VIALLI Gianluca: da Cremona al Paradiso del calcio

PROLOGO

C’erano una Volta Sette Nani. C’era una squadra tutta talento e allegria, divertimento e gloria. Un gruppo di amici, professionisti finché si vuole ma soprattutto amici. Non è che oggi non esista più, quella squadra, ma sopravvive al suo mito avvolta nella tristezza. C’è ancora, la Sampdoria, ma la sua stella ha smesso di brillare. È un angelo caduto, avvolto e risucchiato dallo spregiudicato potere dei clubs milionari.
Ma questa è un’altra storia. Prima ci sono i giorni felici, quelli dei Sette Nani e dei ragazzi irresistibili, Gianluca e Roberto, Vialli e il Mancio, così diversi e dunque così inseparabili. Cresciuti dentro la storia del calcio. E non è tutto. C’è un prima del prima, c’è un talento che nasce nella piccola città in cui tutti conoscono tutti, un ragazzino scatenato nel cortile di casa, lassù a Cremona, e insomma una partenza che assomiglia a tante altre, anche se la storia non sarà come le altre. Cortile, famiglia lunga di fratelli affiatati e protettivi, amici e pallone.

E’ NATA UNA STELLA

Il cortile è quello di casa, bello grande, quanto basta a coltivarci una passione. L’ha voluto così papà Gianfranco, imprenditore, e diventa un ritrovo per i ragazzini innamorati del pallone. Tutti a casa di Gianluca, perché lì si gioca sempre e perché Gianluca e già un leader, nel branco. E ha stoffa, soprattutto. Ci vuole poco a capirlo, basta dare un’occhiata a come scivola via in mezzo al campo e agli avversari, inarrestabile per chi ha la stessa età e qualche quarto di nobiltà pallonara in meno. Insomma, se qualcuno ha l’occhio lungo si faccia avanti. Quel qualcuno arriva presto, si chiama Franco Cristiani, professore d’italiano con la vocazione del trainer e lo sguardo attento dello scopritore di talenti. Allena i giovanissimi del Pizzighettone, e invita Gianluca, che fino a quel momento – dodici anni – si era diviso tra l’oratorio di città e quello di campagna (Cremona e Grumello, dove la famiglia ha un piccolo castello che usa come residenza estiva) a tesserarsi.

Quello è l’esordio, cinque partite in tutto perché poi qualche funzionario particolarmente scrupoloso si accorge che c’è un problema di anagrafe: il ragazzo è nato il 9 luglio, per un pugno di giorni rispetto al primo semestre della sua annata è un fuori quota. Fine dell’avventura, inizio di quella più grande. Perché a quel punto a farsi avanti è la Cremonese, e questa volta il cartellino da firmare è quello giusto. Nelle casse del Pizzighettone finisce mezzo milione. Insieme a Gianluca si veste di grigiorosso anche la mezzala Malvassori. «Era più bravo di me», assicura il campione. Sarà, ma è stato bravo anche a far perdere le sue tracce.

GLI ANNI DI FORMAZIONE

Con la maglia grigiorossa Gianluca fa il suo esordio in prima squadra a sedici anni, dopo tre campionati giovanili. Calpesta un paio di volte i campi di C1, non è molto ma capita nell’anno giusto, quello della promozione in B. L’anno successivo, tra i cadetti, il ragazzino trova spazio tra un vecchio marpione, Sauro Frutti, e una speranza mai definitivamente sbocciata, Mario Nicolini. Lo lancia Vincenzi, e dopo il suo esonero lo conferma Mondonico, che stravede per lui. Trentuno partite e cinque reti, trentacinque e otto l’anno dopo. Uno che può fare la differenza pensano gli addetti ai lavori. E un talento e un portafortuna, visto che al primo anno di cadetteria la Cremonese agguanta la salvezza e nella stagione successiva manca la promozione per un soffio, agli spareggi contro Catania e Como.

Gianluca e la Cremonese ci riprovano subito, e al secondo assalto il grande sogno è conquistato. Lui ci mette dieci reti in trentasette partite, ed è l’ultimo regalo che fa alla squadra della sua città. Già da un anno l’aveva bloccato la Sampdoria di Paolo Mantovani, lasciandolo a farsi le ossa al piano di sotto ancora per un po’. L’affare aveva portato nelle casse del presidente Luzzara tre miliardi. Prima di dire sì, il numero uno della Cremonese aveva sentito l’obbligo di parlarne con qualcuno. La solita corsia preferenziale che legava Cremonese e Juventus, che aveva portato dal grigio-rosso al bianconero, negli anni, Prandelli, Marocchino, Bonini, Cabrini, tanto per fare qualche nome. Insomma, Luzzara ne parlò prima con Boniperti.

