1912: due giovani calciatori accettano soldi per “tradire” la loro squadra, provocando il primo scandalo del calciomercato. Una storia che segna l’inizio dell’era del professionismo nel calcio.
Si fa presto a dire: i pionieri. Gente che si accontentava, viene da pensare, anche nel calcio. Un calcio rudimentale, ancora tutto da svezzare. Eppure, nonostante le sue forme primordiali, il gioco del pallone era già in grado di suscitare grandi passioni e aspre controversie. Gente però che apriva strade e non poteva farlo con delicatezza (avete presente il West?). Così non stupisce che il primo grande colpo del calciomercato abbia destato scandalo non tanto per la cifra, in sè esorbitante, quanto proprio… per se stesso.
Correva l’anno 1912, potrebbe iniziarsi questa storia, se non sapessimo dove quegli ultimi anni di pace stessero dirigendosi (inconsapevolmente) a rotta di collo. L’Europa era sull’orlo di una guerra senza precedenti, ma nella città di Genova sembrava che l’unica cosa che contasse fosse il calcio e le beghe legate al passaggio di due giovani talenti da una squadra all’altra.
Nell’Andrea Doria giocavano due “draghi” a nome Sardi e Santamaria. Dilettanti intemerati, ragazzi di virtù specchiate anche quando non assestavano pedate alla sfera di cuoio. La loro fama di atleti promettenti era tale che avevano attirato le mire della società rivale, il già glorioso Genoa.
Un giorno, il presidente dei rossoblu, Geo Davidson, un inglese di origine scozzese trapiantato in Italia, convocò i due ragazzi nel suo ufficio. Con un sorriso sornione, estrasse dalla tasca un assegno da duemila lire, una somma favolosa per l’epoca, e lo posò sulla scrivania davanti a loro. Sardi e Santamaria sgranarono gli occhi, a stento credendo a ciò che vedevano. Per entrarne in possesso non avevano che da compiere un’operazione semplice semplice: cambiare maglia, indossando quella rossoblu del Genoa. Poi ovviamente avrebbero diviso a metà quella torta così invitante.
Ai due ragazzi non parve un’operazione difficile. Dopo un istante di esitazione, strinsero la mano al loro nuovo benefattore e si diressero subito alla filiale della loro banca di fiducia per incassare l’assegno. La somma era ingente, dava nell’occhio, e il caso volle che il cassiere fosse un socio dell’Andrea Doria e pure piuttosto sveglio.
L’uomo riconobbe subito i due “big” e vide la firma del patron rivale sull’effetto bancario. Insospettito, prese tempo, convocando i due per il giorno successivo, con la scusa di dover effettuare alcune verifiche sull’autenticità dei titoli. In realtà, andò subito da un fotografo e fece immortalare l’assegno, la prova inconfutabile di un tentativo di accaparramento illecito da parte del Genoa.
All’indomani, quando Sardi e Santamaria si ripresentarono in banca per ritirare il denaro, il cassiere li liquidò con una scrollata di spalle e inoltrò senz’altro una denuncia alla Federcalcio, allora con sede a Torino. Il caso di leso dilettantismo era lampante, confortato dalla fotografia del frutto della colpa a tre zeri.
Ne sortì un processo, celebrato a Vercelli, in cui si scontrarono le ragioni della “purezza” del calcio, insidiata da loschi mercanti, e quelle di due giovani calciatori che, come sostenne l’arringa difensiva, erano passati al Genoa tanto per cambiare aria e poi sì, avevano chiesto al loro nuovo presidente un aiuto economico, ma solo per aprire un negozio di timbri. E Davidson, che non aveva una pietra al posto del cuore, aveva semplicemente accolto la loro richiesta di un prestito.
La faccenda si rivelò un vero e proprio caso nazionale. Da una parte c’erano i moralisti, che tuonavano contro la corruzione e la mercificazione del calcio dilettantistico. Dall’altra, c’erano coloro che sostenevano il diritto dei calciatori di essere retribuiti per il loro lavoro, anche a costo di infrangere certe regole ormai obsolete. In un’Italia appena uscita dall’era giolittiana, il processo assunse tinte quasi politiche, con le fazioni liberali e progressiste che sposavano la causa dei due “traditori” e i conservatori che accusavano il Genoa di aver aperto la strada alla rovina dei valori tradizionali.
Alla fine, la sentenza cercò una via di mezzo: una multa al Genoa, una squalifica di due anni a Sardi e Santamaria (peraltro poi “liberati” da una sollecita amnistia concessa nel tentativo di placare le polemiche) e il… licenziamento in tronco del cassiere tifoso, che aveva denunciato la scorrettezza altrui senza rendersi conto di quella che commetteva lui violando il segreto professionale. Lui sì, vero dilettante!
La vicenda segnò una tappa importante nella storia del calcio italiano. Da quel momento in poi, il professionismo divenne un argomento sempre più ricorrente nei dibattiti delle società e delle istituzioni calcistiche. Nonostante le resistenze dei tradizionalisti, era ormai chiaro che il pallone non poteva più essere considerato un semplice diletto per gentiluomini, ma si stava rapidamente trasformando in uno spettacolo di massa, con tutto ciò che ne conseguiva in termini di interessi economici e commerciali.
Sardi e Santamaria, da parte loro, non ebbero più grosse fortune sul campo dopo quella burrascosa stagione. Eppure, il loro nome è rimasto impresso nella memoria collettiva come quello dei primi “mercenari” del calcio, i pionieri di un’era nuova in cui il gioco del pallone non era più soltanto uno svago, ma un vero e proprio lavoro. Una svolta epocale, che avrebbe cambiato per sempre il volto di questo sport.