MATTEO MARANI: Dallo scudetto ad Auschwitz

È un libro che commuove e indigna, che va letto tutto d’un fiato tanto è affascinante il personaggio di Weisz. Finalmente 60 anni dopo la sua morte un giornalista del calcio moderno gli renderà il posto e il merito che gli spetta nella Storia del calcio.


Non lo sapeva nemmeno Enzo Biagi, bolognese e tifoso del Bologna. «Mi sembra si chiamasse Weisz, era molto bravo ma anche ebreo e chi sa come è finito», ha scritto in “Novant’anni di emozioni”. E’ finito ad Auschwitz, è morto la mattina del 31 gennaio ’44. Il 5 ottobre del ’42 erano entrati nella camera a gas sua moglie Elena e i suoi figli Roberto e Clara, 12 e 8 anni.Questa è la risposta, documentata, di Matteo Marani, bolognese, laureato in Storia (e questo spiega qualcosa). Gli ci sono voluti tre anni di ricerca, scrupolosa e insieme ossessiva, perché gli pareva di inseguire un fantasma.

Ed ora questo libro: “Dallo scudetto ad Auschwitz” (ed. Aliberti), preciso come una banca svizzera, dolente come una cicatrice. Ho idea che Marani abbia sentito le voci nel vento, per dirla con Guccini, bolognese d’adozione. Forse lo ha spinto una coincidenza: abita a meno di 300 metri da dove abitava Weisz. Certamente lo ha sorretto una volontà da detective della memoria. E così dai registri di classe del ’38, ritrovati in uno scantinato, è arrivato a conoscere uno degli amici del piccolo Weisz, un amico vero che per tutti questi anni aveva conservato lettere e cartoline che gli arrivavano dalla Francia, dall’Olanda, da dove i Weisz cercavano di sottrarsi ai cacciatori dopo che il Bologna aveva licenziato il suo tecnico in omaggio alle leggi razziali.

Arpad Weisz era stato un ottimo giocatore, ala sinistra. Nell’Olimpica ungherese del ’24 fa coppia con Hirzer, la Gazzella, che sarebbe stato il primo straniero alla corte degli Agnelli. Gioca nel Padova (poco), nell’Inter ma un infortunio serio lo porta sulla panchina nerazzurra come tecnico. È lui a lanciare in prima squadra Peppino Meazza, a 17 anni, lui ad allenarlo individualmente, al muro, perché abbia la stessa padronanza dei due piedi, è lui a vincere lo scudetto del ’30, sempre lui a scrivere, a quattro mani col dirigente Aldo Molinari, il manuale “Il giuoco del calcio”, con prefazione di Vittorio Pozzo che non era l’ultimo arrivato. Ancora lui a importare in Italia il sistema di Chapman, a sperimentare i ritiri (in località termali), ad allenarsi in braghe corte insieme ai giocatori, quando le foto di Carcano (famoso quinquennio juventino) lo mostrano in giacca e cravatta. Gli allenamenti si dirigevano, non si facevano. “Il mago” lo chiama “Calcio illustrato”.

Col Bologna «che tremare il mondo fa» vince due scudetti consecutivi. È il tempo di Schiavio, di Monzeglio che insegna il tennis ai figli di Mussolini, dell’uruguagio Sansone che sposa la cassiera del bar Centrale, di Fedullo, di Fiorini detto il Conte Spazzola che muore nel ’44 sotto una raffica dei partigiani, e ancora di Ceresoli, di Biavati che esegue il doppio passo e poi crossa al bacio per Puricelli detto Testina d’ oro. Al Littoriale Weisz chiede un’equipe fissa di giardinieri per il prato, un laboratorio medico-dietetico. Nella finale del Trofeo dell’ Esposizione, a Parigi, il Bologna batte 4-1 i maestri del Chelsea.

Ma il cerchio intanto si stringe intorno a una famiglia felice. Il figlio non può iscriversi a scuola. Il padre non può allenare. Il Bologna lo licenzia a fine ottobre del ’38, dopo un 2-0 alla Lazio. Al suo posto l’austriaco Felsner. La famiglia Weisz lascia Bologna in treno, direzione Parigi. La speranza è di trovare un lavoro. Tre mesi trascorsi in albergo indeboliscono le finanze e non danno risultati. Si punta sull’Olanda, Dordrecht. Città piccola, squadra semidilettantistica, ma con Weisz in panchina batterà più d’una volta il grande Feyenoord. Ma anche in Olanda, paese con un tasso altissimo di collaborazionismo, si stringe il cerchio.

L’ultimo messaggio dei Weisz è una cartolina di auguri di Natale spedita a Bologna il 12 dicembre ’40. Nel settembre del ’41 i nazisti stabiliscono che agli ebrei è vietato frequentare lo stadio, ma anche andare a scuola, salire sui mezzi pubblici, entrare in bar, ristoranti e negozi. I Weisz tirano avanti grazie agli aiuti, di nascosto, del presidente del Dordrecht. Naturalmente, Marani è andato a Dordrecht e ha trovato uno dei giocatori ancora vivo. Non in grande salute, ma felice di parlare di Weisz. «Lo chiamavamo Sir. Fantastiche le sue lezioni di tattica». Senza vie d’uscita, la stella gialla già impressa su un cappotto liso (questa per me l’immagine più triste di un libro bellissimo che allegro non può essere), l’ebreo Weisz spia la sua ex squadra dalla fessure nella staccionata di legno.

Le SS arrestano la famiglia il 7 agosto ’42 e la prelevano dal campo di Westerbork, lo stesso per cui passerà Anna Frank, all’alba del 2 ottobre. Sul treno che li porta verso i lager gli ebrei pagano il biglietto. Weisz viene dirottato su Cosel, campo di lavoro in Alta Slesia. Ha un fisico da atleta, può ancora servire. Per il resto della famiglia, Zyklon B. Poi sarà Auschwitz anche per lui. La media di vita nei campi era di 4 mesi, Weisz ne regge 16. Lo trovano morto la mattina del 31 gennaio ’44: di freddo, di fame, di solitudine, di disperazione. Non aveva mai saputo della famiglia, lo aveva solo immaginato. E forse nemmeno Marani, nel suo viaggio a ritroso, pensava di raccontare una storia così profonda e tragica, dando un corpo ai fantasmi e voce, almeno un po’ di voce, ai morti.

MATTEO MARANI
Dallo scudetto ad Auschwitz
Aliberti, 2007
pp. 208