VINYEI Jenő Eugen: il terzino dai mille nomi

Dalla Rutenia all’America, attraverso l’Europa del dopoguerra, la storia di un calciatore costretto a cambiare nomi, patrie e passaporti.

Le ceneri della Seconda Guerra Mondiale lasciarono un’Europa irriconoscibile. Le vecchie mappe erano carta straccia, i confini ridisegnati dai diplomatici creavano fratture profonde nelle vite delle persone. Chi apparteneva alle minoranze etniche si ritrovò spesso in un limbo kafkiano: ieri cittadini, oggi apolidi senza patria né identità. Il calcio, come sempre, raccontò questa storia meglio di mille saggi storici.

Sui campi tornavano uomini che avevano barattato gli scarpini con gli stivali militari, ma il loro ritorno non fu un semplice “riprendere da dove si era lasciato”. Per continuare a giocare, molti dovettero cancellare il proprio passato: nuovi passaporti, nuove lingue, persino nuovi nomi. Tra queste metamorfosi forzate, quella di Jeno Eugen Vinyei racconta un’odissea che va oltre il semplice cambio di maglia.

Da Vinyei a Prošovský – Una metamorfosi calcistica

Jeno Eugen Vinyei nacque a Miskolc, 1922, in quella Rutenia stretta come in una morsa tra quattro nazioni – Cecoslovacchia, Polonia, Ungheria e Romania. Il suo eccezionale talento come terzino sinistro lo aveva già reso celebre, ma gli eventi storici stavano per cambiare drasticamente il suo percorso. Nel momento in cui l’Ungheria cadde sotto il controllo sovietico, dopo il crollo del governo filonazista, Vinyei comprese che era giunto il momento di trovare nuove opportunità in altri paesi.

La scelta cadde sulla Cecoslovacchia, ma il prezzo da pagare fu alto. Per indossare la maglia del Sokol Kosice dovette rinunciare non solo al suo passaporto, ma alla sua stessa identità. Come nel più surreale dei racconti, Jeno Eugen Vinyei svanì nel nulla, lasciando il posto a Eugen Prošovský. Non si trattò di un semplice timbro su un documento: fu una metamorfosi totale, che lo costrinse a reinventarsi da zero, dalla lingua che parlava al modo stesso di vivere il calcio.

Il suo talento però brillava di luce propria, in qualsiasi lingua lo si chiamasse. La nazionale cecoslovacca non poteva ignorarlo, e presto si ritrovò a sfidare Francia e Austria con una nuova maglia sul petto. Ma il vento della storia soffiava ancora forte in quegli anni, e la sua tranquillità ritrovata sarebbe durata poco.

Il precursore del terzino moderno

Sul rettangolo verde, Vinyei – o Prošovský che dir si voglia – era una visione del futuro. Mentre i terzini dell’epoca si limitavano a spazzare via il pallone, lui interpretava il ruolo in modo rivoluzionario, come un pioniere solitario che anticipava di decenni l’idea del terzino moderno.

La sua presenza in campo aveva qualcosa di magnetico. Possedeva la potenza di un peso massimo e il cervello di uno scacchista, muovendosi con una sicurezza che lasciava ammutoliti gli spettatori. In un periodo storico dove i difensori venivano esaltati principalmente per la loro fisicità e durezza negli interventi, lui spiccava per un’eleganza tecnica che ricordava quella di un raffinato centrocampista offensivo, riuscendo ad essere decisivo in ogni settore del campo.

Ma era la sua lettura delle azioni a sfiorare il soprannaturale. Sembrava possedere una sorta di sesto senso calcistico, come se vedesse le traiettorie del pallone e i movimenti degli avversari prima che accadessero. Non era raro vederlo materializzarsi nel punto esatto dove serviva, sia per spegnere un’azione avversaria che per innescare un contrattacco letale.

L’ambidestro dalla doppia identità

Come se due identità nel passaporto non bastassero, Vinyei aveva anche due piedi ugualmente letali. Il sinistro era il suo marchio di fabbrica, un mix esplosivo di potenza e chirurgica precisione, ma anche il destro non scherzava. Era come avere due bacchette magiche a disposizione, pronte a incantare il pallone in qualsiasi momento.

I suoi lanci dalla difesa erano poesie in movimento. Mentre i terzini dell’epoca si limitavano a spazzate disperate, lui disegnava traiettorie perfette che trasformavano la difesa in attacco in un battito di ciglia. I suoi passaggi lunghi non erano semplici lanci, ma assist cuciti su misura per gli attaccanti.

Era come se la sua duplice identità – Vinyei/Prošovský – si riflettesse anche nel suo modo di giocare: un Jekyll and Hyde del calcio, capace di trasformarsi da mastino difensivo a raffinato regista nel giro di un’azione. Un difensore che poteva frantumare le speranze degli attaccanti avversari e, un istante dopo, illuminare il gioco con la classe di un fantasista.

Il viaggio continua – L’approdo in Italia

La storia sembrava ripetersi quando l’ombra sovietica si allungò anche sulla Cecoslovacchia. Il governo di Kosice, nato da grandi speranze democratiche, si piegò al nuovo ordine. Per Vinyei, la prospettiva di dover alternare il calcio ad altri lavori per sopravvivere era inaccettabile. L’atleta che aveva già cambiato nome e patria dovette rimettersi in viaggio.