Che fatti un paio di conti non ritenne ancora pronto il ragazzo per la Signora. Anche per una questione economica: alla porta della Cremonese avevano già bussato Fiorentina, Inter e Como, e il prezzo di Vialli era salito. Una spesa tra i tre e i quattro miliardi, in quel momento, a Boniperti sembrò eccessiva. E la Sampdoria ebbe l’abilità e la fortuna di inserirsi al momento giusto. Fine del flash-back, riprendiamo il filo del racconto. Gianluca Vialli ha vent’anni e per la prima volta lascia la sua Cremona. Va a vivere tra Nervi e Bogliasco, un paradiso infilato tra cielo e mare. Va a ritagliarsi il suo spazio nel calcio che conta, il calcio dei grandi. Lui che è ancora un ragazzino.

ALLA CORTE DI PAOLO VII

Sia come sia, Gianluca Vialli inizia la sua carriera da blucerchiato. Conquistata la Serie A con la Cremonese, ci entra da grande promessa con la Sampdoria. È la stagione ’84-85. Debutto, per la cronaca, il 16 settembre dell’84. Contro la Cremonese, quando si dice il destino. È l’inizio di una grande avventura, otto stagioni vissute intensamente. Vialli è un magistrale colpo di mercato messo a segno dal presidente Paolo Mantovani, coadiuvato da un diesse di fosforo e intuizione come Paolo Borea. E proprio il presidente, presto ribattezzato dai tifosi Paolo VII, pontefice massimo delle aspirazioni blucerchiate, sarà il Gran Catalizzatore di sogni e speranze di mezza Genova. Un uomo guida, un simbolo. E anche una specie di padre saggio per i giovani talenti su cui ha puntato per aprire un ciclo. Ragazzi che saranno famosi, e nemmeno nei momenti di gloria rinnegheranno il legame che li unisce a Mantovani, che mai taglieranno quel singolare cordone ombelicale. Vialli stesso resisterà al canto di parecchie sirene. Per otto lunghe stagioni, appunto. Intanto, il ciclo a suo modo si apre.

A fine stagione, va in bacheca il primo trofeo della storia della Samp, la Coppa Italia conquistata ai danni del Milan. In più, il gruppo guidato da Bersellini agguanta il quarto posto in campionato. Sotto il segno di Mantovani cominciano a conoscersi, e a legare, Vialli e Mancini, Vierchowod e Mannini, Pellegrini e Pari. Il gruppo, appunto. La carriera di Vialli si sviluppa intrecciandosi a quella dei suoi tecnici. Bersellini è l’uomo che l’ha fatto debuttare in Serie A, ma nella seconda stagione di Gianluca a Genova (’85-86), il suo ciclo si spegne. La squadra è undicesima, quattro punti sopra la zona-retrocessione. Insomma, delude. Il timoniere saluta e se ne va, al suo posto arriva un altro di quelli che lasceranno il segno in questi anni di storia doriana nei cieli alti del grande calcio: Vujadin Boskov, saggio e ironico maestro di vita e pallone. Come Mantovani, capace di fare da guida e da collante. Di unire il gruppo.

IL CANTO DELLE SIRENE

Due anni di Serie A e Vialli è già un nome in grado di scuotere il mercato. Da parte sua Silvio Berlusconi, presidente del Milan, nel 1986 prova a scuotere il collega Mantovani con un’offerta pesante: quindici miliardi. Mantovani vacilla, non sa come fare a dire no e allora ci pensa il giocatore in persona. Che motiva così il gran rifiuto. «Ci ho pensato una notte intera, quando Mantovani mi ha avvertito. La conclusione è che nelle grandi squadre, come Milan e Juve, sei soprattutto un numero in funzione dei risultati. E a me, in questo momento, interessa essere soprattutto una persona». E solo l’inizio. Ci proverà la Juventus, un anno dopo, e Vialli ribadirà il concetto, parlando di Genova come di una città «a misura d’uomo» e della Samp come di «una grande famiglia».

