Uribe, il “Diamante Nero” preso a colpi di banane

Una parte della cosiddetta “teoria del caos”, quella che dice che un battito d’ali di farfalla in una zona della Terra può causare un tornado esattamente dall’altra parte del pianeta, c’è anche nel calcio. Solo che in questa storia, al posto della farfalla ci sono due adolescenti che si ritrovano in un bar di Verona nei primi anni Settanta. E al posto del tornado, un lancio di banane avvenuto undici anni dopo a un giocatore di calcio “colpevole” di essere nero.

Facciamo un salto in avanti rispetto a quell’incontro. Negli anni Ottanta, quando il campionato di calcio italiano era considerato il più bello del mondo, i giocatori stranieri venivano ostentati con orgoglio. I presidenti andavano a caccia di quelli più promettenti, magari anche troppo costosi per le loro casse ma capaci di creare il miraggio preferito dai tifosi: quello di far rivivere loro un ciclo vincente ma ormai lontano nel tempo. Come successo a Cagliari, dove nel 1982 il presidente del club Alvaro Amarugi chiede a Gigi Riva, eroe del clamoroso scudetto rossoblu del 1970, di andare in Perù e convincere Julio Cesar Uribe a venire in Sardegna.

Uribe non è uno qualunque. Nel suo Paese è considerato il centrocampista più forte in circolazione, tanto che nel 1982, anno dei Mondiali, arriva terzo nella classifica del Pallone d’oro sudamericano dietro Maradona e Zico. Lo chiamano “Il Diamante Nero” ed è molto abile soprattutto sui calci piazzati. Gioca nel Cristal di Lima (che in Italia è come dire la Juventus) con il quale vince sia il campionato che la Copa Libertadores, evento raro per un club peruviano. Al Mundial spagnolo, il ct azzurro Enzo Bearzot lo teme tantissimo e nelle sue rare dichiarazioni alla stampa lo elogia a dismisura, mentre Nils Liedholm aveva cercato, invano, di portarlo alla Roma dopo averlo ammirato in un’amichevole del Perù contro la Francia al Parco dei Principi.

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Intelligente con i piedi, ma anche con la testa. Prima dei Mondiali impara l’inglese; dopo il colloquio con Riva, che lo convince a firmare per il Cagliari, si prende tre settimane di tempo per imparare anche l’italiano. L’11 novembre del 1982, al campo di allenamento di Villanovaforru, il ragazzo di colore che siede in panchina, perché infortunato, diventa l’attrazione principale dei tifosi cagliaritani arrivati a salutarlo. L’affetto rispecchia l’orgoglio di un popolo che a distanza di dodici anni può tornare a vantarsi per il calcio: che gli altri si tengano i loro Michel Platini, Falcao, Walter Schachner. E si tengano pure Geronimo Barbadillo, l’altro peruviano sbarcato in Italia, all’Avellino.

Ora è il momento di riavvolgere il nastro della nostra storia. Nel 1971, al Bar Olimpia di Borgo Venezia, a Verona, due ragazzi di sedici anni tifosi dell’Hellas fondano le “Brigate Gialloblù”. Si tratta del terzo gruppo di tifosi organizzati in ordine di tempo, preceduti solamente dagli “Ultras Tito Cucchiaroni” della Sampdoria e dalle milanesi “Fossa dei leoni” del Milan e “Boys” dell’Inter. Il gruppo veronese si siede fin da subito nella curva sud dello stadio Bentegodi e si distingue per cori, tamburi e bandieroni gialloblu cuciti a mano. Per loro, il tifo è soprattutto una festa. È un successo: le Brigate attirano il pubblico e si ispirano al tifo inglese, trovando a metà anni Settanta il gemellaggio con i fan del Chelsea. Un gemellaggio nel segno dello stile: oltre ai cori tradotti in italiano, dall’Inghilterra arriva anche l’abbigliamento british, tanto che la curva dell’Hellas viene ribattezzata presto “La Liverpool d’Italia”.

Un gemellaggio che però con il tempo crea problemi. Già, perché tra i tifosi del Chelsea si annidano gli Headhunters (letteralmente: cacciatori di teste), hoolingans che non guardano in faccia a nessuno e dai quali quelli delle Brigate imparano a portare sugli spalti le tensioni sociali che fino a quel momento ne erano rimaste fuori, negli scontri di piazza che caratterizzano gli anni Settanta. Succede così che le Brigate acquistano sempre più rispetto. Gli altri gruppi che vanno via via organizzandosi temono il loro atteggiamento. Nella curva veronese comincia a prevalere il gruppo legato all’estrema destra, nonostante i fondatori fossero invece legati alla sinistra. Compaiono in curva catene e molotov.

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La nostra storia arriva così al 21 novembre 1982. Decima giornata di serie A. Come ogni due domeniche, il Cagliari va a giocare in trasferta in “Continente”: quella volta a Verona. L’Hellas allenato da Osvaldo Bagnoli, è neopromosso dalla serie B: un evento che ha riportato al Bentegodi molti abbonati, dopo il calo degli anni precedenti. Il Cagliari sfoggia Uribe, che fino a quel momento non ha brillato ma di cui Gigi Riva continua a parlare benissimo. Resta comunque uno dei migliori con i piedi, tanto che la squadra si affida spesso a lui per i calci d’angolo. Mentre si avvicina alla bandierina per batterne uno sotto la curva del Verona il giocatore peruviano, arrivato in Italia a caccia di gloria, diventa il primo giocatore di colore ad essere contestato per il colore della sua pelle. Dalla curva gli vengono lanciate addosso delle banane.

Da questo momento in avanti, le strade di Uribe e delle Brigate si dividono. Il peruviano gioca 20 partite e segna solo 2 gol: a fine anno il Cagliari che voleva tornare grande finisce in serie B. La stampa lo ricopre di critiche feroci: troppo lento e compassato per il campionato italiano. Lui si lamenta: “in campo mi picchiano troppo”. La sua carriera non decolla: troppe poche volte decisivo, troppe incomprensioni con gli allenatori. L’unica vera sua perla resta un gran gol contro il Bari.

Nella curva del Verona si affermano sempre più i tifosi violenti e quello che oggi viene chiamata discriminazione territoriale: è in quegli anni che diventa sempre più aspra la rivalità con Napoli, il tutto condito da striscioni come “Forza Vesuvio”. Nello stesso periodo, Uribe rompe definitivamente con il Cagliari. Dopo l’ennesima incomprensione con l’allenatore di turno, scappa dal ritiro e chiede la rescissione del contratto. La stampa italiana non vedeva l’ora di un suo passo falso per tornare a definirlo, sostanzialmente, un bidone. E nei vari addii dei giornali, raramente viene ricordato l’episodio di Verona. Uribe lascia così il nostro calcio con un’ultima frase: «Sì al calcio, no alla violenza». Scoprire se sia stato ascoltato o meno è sotto gli occhi tutti.

  • Testo di Alessandro Oliva
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