Questa volta il destino lo spinse verso sud, in quell’Italia che cercava nel calcio la forza per rinascere dalle macerie della guerra. Fu la Pro Patria a tendergli la mano nel 1949, offrendogli un palcoscenico in uno dei campionati più prestigiosi del continente.

Il destino gli regalò anche un maestro d’eccezione: per due stagioni si allenò sotto lo sguardo di Giuseppe Meazza, il campione che aveva fatto sognare l’Italia degli anni ’30. Le sue prestazioni catturarono l’attenzione di un altro monumento del calcio italiano, Aldo Monzeglio, che dal suo posto in panchina al Napoli vide in lui il tassello mancante per la sua squadra.

Napoli – L’evoluzione tattica

Sotto il Vesuvio, Vinyei trovò in Monzeglio un visionario che parlava la sua stessa lingua calcistica. Da ex terzino di razza, Monzeglio riconobbe subito di avere tra le mani un diamante grezzo da scolpire. Tra i due nacque una sintonia speciale, un’intesa che andava oltre il classico rapporto allenatore-giocatore.

Fu proprio Monzeglio a intuire che Vinyei poteva essere molto più di un semplice terzino. In un lampo di genio tattico, decise di arretrarlo nel ruolo di libero, trasformandolo in una sorta di direttore d’orchestra arretrato. Una mossa audace che mescolava le carte in tavola: Vinyei poteva orchestrare il gioco dalle retrovie senza rinunciare alla sua naturale vocazione difensiva.

Il battesimo del fuoco arrivò contro l’Atalanta, in una partita che sembrava scritta da un romanziere con il gusto dell’ironia. Vinyei si trovò a duellare con Hasse Jeppson – lo stesso che anni dopo sarebbe diventato un idolo dei tifosi partenopei. Ma il destino aveva in serbo un colpo di teatro: con il Napoli sotto nel punteggio, Vinyei si trasformò improvvisamente da guardiano a cacciatore, salendo in attacco per siglare il gol del pareggio.

L’esperimento del libero non si ripeté con lo stesso successo, ma poco importava. Monzeglio aveva trovato in Vinyei un jolly tattico, un’arma da utilizzare ora come esterno, ora come libero, sempre con risultati sorprendenti.

SPAL – Il capitano dai piedi d’oro

Il 1955 portò un nuovo bivio nella vita di Vinyei. Il Napoli di Cuomo si era innamorato del brasiliano Luis Vinicio, ma questo amore creava un problema: con Jeppson, Pesaola e Vinyei già in rosa, gli stranieri diventavano quattro, uno in più del consentito. A 33 anni suonati, fu Vinyei a dover fare le valigie.

Ma come spesso accade nelle grandi storie, quella che sembrava una fine si rivelò un nuovo inizio. La SPAL lo accolse a braccia aperte, e Ferrara divenne il palcoscenico della sua seconda giovinezza. La fascia da capitano al braccio, i calci piazzati suoi per diritto divino: Vinyei si reinventò ancora una volta.

Al suo fianco trovò Alberto Delfrati, anche lui con un passato napoletano, e insieme formarono un muro difensivo che faceva tremare gli attaccanti avversari. Il presidente Mazza aveva visto giusto: quel “vecchio” difensore straniero era l’uomo giusto per guidare la rinascita della squadra.

Il giorno di Natale del ’55, Vinyei si ritrovò faccia a faccia con il suo passato. Contro il Napoli, in quello stadio di Ferrara che era diventato la sua nuova casa, trovò la via del gol. La SPAL perse 2-1, ma quel gol dell’ex aveva il sapore dolceamaro di una storia che si chiudeva in cerchio perfetto.

L’ultima avventura – Il soccer americano

Dopo 243 battaglie e 12 gol in Serie A, Vinyei decise di attraversare l’oceano per un’ultima avventura. L’America lo chiamava, quel continente dove il calcio era ancora un seme da piantare tra New York e Philadelphia. Da pioniere nato, non poteva resistere alla tentazione di essere ancora una volta all’avanguardia di qualcosa di nuovo.

Era perfettamente in carattere con la sua storia: come aveva reinventato il ruolo del terzino quando in Europa si giocava ancora all’antica, ora si ritrovava a seminare il futuro del “soccer” in una terra che ancora lo guardava con curiosità. Non avrebbe vissuto abbastanza per vedere quel seme crescere in uno degli spettacoli sportivi più seguiti del paese, ma in fondo era il suo destino: essere sempre un passo avanti.

Tra i viali di New York, nell’autunno del 1976, si chiuse il sipario sulla vita di un uomo che della metamorfosi aveva fatto la sua arte, tanto nel nome quanto nel gioco. L’enigmatico personaggio che il mondo conobbe come Jeno Eugen Vinyei e Eugen Prošovský portò con sé, a soli 53 anni, una visione del calcio che aveva osato sfidare i dogmi dell’epoca.

In un’era in cui le posizioni in campo erano gabbie dorate, lui fu un ribelle elegante, un pioniere che rifiutò di essere etichettato. Da terzino, trasformò la linea difensiva in un trampolino di lancio per la creatività, fondendo in un unico ruolo l’arte della protezione e quella della costruzione.

La sua parabola è stata lo specchio di un’epoca in fermento, dove il calcio stava diventando linguaggio universale per raccontare le trasformazioni di una società in continua evoluzione. Nel suo modo di interpretare il ruolo, già si poteva leggere la storia di un mondo che stava imparando a superare i propri confini.