Wilkins e Hateley: l’avventura milanista

I due britannici di­ventarono subito idoli del tifo rossonero, tanto gentili e disponi­bili fuori dal campo tanto combattivi e pronti a dare il 101 per cento in campo: Wilkins più lento, stiloso e ragionatore, Hateley veloce, irruento e con uno stacco di testa imperioso.

Quando il Gruppo Fininvest pose le sue scialuppe di salvataggio a disposizione della navicella rossonera in avaria, l’era inglese del nuovo Milan poteva già dirsi conclusa. Hateley e Wilkins non sarebbero più stati i punti di forza della squadra, che nonostante la loro presenza aveva perso in un finale di campionato difficile e sfortunato la possibilità di partecipare alla Coppa UEFA nella stagione 1986-’87. Il Gruppo pensò subito, dunque, a come sostituirli con assi stranieri che dessero garanzie di un rendimento più elevato: era l’ora degli olandesi. Per i due inglesi del Milan cominciò una stagione di interminabili addii. Ripercorriamo la loro vicenda.


Ray Colin Wilkins (Hillingdon, 14 settembre 1956 – Londra, 4 aprile 2018)

Sapeva di non essere uno di quei fuoriclasse che fanno sempre notizia sui giornali, di quelli che spaventano gli avversari perché da soli, si dice, possono fare la differenza. Eppure, nato alla periferia di Londra (Hillington) il 24 settembre 1956, non aveva ancora vent’anni quando Don Revie lo fece debuttare nella Nazionale inglese, allo Yankee Stadium di New York, contro gli azzurri di Bearzot al Torneo del Bicentenario. Un esordio positivo, che gli valse la conferma, segno che in quel ragazzo basso di statura ma capace di enormi sacrifici atletici e ordinato nel gioco si poteva intravvedere la stoffa del campione.

Ray Colin Wilkins aveva tutti i capelli al loro posto e forse non sembrava ancora un baronetto, come quando venne al Milan, ma nel Chelsea di Londra si era già acquistato una solida posizione con l’educazione innata e l’intelligenza del suo comportamento in campo. I compagni lo chiamavano “razor“, cioè rasoio, perché i suoi lanci lunghi e a mezz’altezza tagliavano il campo come rasoiate. Il suo primo maestro era stato il padre George, mezzala del Nottingham Forest e nel Leeds United; nelle formazioni giovanili del Chelsea aveva poi trovato un allenatore che si chiamava Dario Gradi, figlio d’un milanese, quasi un segno del destino.

Nel ’74, quando aveva 17 anni, Dave Sexton lo aveva lanciato in prima squadra nel derby col Tottenham. Poi era venuto un nuovo manager, Eddie McCreadie, che aveva una graziosa segretaria dai capelli neri, che si chiamava Jackie. A forza di frequentare la sede nel suo ruolo di capitano della squadra, andò a finire che l’elegante Ray se la sposò.

La maturità e la fama Wilkins doveva raggiungerle a Manchester, nelle file del glorioso United. Per averlo Dave Sexton, che si era trasferito lassù, aveva fatto sborsare alla società la bella cifra di 825.000 sterline. Sarebbe poi stato il miglior giocatore della Nazionale inglese, guidata da Ron Greenwood, nelle partite del campionato d’Europa 1980 in Italia.

Aveva esibito la sua bravura sotto gli occhi di tutti e certamente Liedholm, allora allenatore della Roma, doveva avere notato come le sue caratteristiche tecniche si adattassero alla perfezione al suo gioco di mantenimento della palla ravvivata di tanto in tanto dal lancio a sorpresa per smarcare il compagno cogliendo impreparati (o addormentati?) gli avversari. E tuttavia Wilkins, che ormai in Inghilterra chiamavano “Baldie”, pelatina, era rimasto forse un po’ stupito all’offerta del Milan, nel 1984.

Bloccato da gravi infortuni, da quattro stagioni faticava a mantenere non soltanto la fascia di capitano, ma persino il posto di centrocampista nel Manchester United, messo in secondo piano dallo splendore della nuova stella Brian Robson, che il nuovo allenatore Ron Atkinson si era portato dal West Bromwich Albion. Aveva recuperato qualcosa dell’antica dignità quando lo stesso Robson si era infortunato e poi si era trovato in vetrina nel mercato internazionale perché fra i due galletti, se uno i dirigenti di Manchester avrebbero lasciato partire, quello era senz’altro lui.

Al Milan per due anni Ray Colin Wilkins offriva la sua esperienza, la sua cultura, la sua serietà professionale. Non solo sapeva cucire il gioco dei compagni sul campo, ma legava con loro anche fuori, svelto nell’impadronirsi della lingua italiana e socievole di carattere, tenace nel perseguire i suoi obiettivi. Una grande stagione, la prima, un calo nella seconda (anche il baronetto sentiva il passare degli anni), poi l’ultima, penosa e triste, spesso fuori squadra per le scelte di Liedholm o forse per quelle della società, ad immalinconirsi nella consapevolezza che il Milan non lo avrebbe confermato. “La peggior stagione della mia vita”, avrebbe un giorno confidato. Però vissuta sino in fondo con orgoglio e serietà.

