VAN BASTEN – VERDEAL – VINICIO – VYCPALEK – VÖLLER
È il 3 aprile del 1982, l’incontro tra Ajax e NEC Nijmegen è alle battute finali. Il trentacinquenne Johan Cruijff, l’immenso, si avvicina alla panchina dell’allenatore De Mos: «Esco, fai entrare Van Basten». Quasi un segno del destino, l’esordio in massima divisione per il diciassettenne talento delle giovanili, che, per nulla emozionato, mette a segno la prima di una lunghissima serie di gol. Ben presto, il pubblico prende confidenza con quel regale airone dell’attacco, dotato di tocco vellutato, di palleggio morbido e di un mortifero senso della rete. Pur giocando da punta pura, si rivela degno successore del leggendario numero dieci, approdando in Nazionale a soli diciannove anni per realizzarvi caterve di reti. Morbosamente attaccato al calcio, Marco Van Basten sente ben presto troppo stretto il livello di competitività del campionato olandese. La grande occasione gli viene offerta nel 1987 da Silvio Berlusconi, deciso a lasciarsi alle spalle il negativo rodaggio dell’anno prima e a garantire il salto di qualità al suo Milan. Assieme al centravanti, ingaggia anche Ruud Gullit, colonna del PSV, offrendoli su un piatto d’argento a un giovane allenatore senza pedigree: Arrigo Sacchi. Purtroppo, la sfortuna ci mette lo zampino, cominciando subito a martoriargli la caviglia destra. Sottoposto a intervento chirurgico dopo lo stentato avvio, soltanto nelle ultime giornate può rientrare in squadra, offrendo comunque il suo decisivo contributo di gol al trionfale scudetto. Dopo poche settimane, guida la Nazionale olandese a primeggiare in Europa: suo anche il titolo di capocannoniere, con cinque reti. Tornato in piena forma, l’airone prende il volo anche col Milan. Dotato di un fisico formidabile e di tecnica sublime sa essere attaccante di sfondamento e di rapina, raffinato trequartista e micidiale incursore negli spazi stretti. Devastanti, poi, i suoi stacchi aerei.
Tre scudetti, due Copppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali, oltre a tre Palloni d’Oro (proprio come Cruijff) arricchiscono il suo albo d’oro. Finché, nel dicembre 1993. giunto al culmine del rendimento, dopo alcuni mesi strepitosi (12 gol in 13 partite), il riacutizzarsi degli ormai cronici problemi alle caviglie lo costringono a volare in patria, dal fidato professor Martens. Il nuovo intervento chirurgico segna l’inizio di un calvario: trascorre più di due anni sempre alle dipendenze del Milan, costretto ad osservare i compagni da bordo campo, fra voci di un possibile rientro e di un definitivo ritiro. Solo nel 1995, dopo una impari lotta con le stampelle, Marco Van Basten si arrende, dando addio al calcio tra i rimpianti di tutti gli appassionati.
Argentino di nascita, maturò calcisticamente in Brasile, nelle file della Fluminense. Questo non giovò alla sua “visibilità” internazionale, dato che negli anni del secondo conflitto mondiale le notizie dal Brasile giungevano in Europa col contagocce e riguardavano al massimo la Nazionale, non i singoli club. Puntando a un ingaggio nel vecchio continente, Verdeal si trasferi in Venezuela, nel Dos Caminos, squadra allenata dall’ex genoano Godigna. Fu questo trait d’union a gettargli un ponte dall’Oceano alla Lanterna. Convocato quasi a scatola chiusa dal Genoa, una volta sbarcato in Italia Verdeal fu sottoposto a un provino e prontamente tesserato. Annunciato come un fuoriclasse, non tradi le attese: dotato di uno stile perfetto, era in grado di aprire orizzonti al gioco anche quando l’azione offensiva pareva irrimediabilmente chiusa; puntuale rifornitore degli avanti rossoblu, sapeva concludere a rete in proprio con micidiale efficacia. Irrefrenabile nell’uno contro uno, delizioso nell’assist, in un incontro con la Fiorentina segnò ben quattro reti. Peccato che la squadra fosse modesta: nonostante il vigoroso apporto del fuoriclasse argentino, il Genoa non riuscì a risollevarsi dalla ormai cronica crisi di risultati che lo affliggeva da ormai quindici anni. Gli scudetti erano ormai un ricordo, il centro – classifica era il suo habitat. L’arte sublime di Juan Carlos Verdeal impedì che si corressero rischi di retrocessione e soprattutto contribuì a rinfrescare il blasone del club, che poteva vantare un campione di quella statura. Rientrato in patria, fu valido allenatore di squadre di Buenos Aires, prima di trasferirsi nuovamente a Rio de Janeiro.