Un legame indissolubile. Al punto che qualcuno, già ai tempi dei Mondiali messicani, era andato in cerca di ragioni extracalcistiche per spiegare la determinazione del campione. Magari un grande amore, una passione impossibile. E via, tutti in cerca del segreto di Luca. Lui, semplicemente, aveva in testa lo stesso sogno del “gemello” Mancini, di Mantovani e Borea, di “zio Vuja” Boskov, di tutta la truppa. Una voglia dannata di scudetto. A dispetto di tutti quelli che parlavano di una Samp bella e impossibile, forte e capricciosa, divertente ma troppo divertita per poter salire sul trono.

Di quel sogno Vialli è un gioiello prezioso e insostituibile. Lui lo sa e l’idea gli piace. Nel tempo, resisterà ad altri abbordaggi. Al Napoli, nel 1987, dirà di no Mantovani in persona, rilanciando a 50 (miliardi) un’offerta da 12. Niente da fare neanche per il Real Madrid, un anno dopo. Nel marzo 1988, all’ennesimo attacco di Berlusconi, Vialli risponderà firmando fino al 1992 con la Samp. «Adesso tutti i discorsi passeranno sopra la mia testa, anche se non ne resterò fuori».  Appunto. Nel 1989 riecco la Juve: c’è Agnelli in persona a chiedere Gianluca, e insieme a lui Mancini e Vierchowod. Niente di fatto, non basta la delusione patita nella finale di Coppa delle Coppe a Berna, contro il Barcellona, per convincere Mantovani a privarsi dei suoi gioielli. Come se il presidente avvertisse la vicinanza del traguardo più atteso, e con lui i suoi ragazzi.

DA NANI A GIGANTI

Gianluca Vialli si fa stella, e Genova è il suo mondo. Il posto giusto per costruirci la favola dei Sette Nani, si diceva. C’è anche Biancaneve, naturalmente: è Edilio Buscaglia, titolare del ristorante «Edilio» dove ogni giovedì, nelle sere sampdoriane, dalle otto a mezzanotte Gianluca diventa Pisolo. Saletta privata, televisione, parole in libertà. Gli altri protagonisti della favola allegra sono Roberto Mancini, in arte Cucciolo, Moreno Mannini calato nella parte di Eolo, il diesse Borea che naturalmente recita da Dotto. Domenico Arnuzzo, responsabile del settore giovanile, è Mammolo, Brontolo è Antonio Soncini, tecnico delle giovanili, e Guido Montali, addetto all’arbitro della società, è Gongolo. Anche le magnifiche e progressive sorti di una squadra di calcio, in fondo, si possono fondare intorno a un tavolo, tra una battuta e una promessa. La promessa dei Sette Nani è una specie di patto di mutuo soccorso. Uniti e indivisibili, fino allo scudetto. Ci vuole niente, poi, a trasmettere la carica vitale al resto del gruppo.

Vialli e la Sampdoria crescono insieme, anno dopo anno. Boskov, stratega da campo, controlla i suoi ragazzi lasciando loro le briglie sciolte. Nel gruppo si inseriscono Pagliuca, Dossena, Lombardo, Katanec. Dalla Roma arriva Toninho Cerezo, un brasiliano atipico, abituato a fare il gregario in un mondo di stelle da calcio-spettacolo. Per i giallorossi era di troppo, nella Samp di Vialli e Mancini diventerà un punto di riferimento. Alla quarta stagione blucerchiata di Gianluca, la bacheca si arricchisce con la seconda Coppa Italia. La terza arriva un armo dopo, nell’88-89. Stessa stagione della delusione in Coppa delle Coppe.

Un anno dopo, la banda blucerchiata smaltisce e cancella l’amarezza. A Goteborg, il 9 maggio 1990, non finisce come a Berna. La finale con l’Anderlecht è una salita ripida, fino ai supplementari. A quel punto, sale in cattedra Gianluca Vialli, che in tre minuti decide la partita. Segna al minuto 105, si ripete al 108. La Coppa delle Coppe è della Samp e del suo trascinatore, miglior realizzatore del torneo con sette gol. Alla vigilia di Italia ’90, Gianluca è la stella della spedizione azzurra. Il più amato da Vicini e dai tifosi. C’è aria di consacrazione, invece andrà diversamente. Della mezza delusione mondiale resterà da salvare, nella memoria collettiva, soltanto lo sguardo spiritato di Totò Schillaci. L’idolo di Italia ’90, quello che ha tolto la maglia di titolare proprio a Gianluca.

OPERAZIONE SCUDETTO

Da Italia 90, la Sampdoria eredita un Vialli taciturno e appartato. Demotivato, secondo certi giudizi frettolosi. E un periodo delicato, reso ancora più difficile da certe voci maligne che iniziano a circolare intorno al suo nome, moltiplicandosi come serpenti velenosi. C’è di mezzo la sfera privata, si colpiscono gli affetti e così si spiega il silenzio dell’uomo, prima ancora di quello del giocatore.