StagioneSquadraPres (Reti)
1973-1979 Chelsea179 (30)
1979-1984 Manchester Utd160 (7)
1984-1987 Milan73 (2)
1987 Paris Saint-Germain13 (0)
1987-1989 Rangers70 (2)
1989-1994 QPR155 (8)
1994 Crystal Palace1 (0)
1994-1996 QPR21 (0)
1996 Wycombe1 (0)
1996-1997 Hibernian16 (0)
1997 Millwall3 (0)
1997 Leyton Orient3 (0)

Mark Wayne Hateley (Wallasey, 7 novembre 1961)

Del tutto diverso per carattere e comportamento era Mark Hateley, chiuso, scontroso, selvaggio. “Ragazzo irrecuperabile”, era stato scritto un giorno su una sua pagella scolastica. Più che per l’interesse allo studio, il giovane Mark era famoso nelle scuole d’Inghilterra per le sue doti sportive: eccelleva nel nuoto, nella corsa, nel rugby: e nel calcio, naturalmente.

Figlio d’arte anche lui come Wilkins, aveva il gol nel sangue: suo padre Tony era stato un ottimo centravanti, benché mai avesse potuto indossare la maglia bianca della Nazionale d’Inghilterra. Nato a Derby il 7 novembre 1961, fin da giovanissimo Mark era stato celebre per il suo coraggio e le sue fratture: per rompersi un tantino meno le ossa aveva preferito il calcio al rugby. Non era un raffinato nel controllo di palla, non mostrava grande intelligenza nella visione di gioco, ma era audace, un vero centravanti all’inglese, forte di testa e potente nel gettarsi alla ricerca del gol nelle aree di rigore avversarie.

Presto sposato con Beverly, lanciato nel Coventry, che era stata una delle ultime società del padre, era stato frenato da troppi infortuni e pareva aver perso buona parte del suo entusiasmo iniziale. Poi lo aveva ritrovato in Seconda Divisione, nel Portsmouth, e si era persino guadagnato la convocazione per la Nazionale che andava in tournée in Sudamerica. Di passaggio, il giovane Mark aveva avuto modo di terrorizzare i coetanei italiani nelle partite che nel campionato d’Europa Under 21 li avevano opposti agli inglesi.

Indecifrabile, potente, selvaggio. Per queste sue caratteristiche era piaciuto ai tifosi del Milan, quando aveva cominciato a far gol. Anche se nei rapporti umani, con i compagni e con la gente, non è che ci sapesse fare, refrattario com’era ad imparare la lingua e poco dotalo anche in fatto di cultura (mentre il suo connazionale Wilkins leggeva libri di filosofia).

Lo avevano ben presto soprannominato “Attila”, storpiandone il nome. Con lui a scardinare le difese avversarie, i milanisti sognavano di tornare ai giorni di gloria del Gre-No-Li. Ma infortuni e capricci lo avevano accompagnato anche nella sua carriera italiana. Andava in Inghilterra col pretesto di malattie da curare e ritardava il suo rientro, pareva facile ad abbandonarsi alla pigrizia, a perdere concentrazione e spirito di sacrificio, come se non sentisse di appartenere davvero alla squadra italiana che pure gli aveva riconosciuto un compenso di gran lunga superiore a quel che avrebbe potuto guadagnare in Inghilterra.

Erano tornati, ai tecnici e ai tifosi, i dubbi che tutti avevano avuto il giorno in cui s’era saputo che Giussy Farina avrebbe acquistato quel giovane centravanti ancora poco conosciuto. Quando voleva, quando era lanciato e si sentiva stimolato al cento per cento, Attila era davvero incontenibile. Ma i difensori italiani avevano cominciato a conoscerlo, sapevano come contrastarlo: e forse il gioco del Milan era sempre meno adatto alle sue caratteristiche.

Insomma, il selvaggio inglese tutto considerato segnava pochi gol: 7 nella sua prima stagione italiana, 8 nella seconda, un bottino insufficiente per portare al successo la squadra. E meno ancora nella terza stagione, quando aveva saputo ben presto di non godere più della totale stima di dirigenti e tifosi.

Così, anche se nel finale della sua terza annata, in cerca di adeguata collocazione in Italia o all’estero, l’ancora giovane Mark dava segni di risveglio, mettendo di nuovo in mostra le sue buone qualità, non si rischiava certo la sollevazione popolare annunciando che il Milan si sarebbe separato da lui. Troppo presto, forse, ancora immaturo come uomo, il terribile Attila aveva intrapreso la sua avventura milanista.

StagioneSquadraPres (Reti)
1978-1983 Coventry City93 (25)
1980 Detroit Express19 (2)
1983-1984 Portsmouth38 (22)
1984-1987 Milan66 (17)
1987-1990 Monaco59 (22)
1990-1995 Rangers165 (87)
1995 QPR27 (3)
1996 Leeds Utd6 (0)
1997 Rangers4 (1)
1997-1998 Hull City21 (3)
1999 Ross County2 (0)