Un giorno di ordinaria follia

Giugno 1983: quattro anni dopo il caso Paparelli, la morte ritornò in uno stadio italiano. A provocarla non fu la rivalità del tifo, ma un fulmineo dramma di miseria e squallido teppismo.

Cosa può spingere un uomo come tanti, in un pomeriggio d’estate, ad imbracciare il fucile e far fuoco all’impazzata contro un muro di folla, facendo crepitare nel sole accecante odio, rancore, follia e spargendo sangue e terrore sui gradoni roventi di uno stadio di calcio? Angelo Grasso, 54 anni, custode da 14 del vecchio stadio «Cibali» di Catania, decide di porre fine domenica 12 giugno 1983, alle 16,30 esatte, alla sua anonima vicenda di uomo qualunque, per entrare con inconsulta furia omicida nelle pagine della cronaca nera: un uomo di 28 anni, Lorenzo Marino — due figli, ex guardia giurata — cadono sotto i suoi colpi col cervello spappolato, morendo all’istante, un altro — Salvatore Ragusa, 25 anni — ricoverato gravissimo all’ospedale, straziato al volto e alle gambe. Attorno, sgranato nei pochi secondi di follia che insanguinarono quello che avrebbe dovuto essere un pomeriggio di festa, un rosario di feriti (una trentina), alcuni colpiti dai micidiali pallini dello sparatore, altri calpestati nel fuggi-fuggi generale che seguì sui gradoni stipati di gente.

LA TRAGEDIA

Lo scenario e le circostanze resero ancora più assurdo il convulso susseguirsi degli avvenimenti: alle 16,30 dell’ultima giornata di campionato, sul terreno del «Cibali», i ventidue uomini di Catania e Perugia erano pronti, assieme alla terna arbitrale, a dare inizio alla partita; sugli spalti, trentacinquemila persone si accalcano festanti nella calura di un’estate africana, torrida soprattutto sulla curva Sud, da sempre quella più rovente di tifo. E proprio mentre si attende il fischio d’inizio, fuori, a pochi metri dall’impianto, vicino alla sua squallida abitazione situata proprio sotto le gradinate, all’interno della cancellata che delimita lo stadio, un uomo solo sta per consumare la sua tragedia.

Da anni Angelo Grasso, fisico da atleta, ex mezzofondista, divide le tre stanze e cucina della casetta assegnatagli dal Comune con la moglie e gli undici figli di una esistenza trascorsa a centellinare la miseria e la “quiet desperation” di una quotidianità al limite del subumano: e da tempo ormai, a questa condizione di estremo disagio, si aggiungono le continue umiliazioni delle domeniche di campionato, quando teppisti incivili tempestano la sua abitazione di lattine, rifiuti, pietre ed ogni sorta di oltraggio.

Angelo Grasso, a quanto pare, aveva ripetutamente fatto presente la situazione, di mese in mese sempre più insostenibile, ma non ne aveva ricavato che qualche poco confortante allargare di braccia. Come se non bastasse, le condizioni igieniche del vecchio stadio etneo erano ferme da anni a livelli di cronica insufficienza: ampliati alcuni settori per far posto ad un maggior numero di spettatori, non si era pensato di dotare l’impianto dei conseguenti servizi igienici: così domenica, quando più di qualcuno, dalla balaustra esterna della curva, si mette tranquillamente ad orinare giù in basso, verso la casetta del custode, la misura è di colpo colma oltre ogni possibilità di sopportazione. Angelo Grasso prima chiede e poi grida di smetterla, poi, vistosi brutalmente preso in giro di fronte ai familiari, non ci vede più e qualcosa salta nella sua mente, corre in casa, imbraccia un fucile e ritorna fuori a consumare la sua assurda vendetta.

La cronaca del Corriere della Sera

I COLPI

Uno, due, cinque colpi a raffica, verso l’alto, all’impazzata, seminando la morte ed il terrore. La scena è apocalittica: la curva brulicante di folla si svuota in pochi secondi, con la gente che fugge impazzita, mentre le prime vittime già precipitano giù per le scale. In campo i giocatori e il direttore di gara si fermano per qualche minuto, intuendo che qualcosa di strano sta probabilmente accadendo, anche se il rumore di mortaretti e la nebbia dei fumogeni (un’intera fiaccolata, per salutare l’ultimo e decisivo impegno casalingo degli uomini di Di Marzio) impediscono di cogliere da lontano l’effettiva portata del dramma.

Angelo Grasso fa in tempo ad inserire un altro caricatore e ad esplodere altri quattro colpi prima che due carabinieri, Antonio Aiello e Francesco Greco, riescano ad immobilizzarlo. Tra le urla dei feriti, le sirene delle ambulanze, gli inviti alla calma degli altoparlanti e un senso di tragedia consumata, la partita ha comunque regolarmente inizio.

Angelo Grasso viene sottratto ad un paio di tentativi di linciaggio, i feriti sono trasportati negli ospedali e lentamente lo spasimo di quei pochi istanti di terrore si stempera nella vicenda agonistica, mentre fuori dello stadio una piccola folla preme ai cancelli, alla ricerca disperata di notizie certe in mezzo a tanto trambusto.

Dalla stampa dell’epoca, fanno impressione le dichiarazioni rilasciate dall’omicida dopo l’arresto e il trasferimento nella caserma dei carabinieri di piazza Verga, per il primo interrogatorio:

«Non so che cosa ho fatto, non ricordo, ho la testa che mi scoppia! So soltanto che non ne potevo più. Era da molto tempo che subivo sconcezze e beffe, e io sempre a sopportare pazientemente, a ripetere: ragazzi, ma perché fate queste cose? Perché non avete un po’ di rispetto?»

La tragedia portò nell’ottobre 1985 ad una sentenza di 13 anni per il custode omicida. La corte, presidente il dottor Inserra, riconobbe a Grasso le attenuanti generiche e quelle della provocazione, riducendo la richiesta del Pm che era stata di ventidue anni.