“O’ lione”, come lo soprannominarono i tifosi partenopei per il coraggio e la grinta, era un brasiliano atipico. Dotato di classe sopraffina, amava la praticità, puntando dritto al gol. Prima di essere ingaggiato dal Napoli giocava da centravanti nel Botafogo, la cui stella era Da Costa, attaccante dal gioco tipicamente sudamericano. E proprio Da Costa, nelle intenzioni di Lauro, presidente del Napoli, avrebbe dovuto vestire la maglia azzurra. Il suo emissario Amadei, tuttavia, venne bruciato sul tempo dalla Roma, e, non avendo il coraggio di presentarsi dal Comandante a mani vuote, portò con sè Vinicio, che in amichevole aveva segnato due reti proprio ai giallorossi. L’acquisto si rivelò un colpo di fortuna. “O’ lione” entrò subito nei cuori dei tifosi, mai del tutto conquistati dal freddo e strapagato Jeppsson, bagnando l’esordio con una doppietta. Le prime tre stagioni sotto il Vesuvio furono esaltanti: dal micidiale cocktail di tecnica, potenza di tiro e stacco di testa perentorio nacquero valanghe di reti.
Poi, qualcosa si incrinò, il dissidio col connazionale Del Vecchio si allargò al resto dello spogliatoio, al punto da indurre Vinicio a meditare il ritorno in patria. Si fece però avanti il Bologna e l’attaccante sbarcò sotto le Due Torri, per un paio di stagioni senza infamia né lode, complicate dalla presenza dell’astro nascente Nielsen. Nel 1962, ormai trentenne ed apparentemente avviato al declino, fu ceduto al Vicenza, classico capolinea di vecchie glorie. L’aria di provincia giovò al mai sopito leone, che tornò a ruggire come ai tempi d’oro di Napoli. Al quarto anno in Veneto, a 34 anni suonati, fu capocannoniere del torneo, con 25 reti. Una stagione all’Inter, da panchinaro di lusso, poi il rientro a Vicenza, per una chiusura di carriera col botto, prima di diventare allenatore di discreto successo.
Sono gli anni del Grande Torino, quelli immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale. Nel vano tentativo di contrastare lo stradominio dei cugini granata, la gloriosa Juventus si butta sull’affidabile (e conveniente) mercato cecoslovacco. Alla vigilia della stagione 1946-47, a vestire la maglia bianconera sono chiamati due ragazzoni provenienti dall’antica scuola danubiana: Cestmir Vycpalek e Julius Korostelev. Sotto la Mole, però, i due non convincono, per cui l’anno successivo vengono spediti in provincia. Ad avere maggior fortuna fu Vycpalek, passato al Palermo, che trascinò a una rapida promozione.
Dotato di un tocco grezzo, il boemo era però sostenuto da una notevole prestanza atletica, che faceva di lui un inesauribile rifornitore del reparto avanzato. Dopo quattro fertili tornei nella massima divisione, passò ormai trentunenne al Parma, in C. Assieme al ritrovato Korostelev, che ne aveva caldeggiato l’acquisto, formò il nerbo di un Parma capace di raggiungere in due stagioni la cadetteria. Solo nel 1958, a 37 anni suonati, il popolare “Cesto” lasciò il calcio giocato. Divenne allenatore di successo, conquistando due scudetti con la Juventus e lanciando in orbita il nipote, Zdenek Zeman.
La sua prima squadra fu quella dei pulcini del TSV Hanau 1860, allenati dal padre, Kurt Völler, ma il fatto di essere il figlio dell’allenatore non aiutò il piccolo Rudi, che fu sempre solo uno degli undici, anche se il migliore. Implacabile realizzatore, si distingueva per la freddezza sotto porta. A diciassette anni, il primo contratto da professionista, per il Kickers Offenbach, squadra di seconda divisione, con cui non tardò a conquistare le simpatie del pubblico a suon di reti. Nel 1980 il gran salto al Monaco 1860, la squadra “povera” del capoluogo bavarese, che retrocesse nonostante i suoi gol.
Seppur pressato da richieste di altri club, Rudi decise di risalire la china coi compagni. La promozione fu immediata, Völler fu capocannoniere con ben 37 gol. Il Monaco cedette alle lusinghe del Werder Brema, dove il centravanti confermò le sue doti, che gli valsero un posto fisso in Nazionale. Mancava solo l’Italia, a quell’attaccante agile nel dribbling, abile nella manovra e spietato sotto rete, di testa e di piede. Solo nel 1987 accettò il trasferimento alla Roma. La sua prima stagione fu travagliata. Facile agli infortuni, fu costretto a giocare un campionato a spezzoni, avvelenato dalle polemiche sulle sue “fughe” per farsi curare dal fisioterapista di fiducia in Germania. Ma non era un bidone. Il vero Völler, centravanti completo, esplose nelle quattro stagioni successive, conquistando l’affetto dei tifosi. Poi, la conquista della Coppa del Mondo a Roma, nel 1990, contro l’Argentina di Maradona. Ceduto al Marsiglia, fa in tempo a vincere la Coppa dei Campioni del 1993 prima di chiudere nel 1996 con il Bayer Leverkusen.