La rivincita, Gianluca la prepara sul campo. È la stagione ’90-91, alla Samp è approdato l’ucraino Mikhailichenko portandosi dietro le mille domande di chi si attende un flop. Ma dalle nebbie del campionato, giornata dopo giornata, esce alla ribalta il signor Gianluca Vialli. Proprio lui, quello della debacle mondiale, quello a cui il fantasma di Schillaci dovrebbe aver tolto voglie e forza. Silenzio e lavoro, la ricetta giusta per tornare leader, trascinatore, capotribù. Quando nessuno (fuori dal gruppo) se l’aspettava, la Samp taglia il famoso traguardo. La corsa allo scudetto finisce in gloria. Vialli vola e incanta. Segna, anche, come non aveva fatto mai. Diciannove reti in ventisei partite, quanto basta a vincere anche la classifica marcatori. I Sette Nani hanno mantenuto la promessa, e il gruppo li ha seguiti. C’è tempo per la lucida follìa, per festeggiare coi parrucconi biondi “alla Europe”, per coinvolgere in una passerella iondo-platino anche Cerezo, Brasiliano atipico. Sono i giorni della gioia, dell’entusiasmo, nessuno può immaginare che, come tutte le favole, anche questa ha appena vissuto il suo lieto fine.

FINE DELLA BAL…DORIA

Il giocattolo meraviglioso si rompe appena un anno più tardi. In campionato la Samp è sesta, Vialli fa la sua parte segnando undici gol, arriva anche la Supercoppa italiana ad arricchire l’angolo dei trofei. Ma la delusione, secca e forte, è dietro l’angolo. L’Europa dei giganti è a portata di mano, la Samp debutta in Coppa Campioni e fa tutto bene. Butta fuori Rosenborg, Honved, Crvena Zvezda, Panathinaikos, Anderlecht. Arriva in finale, e allo stadio di Wembley, il 20 maggio del ’92, ritrova il Barcellona. Lotta dura fino ai supplementari, quando va in scena il deja-vu: segna Koeman al 110′, il Barca fa un altro scherzo dei suoi ai blucerchiati. Lungo il cammino, Vialli ha segnato sei gol europei. Non sono bastati.

Questa volta, nel cuore di un Mantovani deluso, fa breccia il nuovo assalto juventino. Il sogno bianconero è ancora Gianluca Vialli, l’offerta è di quelle a cui non si rinuncia a cuor leggero: dieci miliardi in contanti, più Serena, Corini, Bertarelli, Giampaolo e Zanini. Anche Gianluca, questa volta, cede: «Ho valutato la situazione col presidente. Meglio una Samp in A senza Vialli che una Samp in B tra qualche anno, col sottoscritto».
In realtà è l’inizio della caduta, ma nessuno in quel momento arriva a capirlo. I tifosi manifestano la loro rabbia, ma Mantovani è chiaro. All’operazione, questa volta, ha dato l’avvallo anche il giocatore: «Wembley non c’entra. La situazione era la stessa di qualche anno fa, quando decisi di cedere Gianluca al Milan. E cambiata soltanto la sua risposta».

GLI ANNI BIANCONERI

Brutta storia, se uno che è nato leader non riesce a prendere il potere. Come partire in quarta per trovarsi di fronte un muro bello solido, e andarci a sbattere. Più o meno, l’inizio dell’avventura di Gianluca alla Juve è questo. Paradossale, se si pensa a quanto è durato l’inseguimento.
La Signora ci aveva pensato parecchio negli anni di Cremona, ci aveva provato durante quelli della Sampdoria. Dalla stagione ’92-93 Gianluca approda in bianconero, ma deve rispettare la legge del contrappasso. Un mix di nostalgia, problemi fisici, incomprensioni tattiche lo tiene lontano dalle luci dei riflettori, quelle alle quali è abituato. E un’altra volta sono sussurri e non di rado grida. Vialli diventa l’uomo invisibile, qualcuno lo infila molto frettolosamente sul viale del tramonto.

