Yves Vanderhaeghe, l’uomo che visse due volte

Ha giocato i Mondiali 2002 nella Nazionale belga, ma quando aveva solo 18 anni i medici lo avevano considerato clinicamente morto.

Yves Vanderhaeghe, ex centrocampista difensivo dell’Anderlecht e della Nazionale belga, poi stimato tecnico, si può ritenere a tutti gli effetti un miracolato. Nato il 30 gennaio 1970, a 16 anni venne acquistato dal Cercle Bruges che intravide nel ragazzo del potenziale talento. Dopo due anni passati nelle giovanili del club, nel 1988 i vertici decisero di non confermarlo, delusi dalle prestazioni non all’altezza delle aspettative.

Vanderhaeghe in realtà lottava con una feroce emicrania che gli creava persino problemi alla vista, da qui le prove in campo sempre più opache. Per qualche settimana provò con il minuscolo Roselare, club di terza divisione, prima di arrendersi definitivamente alla malattia che per incoscienza giovanile aveva trascurato e soprattutto sottovalutato.

Il responso dei medici fu a dir poco terribile: non si trattava di cefalea, ma di una meningite e nel giro di pochi giorni entrò in coma. Per parecchie settimane Yves rimase attaccato a una macchina che gli permetteva di respirare: il suo cuore in realtà continuava a pulsare, ma il cervello non dava il minimo segno di risveglio.

«Eppure ricordo tutto perfettamente. Non riuscivo a comunicare, ma sapevo di essere vivo. Avrei voluto parlare e interiormente mi consumavo, ho pensato al suicidio, ma ero impotente, schiavo di un apparecchio che prolungava all’infinito le mie sofferenze».

Vanderhaeghe si risvegliò soltanto quattro mesi dopo, quando anche i famigliari erano ormai convinti che non ci fossero più speranze e stavano addirittura valutando come e quando donare i suoi organi.

«Mi ha salvato l’amore per il calcio. Avevo esordito in Serie A col Bruges a 17 anni. Mi chiedevo dove fosse finita tutta quella forza fìsica, quel fascio d’energie, e poco per volta ho ripreso a vivere».

Con la maglia del R.E. Mouscron, vestita in due riprese dal 1992 al 1994 e poi dal 1998 al 2000

Vanderhaeghe tornò a giocare a calcio due anni dopo aver guardato la morte negli occhi, e la malattia alla fine lo trasformò anche come calciatore. Aveva iniziato infatti come promettente centrocampista offensivo, giocatore da ultimo passaggio, al punto da essere accostato al connazionale Enzo Scifo. Quando invece riprese a calcare il terreno di gioco, nell’Excelsior Mouscron, si trovò quasi per caso nei panni del mediano, proprio come quello straordinariamente disegnato dal brano di Luciano Ligabue.

«Ho imparato a combattere nel letto d’ospedale e anche in campo mi sono reso conto che quella sarebbe stata la mia vocazione».

Una vocazione che diede una spinta energica alla sua carriera professionale, visto che dopo un periodo all’Eendracht Aalst arrivò, alla soglia dei trent’anni, un ingaggio importante nell’Anderlecht (con il quale vinse uno scudetto e due Supercoppe del Belgio) e la convocazione in Nazionale. Il debutto con i Diavoli Rossi è datato 30 maggio 1999 contro il Perù, non un giorno qualsiasi, ma esattamente dieci anni dopo la grave infermità. Evidentemente si trattò di un segno del destino, prima beffardo e due lustri dopo pronto a premiare lo sfortunato calciatore.

Ai Mondiali asiatici del 2002 il Belgio, dopo una buona prima fase, venne eliminato negli ottavi dal Brasile di Scolari. Vanderhaeghe, che nella sfida con i verdeoro limitò il raggio d’azione del grande Ronaldinho, mandò giù a stento il boccone amaro, ma al termine della gara ancora una volta diede dimostrazione di attaccamento alla vita.

«La sconfitta? Alla fine è solo un gioco, il mio Mondiale l’ho vinto molti anni fa. Da quel momento ogni istante che passa rappresenta una vittoria. Non posso chiedere di più alla mia buona stella».

Ronaldinho e Vanderhaeghe in Brasile-Belgio 2-0, Mondiali 2002