uno del Centro-Sud, salto di mentalità, e perciò di impegni sociali ed economici. Se a Nord ci sono le fabbriche, o le grandi imprese finanziarie, da Roma in giù la sola industria è l’edilizia. Comprensibile quindi che i presidenti di Lazio, Roma e Napoli siano tre grossi manipolatori del mattone e del calcestruzzo, tre personaggi che hanno affogato, e continuano ad affogare, le città con le apoplettiche periferie o coi dilaganti quartieri residenziali. I milioni, forse i miliardi, li hanno messi insieme costruendo palazzi anche in spazi vasti come aiuole, o sterminati quartieri proiettati verso la campagna. Nello studio dell’impresa Lenzini c’è un omino alquanto pingue, barbetta alla Belzebù, che rappresenta il coro e ripete come eco fedele l’ultima parola del presidente. E’ Richetto Croce, riconosciuto e venerato capo dei tifosi laziali, ombra del presidente Lenzini. Attacchiamo con le origini presidenziali.

«Sono nato a Wolsemburg, Colorado, Usa, nel 1912. I miei erano povera gente, venivano da Piumalbo, nell’Appennino modenese. Mio padre faceva il minatore. Avevo 12 anni quando sono tornato in Italia, a Piumalbo coi miei genitori e gli altri miei quattro fratelli; ci sentivamo estranei, parlavamo americano. Mio padre si trasferì a Pistoia, perché imparassimo l’italiano. Ci restammo una decina d’anni, poi ci siamo trasferiti a Roma. Coi soldi risparmiati in America mio padre comperò dei terreni, prima in Toscana, poi a Roma. Incominciò a costruire case. Nei 1928 era già uno dei più forti impresari di Roma».
Dicono che lei abbia incominciato come garzone muratore, che anche lei si sia fatto i calli alle mani con la cazzuola. «Scherza; io sono ragioniere, io ho studiato». «Ha studiato» riecheggia Richetto. Entra un altro personaggio. «Tutto a posto preside, il viaggio ad Ascoli organizzatissimo, il pullman è un gioiello». Lenzini annuisce benevolo. «Vedesse il pullman del presidente, dice Richetto, una favola. C’è tutto: frigo, televisione, tavolo per giocare a carte. Un sogno».

Benissimo, ma come mai l’impresario Lenzini s’è trovato a guidare la Lazio fino agli onori dello scudetto? «Era il 1963, un anno da ricordare. La Lazio andava malissimo, non riuscivano nemmeno a pagare i conti negli alberghi dove scendevano i giocatori. Io ero un tifoso un po’ tiepido, e semmai dimostravo simpatie per il Bologna, o per la Fiorentina, ma mi hanno attirato; avevano bisogno di soldi, ed io ne avevo. Mi nominarono vice presidente. L’anno successivo presi in mano la situazione, divenni presidente del consiglio d’amministrazione, in cui inclusi anche due miei fratelli. Quest’anno faccio il decennale».

Vuol celebrarlo con un secondo scudetto? «Chi sa, il cammino è lungo, e ci sono tante squadre in corsa con noi; ci sono il Torino, la Roma, l’Inter, il Milan, il Napoli». Se continua infila anche l’Ascoli, ultimo in classifica. Era la vigilia dell’incontro di Ascoli Piceno, naturale che gli chiedessi un pronostico. «Non saprei, queste squadre che hanno bisogno di punti sono brutti ostacoli, s’impegnano allo spasimo per battere le grandi». La sua fama di oracolo incomincia ad incrinarsi, non si sente più di predire il futuro sportivo. Non si può dire se azzeccasse i risultati perché dotato di poteri vaticinatori, o perché l’anno scorso alla Lazio tutto andava per diritto; certo è però che lo chiamavano il mago. Ora si sente incerto, oppure sbaglia. Ad una cena offerta dal suo collega in presidenza ed in costruzioni edili, l’ing. Ferlaino, presidente del Napoli, nel brindisi si abbandonò ad una previsione. «Domani sera, disse, la Lazio sarà in testa alla classifica». Invece, ha perduto ad Ascoli mentre la Juventus vinceva a Vicenza. Trascuriamo i poteri divinatori, la fama di indovino dev’essergli venuta anche per l’aspetto fisico, gli atteggiamenti che assume conversando o presentandosi ai suoi tifosi. Nei momenti buoni egli precede sempre in campo i suoi giocatori e fa un giro di pista a godersi gli osanna della folla. Procede lentamente muovendo le braccia in gesti larghi, benedicenti. E siccome ha un po’ l’unzione cordiale di un prelato in panni borghesi, oltre ad una vaga rassomiglianza col buon pontefice di Sotto il Monte, venne facile chiamarlo papa Giovanni. Per non cedere alla corrente, Giovanni Arpino lo chiama «il beato Lenzini», andando ancora oltre nelle classificazioni ecclesiastiche, ponendolo già nell’ empireo delle beatitudini.

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Gli domando se ciò gli dia fastidio. «Ma no, risponde; mi diverte». «Lo diverte», fa eco Richetto. Ma come mai saluta la folla a quel modo, non pensa sia troppo ecclesiastico? «E come dovrei salutare? Se facessi così, e tende il braccio in un bel saluto romano, direbbero che sono un fascista». Lo dicono ugualmente, avversari romanisti e no. Quel cantautore Venditti che vi ha definiti «burini, fichetta e fascisti» lo ha fatto solo perché tifoso romanista? «Richetto, informati bene. Se davvero ha detto questo lo querelo». «Lo querela», dice convinto Richetto. Ma c’è qualche valido motivo per sostenere questa diceria di una Lazio appoggiata esclusivamente, o quasi, da un pubblico fascista? «Ma nemmeno per sogno. Ci sono stati presidenti come Giorgio Vaccaro, che era stato presidente del Coni al tempo del fascismo. Nel consiglio di amministrazione ci sono stati, sì, Brivio, ch’era fascista, e l’on. Covelli, che però era monarchico; ma abbiamo anche soci e simpatizzanti socialisti».