La realtà è che a stentare, soprattutto in campionato, è tutta la Juventus. Gianluca, da sempre uno che ha bisogno di stimoli enormi, di sollecitazioni forti per rendere al massimo, risente della situazione. In più, c’è chiaramente un problema tecnico. Là davanti, il bomber non si ritrova. E allora Giovanni Trapattoni prova a trasformarlo in centrocampista. Un disastro. Per il giocatore, per il tecnico e per tutta la Juventus. Insomma, le prime due stagioni bianconere sono difficili, tormentate, deludenti. Vialli finisce fuori dal giro della Nazionale, e non perde occasione per graffiare con parole al vetriolo Sacchi e Matarrese. Battute che fanno discutere, che lasciano il segno, che allontanano dall’ambiente azzurro quello che nel bene e nel male ne era stato a lungo il leader carismatico.

Nonostante tutto, la Juve di Vialli (e di Baggio, guai a dimenticare) vince subito qualcosa di importante. Nel ’92-93 lo scudetto è lontano, ancora una volta nelle mani del Milan, ma arriva la Coppa Uefa. Gianluca ci mette l’impronta, cinque gol lungo il cammino, anche se la finale contro il Borussia Dortmund è sotto il segno della premiata ditta Baggio & Baggio (doppietta di Roby e gol di Dino nel 3-1 bianconero in Germania, altri due di Dino e uno di Moller nel 3-0 di Torino). Vialli alza la coppa, ed è l’unica soddisfazione del biennio.
Ci si mettono anche gli infortuni, due e piuttosto pesanti. A Roma, alla seconda di campionato, il piede sinistro cede mentre calcia un rigore (sbagliato). Due mesi dopo, la ricaduta: frattura da stress. Superati i problemi tattici, il campionato si inchioda prima di partire. E il morale va sotto i tacchi. Anche se non manca l’amore dei tifosi, e la stima di chi conta.

Gianluca è un ragazzo intelligente, arguto, uno di buona famiglia, vagamente dandy e fuori dagli schemi. Lo capisce al volo l’avvocato Agnelli, che con lui ha un grande feeling. Ci scherza, il campione, ma fino a un certo punto. «Credo che l’Avvocato parli volentieri di calcio con me. Ha capito che me ne intendo più di altri interlocutori telefonici. C’è solo un problema, con lui. Siccome vado a letto tardi, mi dispiace essere vagamente rincoglionito quando mi chiama alle sette, alle otto del mattino».
Lega con De Marchi, con Rampulla e Peruzzi. Molto meno col Trap, anche se non spinge sul pedale della polemica: «Rispetto le idee altrui, ma mi tengo le mie». Niente da dire, quell’arretramento voluto dal tecnico nella prima stagione, che gli è costato anche la Nazionale, lo ha fatto soffrire.

MARCELLO, FINALMENTE

Tocca a Marcello Lippi, che arriva a Torino nella stagione ’94-95, premere l’interruttore giusto. A lui si rivolge il giocatore, che lo conosce da tempo, per chiedergli di aiutarlo a tornare a Genova. «Mi prese da parte e mi confessò il suo malessere. Voleva andarsene. Gli chiesi se era ammattito». Altro che Genova, per il nuovo tecnico la Juventus doveva rifondarsi intorno a Vialli. Lui, finalmente, sente la fiducia intorno.
E il resto lo fa Lippi, come ammette lo stesso Vialli. «Nei primi due anni di Juve mi sentivo come Brancaleone allo sbaraglio, abbandonato su un campo di patate, io ho bisogno di un profeta, se penso troppo mi faccio male. Adesso c’è Lippi».
Insomma, Pisolo si risveglia, eccome se si risveglia. Diventa il perno della Juve del tridente, la Juve potente e muscolare (di Lippi, ma anche del preparatore atletico Ventrone), la Juve che anche per questo farà parlare di sè, talvolta oltre le righe e al di là del buonsenso. Lui se la carica sulle spalle e la trascina col suo furore agonistico, finalmente tornato quello dei tempi migliori.

E’ una squadra che vola e che vince. Il campionato, prima di tutto, e non succedeva da nove stagioni. Funziona, il tridente: davanti si impongono la forza e la tenacia di Vialli e Ravanelli, il fosforo di Baggio e della stellina emergente Del Piero. Quarantotto gol in quattro, e Vialli ne segna diciassette. Come ai vecchi tempi.
Poi, arriva anche il trionfo in Coppa Italia, e la finale Uefa persa di misura contro il Parma. Il primo successo della stagione ’95-96 è la Supercoppa Italiana, che entra nella bacheca della Juventus per la prima volta. Grazie a Gianluca Vialli, autore del gol dell’1-0 con cui i bianconeri battono il Parma a Torino, il 17 gennaio del 1996. In campionato c’è ben poco da fare, se non veder volare via il Milan e cercare di inseguirlo. Ma la squadra di Lippi parte da dietro, deve superare lungo il percorso Fiorentina e Parma e comunque non dà mai l’impressione di poter lottare coi rossoneri.

