Nel novembre 1994, durante Fiorentina-Bari, Stefano Pioli rischiò la vita dopo uno scontro di gioco. Dopo lunghi minuti di paura, il miracoloso salvataggio.
Lo stadio Artemio Franchi di Firenze custodisce nelle sue mura storie che vanno oltre il calcio giocato. C’è un’area di rigore, in particolare, che sembra essere stata toccata da un destino particolare, quasi fosse un palcoscenico dove il dramma ha scelto di mettere in scena i suoi atti più intensi.
Era il novembre 1981 quando Giancarlo Antognoni, il capitano, l’idolo della Fiorentina, rischiò di perdere la vita proprio in quel fazzoletto d’erba. Uno scontro terrificante con il portiere del Genoa Silvano Martina lo lasciò immobile sull’erba, tra la vita e la morte, mentre lo stadio intero tratteneva il respiro. Fu uno di quei momenti in cui il calcio si ferma e ricorda a tutti quanto sia fragile il confine tra un normale contrasto di gioco e la tragedia.
Qualche mese dopo, come se quel punto del campo fosse segnato da una stella nera, fu Stefano Chiodi del Bologna a sfiorare la paralisi. Uno scontro con Francesco Graziani, involontario quanto violento, lo lasciò senza respiro sullo stesso identico lembo di terra che aveva quasi inghiottito Antognoni.
Il Franchi sembrava aver esaurito il suo tributo al destino, ma quel pomeriggio del novembre 1994 dimostrò che non era così. L’area maledetta reclamava ancora la sua parte di storia, e questa volta toccò a Stefano Pioli scoprire quanto sottile possa essere il filo che separa un normale pomeriggio di calcio da un momento che ti cambia la vita.
Il momento in cui il tempo si ferma

Ci sono attimi nel calcio in cui tutto sembra rallentare, come in un film al ralenti. Quel pomeriggio di novembre al Franchi, durante Fiorentina–Bari, fu proprio così. L’azione sembrava ordinaria: una mischia in area di rigore, uno di quegli ammassi di gambe e corpi che si vedono decine di volte in ogni partita.
Igor Protti, attaccante del Bari, si muove tra i difensori cercando uno spiraglio. Un movimento istintivo, la gamba che si alza nel tentativo di controllare il pallone e che invece incrocia Stefano Pioli, che crolla a terra come un albero tagliato alla base. Non c’è la classica reazione di chi cerca di attutire la caduta, non c’è il tentativo di proteggersi. Solo un corpo che si abbatte sul prato verde, immobile, con gli occhi spalancati verso il cielo di Firenze. Il gioco continua, la palla rimbalza ancora tra i piedi dei giocatori, ma Francesco Toldo ha già capito.
Il portiere viola è infatti il primo a percepire la gravità della situazione. I suoi occhi corrono dal pallone al compagno disteso, e in quell’istante il suo istinto prende il sopravvento. Alza le braccia al cielo, urla verso la panchina, mentre i compagni di squadra, realizzando la drammaticità del momento, si allontanano terrorizzati, con le mani nei capelli. È l’inizio di una corsa contro il tempo che nessuno avrebbe voluto correre.
La corsa contro il tempo

La scena che si svolge in quei momenti sul prato del Franchi è un mix di professionalità e paura, di gesti precisi e terrore puro. Il dottor Marcello Manzuoli, medico della Fiorentina con un passato nel ciclismo e nella pallavolo, si precipita in campo come se avesse le molle sotto i piedi. I secondi sembrano ore mentre copre la distanza che lo separa da Pioli.
Quando arriva, la situazione è più drammatica di quanto immaginasse. Pioli ha solo dei “tirage“, termine medico per definire un respiro contratto e poco frequente, una sorta di singhiozzo che si manifesta ogni sei o sette secondi. Gli occhi sono rovesciati all’indietro, visibile solo il bianco. La mandibola è serrata in una morsa che sembra impossibile da aprire.
Inizia una sequenza di azioni che sembrano una danza macabra: Manzuoli cerca di infilare un dito tra le arcate dentarie per liberare le vie respiratorie, mentre il medico del Bari, Sabino Lerario, tiene le gambe del giocatore sollevate per favorire il flusso sanguigno verso il cuore. Il massaggiatore Luciano Dati è lì, pronto a eseguire ogni ordine, cercando freneticamente nella sua borsa la cannula orofaringea.
“Soffiaci dentro, soffiaci dentro!”, grida Manzuoli al suo collaboratore, riferendosi alla bocca di Pioli. Ogni secondo è prezioso, ogni gesto deve essere perfetto. È una battaglia contro il tempo, combattuta con la precisione di un chirurgo e l’urgenza di chi sa che non c’è margine di errore.
Il risveglio e il vuoto