Forse la dicerìa nasce dal fatto che voi siete considerati un club alquanto snob, con un seguito di tifosi che vi somigliano? «Ma non è vero, abbiamo un pubblico borghese, qualche intellettuale, ma in provincia i nostri sostenitori sono in maggioranza operai». Educatini, snob, di buona apparenza pubblico e giocatori; non è mai accaduto che i tifosi se la prendessero in malo modo con lei, l’allenatore, la squadra? «E perché mai? I tifosi laziali sono gente perbene. Non capisco l’intolleranza di quelli del Torino, che è poi una bellissima squadra ed è anche lei in corsa per lo scudetto. Qui al massimo fischiano se una partita va storta, e tutto finisce lì». Non sempre, mi pare; non dimentichi quel finale di partita con una squadra inglese, lo stadio quasi devastato dai tifosi mentre i giocatori palleggiavano con stinchi e costole degli avversari. «Tutta una montatura della stampa sportiva». Ma vi hanno esclusi dalla Coppa dei Campioni. «Esagerazione, non ci meritavamo tanto». «Non ce lo meritavamo», suggella Richetto.

Si dice che la Lazio sia una strana società formata da lei, dall allenatore Maestrelli e da undici giocatori che, questo è innegabile, sanno trattare pallone e avversari in maniera egregia, che non ci sia cioè una vera e propria organizzazione, e che tutto si svolga qui, nel suo studio. «Fandonie; la Lazio ha una bella sede ed un’organizzazione che si muove come un orologio». Che la sede ci sia è vero; egli stesso, di tanto in tanto, telefona ed a chi risponde dice; «Parla il presidente», ma ciò non toglie che il despota della Lazio sia lui. «Caspita, posseggo il 90 per cento delle azioni oltre al valore dei giocatori, che sono miei». Le è costata molto questa carica? «Piuttosto». Ma perché ha cercato questa rogna? «Mi piace, mi diverto, mi rilasso. Vede, quando andiamo in trasferta, in pullman, in treno, anche in aereo, è come se facessi una gita di piacere, una scampagnata fuori città con la famiglia, come una volta». Non è stato per ambizione? «Assolutamente no. Vede, oggi parlano di me, sono diventato un personaggio, vengono a intervistarmi, mi invitano, ma fino a poco tempo addietro ero nessuno, mi occupavo della mia famiglia, della mia azienda, della Lazio e basta. Per esempio, le relazioni pubbliche io non le ho mai curate». Quando le ha curate pare lo abbia fatto un po’ maldestramente, dividendo i giornalisti in quelli di prima categoria, ai quali ha regalato una medaglia d’oro con la testa sua e quella di Maestrelli, e quelli di seconda a cui ha dato un portachiavi di argento. «Ma è sempre così, i migliori hanno premi di maggior valore. Il mio errore è stato di fare queste classificazioni in pubblico». Probabilmente se avesse qualcuno al fianco eviterebbe anche queste polemiche. «Perché mai dovrei avere qualcuno a fianco? Le ho già detto, la nostra amministrazione è la più efficiente d’Italia e tutto va benissimo. Poi, che ci vuole a guidare una società calcistica?».

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Si tratta d’amministrazione e anche di rapporti: lei non ha mosso un dito quando negli spogliatoi, dopo una gara perduta, i giocatori si sono presi a botte e Chinaglia ha strappato la fascia di capitano a Wilson gridando: «Questa è mia». Con faccia candida, un sorriso condiscendente, risponde: «Mai saputo di un incidente del genere. I giocatori si sono accordati fra loro, democraticamente, ed hanno eletto capitano Chinaglia; l’allenatore ed io abbiamo preso nota, ed è tutto». E’ vero che la Lazio è oggi largamente attiva? «Non abbiamo debiti e, inoltre, abbiamo un capitale sociale di 800 milioni». Che lei amministra insindacabilmente. «Le ho già detto che posseggo il 90 per cento delle azioni ed è naturale che intervenga e sappia tutto della Lazio come so tutto della mia azienda edile e della mia famiglia». Però le piace essere solo al comando tanto che, caso rarissimo, lei è presidente della società e amministratore unico; c’erano due suoi fratelli nel consiglio d’amministrazione, ma si sono «dimessi». «E’ vero, oggi sono solo alla guida della società e, con l’appoggio di Maestrelli, alla guida della squadra, e le cose non vanno poi proprio male. Però penso di delegare un po’ di poteri, riammetterò nel consiglio d’amministrazione i miei due fratelli e un mio figlio». Una conduzione familiare allargata in corsa verso il secondo scudetto? «Chi sa, il pallone è rotondo e tutto può accadere; ricucire lo scudetto sulle nostre maglie o passare la mano. Glielo ripeto, non mi sento di fare previsioni, benché abbia molte speranze e molta fiducia». Fino a quando conta di fare il presidente della Lazio? «Fino a quando la mia squadra vincerà la Coppa dei Campioni». «La Coppa dei Campioni», esclama Richetto, già vedendo il trionfo laziale. E’ lui ad accompagnarmi alla porta, poi fino ai tassì, lungo quei contorti budelli fiancheggiati dalle case costruite dal ragionier Lenzini. E mi dà un consiglio. «A Torino, vada a mangiare “Ai due Lampioni”, chieda di Bruno a mio nome; le farà anche lo sconto». Le grandi contese calcistiche finiscono sempre, tutte, con l’abbuffata, alla quale si pensa per tutta la settimana.