Ma nell’aria c’è il grande trionfo, quello che manca al campione, che l’ha appena sfiorato, e che in fondo manca anche alla Juventus, che l’ha conquistato undici anni prima all’Heysel, ma tutto intorno era tragedia e rabbia e non c’era spazio per la felicità, nè voglia di mostrare il petto. Il traguardo è la Coppa dei Campioni, e la Juventus ci arriva lasciandosi dietro nel primo turno Borussia Dortmund, Steaua, Rangers, spazzando via il Real Madrid ai quarti e il Nantes in semifinale. Battendo ai rigori il favorito Ajax nella finale di Roma. Data storica, 22 maggio 1996. C’è molto di Vialli, in questo trionfo. E c’è molto di Lippi nella ricostruzione, nella rinascita di un campione. Gianluca e Marcello, ispirati da un feeling, legati da un’amicizia vera. Lo stadio Olimpico, quella sera, è un paradiso di felicità, mentre capitan Vialli alza al cielo la Coppa più desiderata, più attesa.

THE ITALIAN JOB

Ed è proprio in quel momento che Gianluca capisce, che probabilmente decide. Si è chiuso un ciclo, lui arriva alla conclusione prima ancora che ci arrivino i dirigenti della società. Quattro anni, una partenza in sordina e un finale da vincente. Vialli, nell’ immaginario collettivo dei tifosi bianconeri, resterà il capitano della rabbia e del coraggio, l’artista dei gol in rovesciata, l’uomo sicuro di sè che non risparmia la battuta sferzante. C’è l’Inghilterra, ad attenderlo. Ci sono il quartiere, la squadra, il calcio più esclusivi di Londra. Lui fa le valigie e se ne va, sapendo di aver lasciato il segno. Alla Juventus nessuno è insostituibile. Ma qualcuno può diventare indimenticabile.

Gullit, diventato allenatore/giocatore del Chelsea, chiede al club di ingaggiare Vialli ma “feeling” fra i due dura poco, tanto che Gianluca viene escluso dalla formazione titolare. Umiliato ma non domo, Gianluca prepara, in silenzio, la sua rivincita, come aveva fatto l’anno in cui vinse lo scudetto con la Sampdoria, all’indomani dei deludenti Mondiali italiani. Con pazienza, aspetta il suo momento, che non tarda ad arrivare. La squadra londinese non gira e Gullit viene licenziato dal Chelsea, che, nel febbraio del 1998, rilancia Vialli. Nella doppia veste di giocatore/allenatore, guida il Chelsea alla conquista della seconda Coppa delle Coppe, dopo aver eliminato in semifinale il Vicenza dei miracoli di Guidolin.

Nello stesso anno vince la Coppa di Lega inglese ed una Supercoppa Europea. Il tutto si aggiunge ad una Coppa d’Inghilterra cui aveva contribuito nel 1997 come centravanti. Vialli sfiora anche la finalissima di Champions League, dopo aver fatto fuori la Lazio nei quarti, quasi fosse un’altra vendetta da consumare nei confronti delle squadre italiane. E torna persino ad indossare i panni del calciatore, sia pure come saltuariamente, per il suo derby personale con il suo grande amico Roberto Mancini, approdato anche lui nella terra di Albione.

All’Inghilterra ha sempre detto grazie, per avergli dato la possibilità di entrare, da allenatore del Chelsea, in un supermercato ed esserci rimasto tre ore da uomo qualunque senza che nessuno gli rompesse le scatole eppure perché poteva andare a prendersi i biglietti del cinema e tornare a casa col taxi pubblico. Il Watford di Elton John ha messo in discussione tutto. Ha scelto la serie B, perché ci doveva essere un progetto, un’idea, un futuro, ma c’era solo un nome vuoto. Luca ha smesso di allenare lì, alla periferia della metropoli che adora. Ha cercato una squadra senza candidarsi davvero; desiderava che qualcuno dall’Italia lo chiamasse. L’hanno fatto, ma non quelle che avrebbe desiderato lui. Ha sperato nella Nazionale del dopo Lippi e nella Juventus del dopo Moggi.
Non è andata, forse perché non è un tipo facile per una società, per un presidente e per un direttore sportivo, perché è popolare ed allora scomodo, perché dice di non aver avuto mai un padrone e, probabilmente, è vero.