“Aiuto“. Una sola parola che rompe il silenzio terrificante di quei momenti. Ma per Stefano Pioli, quella parola è come il primo respiro dopo un’apnea infinita. Un ritorno alla vita di cui, paradossalmente, non conserverà alcun ricordo. Nel suo cervello, trenta minuti di vita sono stati completamente cancellati, come se qualcuno avesse premuto il tasto “delete” sulla memoria di quel pomeriggio.
L’ultimo fotogramma nitido nella sua mente è il palo colpito da Protti. Dopo, il buio totale. Neanche il dolore della pedata alla testa è rimasto impresso nella sua memoria. Quando gli mostreranno il video dell’accaduto, Pioli faticherà a riconoscersi in quel corpo disteso sull’erba del Franchi. Guarderà quelle immagini come se fossero di un’altra persona, di una storia che non gli appartiene.
“Ho rivisto le scene in tv ma non credevo che quello in terra, senza vita, fossi proprio io“, racconterà poi. Persino quando gli mostrano il momento in cui, già sulla barella, si porta le mani dietro la testa, non riesce a ritrovare quella sensazione nella sua memoria. È come se il suo cervello avesse deciso di proteggerlo, cancellando completamente quei momenti di puro terrore.
I suoi familiari proveranno ad aiutarlo a ricostruire quei minuti mancanti, ma sarà tutto inutile. Quel vuoto rimarrà tale, una pagina bianca nel libro della sua vita, un mistero che non verrà mai svelato.
La solidarietà del calcio

Il calcio sa essere spietato, ma nei momenti di vera emergenza sa anche trasformarsi in una grande famiglia. Quel pomeriggio al Franchi ne fu la dimostrazione più evidente. Mentre Pioli giaceva immobile sul terreno di gioco, tutto lo stadio si unì in un unico, silenzioso abbraccio.
In tribuna, i tifosi più anziani rivivevano l’incubo di Antognoni. Gli stessi gesti, le stesse espressioni di terrore sui volti dei giocatori che si allontanavano. La folla iniziò a urlare verso i barellieri, incitandoli a entrare in campo, mentre l’azione incredibilmente continuava. Francesco Flachi e Andrea Sottil, avvicinatisi a Pioli, scapparono via tenendosi il viso tra le mani, proprio come era successo anni prima con il loro capitano.
Claudio Ranieri, l’allenatore viola, mostrò tutta la sua umanità in quei momenti concitati. “Lasciatelo respirare, andatevene!“, gridava ai fotografi e ai curiosi che si accalcavano intorno al giocatore. Un gesto di protezione istintivo, paterno quasi, che andava oltre il ruolo di tecnico.
Il momento della liberazione arrivò quando il dottor Galanti, passando con la barella sotto la tribuna, alzò il pollice verso il pubblico. Quel semplice gesto, lo stesso che anni prima un fotografo aveva fatto vedere per Antognoni, fu il segnale che tutti aspettavano. Pioli era salvo, e tutto lo stadio poté finalmente tornare a respirare.
Il ritorno alla vita

All’ospedale CTO di Firenze, i quaranta minuti più lunghi diventano un turbine di esami, controlli ed ecografie. Pioli è vivo, cosciente, ma la sua mente vaga in uno stato di confusione che lo porta a fare domande apparentemente sconnesse: “Dove siamo? Con chi stiamo giocando? Il Bari? Siamo ancora in Serie B?“
Il dottor Galanti osserva il suo paziente con attenzione professionale. Il polso è debole, c’è una bradicardia, ma non c’è stato arresto cardiaco. L’ematoma sulla nuca, causato dalla caduta e non dal calcio di Protti, cresce a vista d’occhio durante il tragitto in ambulanza, ma il ghiaccio fa il suo dovere e in meno di un’ora è già un brutto ricordo.
Gli esami sono tutti negativi: TAC, ecografia addominale, analisi del sangue. Quello che poteva trasformarsi in tragedia si è risolto in un grande spavento. La diagnosi finale parla di un arresto respiratorio, non causato direttamente dalla pedata di Protti, ma dall’impatto della nuca sul terreno durante la caduta.
Quando i medici gli comunicano che non sarà necessaria alcuna operazione, Pioli si rilassa visibilmente. Tutto quello che è successo inizia a sembrargli esagerato, come un film visto da spettatore.
La lezione del destino
“È stata un’esperienza bellissima per tanti aspetti“, le parole di Pioli sembrano quasi un paradosso, eppure racchiudono una verità profonda. In quei momenti di vulnerabilità, ha scoperto quanto affetto lo circondasse, quante persone si preoccupassero per lui, molto più di quanto avesse mai immaginato.
La telefonata di Igor Protti è forse il momento più toccante di questa riscoperta. L’attaccante del Bari è distrutto, si sente responsabile, ma è Pioli stesso a consolarlo. “Il nostro gioco è legato a un filo che si chiama destino“, gli dice, trasformando un momento di angoscia in una lezione di vita e sport.In quel letto d’ospedale, Pioli ha avuto il tempo di riflettere sul sottile confine tra la vita e la morte. “Era la prima volta in vita mia che rischiavo di morire“, confesserà. “Era vicino a me, l’ho sentita. Ma è stato solo un attimo, poi la vita mi ha subito riabbracciato.”