Squadre di club
1980-1984 Cremonese105 (23)
1984-1992 Sampdoria223 (85)
1992-1996 Juventus102 (38)
1996-1999 Chelsea58 (21)
Nazionale
1983-1986 Italia U-2121 (11)
1985-1992 Italia59 (16)

VIALLI E LA NAZIONALE: AZZURRO TENEBRA

Un maledetto imbroglio. O almeno una storia molto, ma molto complicata. Il rapporto di Gianluca Vialli con la Nazionale è quello di un campione sempre atteso alla definitiva consacrazione, di un trascinatore che del gruppo riesce anche a diventare leader, ma senza mai raggiungere lo zenit, costretto a contenere quell’esplosione di gioia che in azzurro gli è mancata fino all’ultima occasione. Un rapporto venato anche di incomprensioni, di polemiche più o meno velate, di rinunce grandi e magari impopolari, sempre e comunque sofferte.

La prima volta di Gianluca in azzurro risale al 16 novembre dell’85. A Chorzow si gioca un’amichevole con la Polonia, lui è il talento emergente della Samp ed Enzo Bearzot, che sta costruendo l’ossatura della squadra che darà l’assalto al Mondiale messicano per difendere il titolo conquistato in Spagna, ne tiene conto. Dodici minuti per prendere confidenza con la maglia azzurra. Non bastano per raddrizzare una partita persa (0-1) ma nessuno ha pretese del genere.

In Messico Vialli c’è, anche se ci arriva con quattro presenze alle spalle. Cerca una consacrazione, trova scampoli di partita: venticinque minuti contro la Bulgaria, altrettanti contro l’Argentina, poco più di tre con la Corea del Sud. Negli ottavi di finale, contro la Francia, Bearzot lo butta in campo un attimo dopo il raddoppio di Stopyra. La partita è compromessa, la spedizione messicana anche. Non per colpa di Vialli, che infatti dalla prima amichevole del dopo-Mondiale gioca a tempo pieno.

Non c’è più Bearzot, che paga la caduta, sostituito al timone da Azeglio Vicini. Il 24 gennaio dell’87, contro Malta a Bergamo, Gianluca segna anche la sua prima rete azzurra.Nella Nazionale di Vicini, il bomber sampdoriano si ritaglia uno spazio importante. Sono i suoi gol a spianare la strada all’Italia verso la fase finale dell’Europeo. Reti decisive contro la Svezia (prima doppietta), e il Portogallo. La spedizione in Germania si blocca contro il muro dell’Urss, in semifinale. Fin lì, Mancini e Vialli avevano ricostruito la società del gol che in campionato aveva riportato la Samp sui grandi palcoscenici del calcio. E il Principe Giannini li aveva illuminati dalla regìa. Fino all’uno-due di Litovchenko e Protasov, appunto. Obiettivo mancato, meglio concentrarsi sul mondiale «made in Italy».

All’appuntamento con Italia ’90 la Nazionale arriva dopo una serie infinita di amichevoli. Compresa quella per il novantesimo anniversario della Figc, un successo sull’Olanda all’Olimpico illuminato da un gran gol di Vialli. È lui il vero trascinatore del gruppo che si avvicina quasi senza sconfitte (soltanto due, dagli Europei, contro Romania e Brasile) all’avventura mondiale. Indossa anche la fascia di capitano, il 26 aprile dell’89 a Taranto, contro l’Ungheria. E la festeggia aprendo le marcature di una partita felice, terminata 4-0. Insomma, tutto fa pensare che Italia ’90 sia la grande occasione mondiale di Gianluca Vialli. E lui è pronto, deciso a confermare le attese.

Ma all’improvviso si accende un’altra luce. Quella di Totò Schillaci, che alla partita d’esordio contro l’Austria entra al 75′ per Carnevale e segna dopo quattro minuti, dando la A vittoria agli azzurri. La magìa si ripete contro la Cecoslovacchia, quando Vialli, che si è mostrato giù di condizione, non entra neppure in campo. Ci tornerà a Napoli, nella semifinale stregata contro l’Argentina, senza lasciare il segno. E sarà ancora a guardare durante la finale per il terzo posto. Schillaci, ispiratissimo, si siederà sul trono della classifica marcatori del torneo.

E’ nata una stella, titolano i giornali. E Vialli è in disparte, in un angolo. Doveva essere il suo momento, l’occasione è sfumata. Lui ne soffre, e si allontana dall’ambiente azzurro. Reagisce in campionato, trascinando a suon di gol (diciannove) la Samp al suo storico scudetto. E riconquista il posto dieci mesi dopo quella semifinale con l’Argentina. Nessuna polemica con Vicini, che del resto su di lui aveva puntato, prima dell’esplosione della bomba Schillaci. Ma più tardi chioserà quell’esperienza con parole di fuoco.
«La realtà è che in quel Mondiale non avevamo un gioco. L’Argentina ci battè ai rigori, ma ci aveva surclassato sul piano tattico per tutta la partita».

È ancora nel gruppo quando Vicini saluta, dopo il pareggio di Mosca (0-0) del 12 ottobre ’91, che butta l’Italia fuori dalla corsa agli Europei. E c’è un mese dopo, il 13 novembre nella “sua” Genova, al primo atto ufficiale di Arrigo Sacchi, quando non si va oltre il pari con la Norvegia (1-1). Partita inutile, perché ormai il destino europeo è segnato. Sacchi ha un’altra missione da compiere, e lo dice apertamente: l’obiettivo sono i Mondiali del ’94. Tra lui e Vialli c’è stima reciproca.
«Lo volevo al Milan, l’avevo chiesto a Berlusconi», rivela il Ct. Ma l’amore dura un solo anno: sei partite (Norvegia, Cipro, Portogallo, Svizzera, Olanda, Malta) e due spezzoni (Eire e Usa). Il rapporto si interrompe a La Valletta, il 19 dicembre del ’92, quando Vialli segna il primo gol di uno striminzito successo (2-1) su Malta. Da quel momento, Sacchi punta deciso su Casiraghi.

Scelta tecnica? A prima vista sì. Ma in realtà c’è una sensazione di fastidio reciproco. Si scopre che Vialli si lamentava per certe osservazioni del Ct, per le regole monastiche a cui costringe il gruppo. Orari, osservazioni per chi appoggia i gomiti sul tavolo a pranzo, e via così. Sacchi non gradiva, ecco tutto. Si inserisce Matarrese, presidente della Federcalcio, l’uomo che ha scelto il timoniere. «Per Zenga e Vialli la Nazionale è un discorso finito». Il primo atto del dopo Nazionale lo vince l’Arrigo. Si qualifica per i Mondiali, arriva in finale a Usa ’94 giocando la carta Massaro. Perde ai rigori, è vero, ma intanto circolano voci su una dichiarazione di Vialli («La finale? Ho tifato per il Brasile»), poi smentita. Gioco facile, parlare di Vialli l’Antitaliano.

Ma Gianluca è abituato alle rinascite. Come dopo Italia ’90, nella stagione ’94-95 il giocatore “finito” vince lo scudetto con la Juventus di Lippi. E torna nel mirino di Sacchi. Nonostante certe dichiarazioni tutt’altro che concilianti nei confronti dei padroni del vapore azzurro. «Non vedo l’attaccamento alla Nazionale che c’era ai tempi di Bearzot e Vicini. Credo che Matarrese e Sacchi non siano troppo simpatici alla gente». E ancora. «Io sono per un calcio meno cerebrale, un pò più spensierato. Forse è l’opposto di quel che predica Sacchi». Altro siluro a Matarrese, datato marzo ’95: «Deve capire che non è il Papa».

Si tenta il riaggancio, comunque. E il presidente federale lo fa cadere dall’alto, naturalmente: «Chi si ravvede sarà ben accetto. Per questo non escludo nulla, neppure un ritorno di Vialli». Sacchi, invece, fa autogol: «Ho parlato con i giocatori. Fino a cinque mesi fa, c’era un’opposizione al ritorno di Vialli in Nazionale. Adesso le cose sono cambiate». Siamo all’estate del ’95. Settembre, precisamente. È l’ultimo atto. La parabola del figliol prodigo non trova il lieto fine. Perché il figliol prodigo non ci sta.
«Non avrei mai immaginato che le convocazioni azzurre potessero essere decise col benestare dei giocatori. Comunque, non sopporterei l’idea di trovarmi davanti colleghi che non mi volevano nel gruppo. Non posso passarci sopra, non posso restare freddo davanti a certe cose, perché sono uno che ci mette il cuore. Ho bisogno di essere tranquillo, felice, sereno. Scusate, questa è stata una telenovela e sembrava infinita. A questo punto è finita davvero, con buona pace di tutti». Chiuso, davvero. Cinquantanove presenze e sedici reti in Nazionale, per dirla con i numeri. «Non è poco. Ho lasciato il segno, e mi basta». Parola di Vialli, parola che non torna indietro.