ZACCHERONI Alberto: L’ottimismo della ragione

L’incredibile storia di un grande allenatore: dal lido di Cesenatico alla corte dell’Imperatore.

Alberto Zaccheroni nasce a Meldola il 1 aprile 1953, ma di Meldola collezionerà ricordi importanti più tardi. Da ragazzino, quando la casa dei nonni diventerà luogo di vacanza. Da giocatore, quando vestirà la maglia della squadra locale, tra i Dilettanti, per cinque stagioni.

Il piccolo Alberto non ha neanche un’idea di dove si trova, quando la famiglia si sposta sulla Riviera. Lui ha sette mesi, papà Adamo ha appena rilevato un albergo da quarantacinque stanze a Cesenatico. Papà Adamo ha una passione per l’Inter, e quell’albergo vorrebbe tanto chiamarlo Internazionale. Ma scopre che ci ha già pensato Giorgio Ghezzi detto “Kamikaze“, uno dei suoi idoli. E allora ripiega su Ambrosiana. Tanto per dire la fede. Per far andare avanti la pensione si mobilita tutta la famiglia. Anche Alberto, quando arriva l’età giusta. «I miei lavoravano tutto il giorno, e tutti i giorni. Io ho studiato da perito turistico perché quello doveva essere il futuro». Doveva. Se il destino non ci avesse messo di mezzo il calcio.

A quattordici anni, Alberto serve ai tavoli durante il pranzo e poi scappa al campo sportivo. Il Cesenatico gli ha fatto un provino il primo aprile del 1967, giorno del suo compleanno. Tesserato, col permesso di papà Adamo. Prime partite, primi sogni da coltivare. «Più che un bravo allenatore, mi sarebbe piaciuto tanto diventare un bravo calciatore. Sognavo San Siro, sognavo di poter entrare lì dentro e decidere una partita con un gol». Sognava, il giovane Zac. Ma la carriera si inchioda sul nascere, un po’ per carenze tecniche («Tecnicamente non ero granché, ma ero veloce e la grinta non mi mancava»), un po’ per colpa di un destino beffardo.

Zaccheroni con il Venezia 1990/91

Nel ’69-70 lo chiama il Bologna, dopo un anno di giovanili rossoblu torna al Cesenatico, in quarta serie. E a quel punto lo ferma l’adenopatia ilare, la stessa malattia polmonare che colpì Roberto Bettega. Due anni di inattività, e il resto della carriera spesa sui campi dilettantistici della Romagna. Dopo Cesenatico, cinque anni a Meldola, e poi Civitella, Savio. «Mi sarebbe piaciuto giocare in attacco, mi misero subito in difesa. Marcavo la seconda punta». E intanto inizia ad allenare, per gioco, le formazioni da bar. «Una fatica, dover scegliere undici amici e lasciar fuori tutti gli altri».

Comincia così, l’avventura dell’altro Zac. Quello che avrebbe fatto una carriera diversa. Stagione ’81-82, Zaccheroni gioca nel Savio e inizia la preparazione estiva sotto casa. «Chiesi a un amico che allenava l’Ad Novas, una squadra di Terza Categoria, se potevo lavorare con lui. Un giorno lui ebbe una discussione con il tecnico dei Pulcini. Quello voltò i tacchi e se ne andò, e l’amico mi chiese di prendere il posto».

Un anno dopo, Zac guida gli Allievi del Cesenatico. Così anche nell’ 83-84, anno in cui improvvisamente si ritrova su una panchina di C2. La prima squadra è in fondo alla classifica, l’allenatore Magrini viene esonerato e la società salta d’un colpo l’allenatore in seconda e quello della Berretti, affidandosi a Zaccheroni Alberto. Retrocessione evitata. Un anno dopo, la storia si ripete puntualmente. Il Cesenatico parte con Vastola e passa in corsa nelle mani di Federiva, ma resta ultimo in classifica. Chiamata per Zac, salvezza. Dopodiché, lui sarebbe pronto a tornare tra i suoi ragazzi. Ma arriva la chiamata del Riccione, e Alberto accetta. Tanto, siamo sempre in zona.

Il primo anno è trionfale, Zac prende in mano a campionato in corso una squadra costruita per vincere il proprio girone d’Interregionale, ma lontana otto lunghezze dalla testa della classifica, e la trascina al primo posto. Agli spareggi-promozione, con Vis Pesaro e Gubbio, il Riccione cede il passo ai marchigiani. La promozione in C2 arriva puntuale nella stagione successiva, ’86-87. Dopo la festa, dopo la gioia, Zaccheroni a sorpresa sceglie di ripartire dall’Interregionale. A San Lazzaro.

La realtà è che il tecnico non si sente ancora pronto per il salto tra i professionisti, e che i programmi dei dirigenti del Riccione non lo soddisfano. Così, si mette alla finestra e attende. La chiamata della società bolognese arriva a novembre, Zac sale sulla panchina appena lasciata da Franco Varrella. Ma questa volta il suo intervento non basta. Il San Lazzaro retrocede. Per Zaccheroni è la prima volta, e resterà l’unica. «Una ferita profonda. Anche se allenavo una squadra giovanissima, fatta per lo più di studenti. Alcuni frequentavano la scuola a Rimini e poi si buttavano in autostrada per venire agli allenamenti».

Soffre e accusa il colpo, Zaccheroni. Ma riparte, e dietro l’angolo lo aspetta la felicità. Lo cerca il Baracca Lugo, lui risponde e trova la squadra giusta e una società decisa a crescere. Una società che crede in lui: l’inizio è stentato, il Baracca infila sette pareggi consecutivi e la piazza, ancorché molto civilmente, protesta. Ma i dirigenti tengono duro e Zac, trovato il bandolo della matassa, li ripaga con gli interessi. Vince due campionati in fila, Interregionale e C2, e per la prima volta si affaccia alla ribalta della terza serie.

Ma la C1 va a viverla un po’ più lontano. In Laguna. Chiamato dal presidente Zamparini a guidare il Venezia. Impatto a effetto: la squadra gira, tiene senza capogiri il ritmo dell’alta classifica, finisce al secondo posto. Per la promozione occorre un’appendice a prova di coronarie. Spareggio col Como a Cesena. A casa di Zac. «Caldo terrìbile, stadio stracolmo. C’erano settemila tifosi veneziani in curva, non avevo mai visto colori così accesi. Vincemmo 2-1, e il giorno dopo eravamo sulla Vissona, la nave dei Dogi, a fare passerella sul Canal Grande, tra due ali di folla impazzita. Cominciavo a convincermi di poter fare anch’io l’allenatore, da grande».

Alberto Zaccheroni da Meldola, nella stagione ’90-91, è un tecnico di nemmeno quarant’anni (ne ha fatti trentasette, naturalmente il primo aprile) che già si affaccia alla Serie B. Con quattro promozioni dietro le spalle. E quella retrocessione a San Lazzaro, già, meglio dimenticare. Si affrettano a schedarlo tra i nuovi profeti della zona, ma lui corregge: «Sono sempre un pò fasulle, certe distinzioni. Quasi tutti fanno zona mista. Io non faccio il fuorigioco e tengo alternativamente uno dei due centrali un pò defilato. Gioco a zona perché ho realizzato da alcuni anni che è la miglior tattica difensiva, perché con la zona spazi e tempi si accorciano. Ma non mi sento schiavo di alcuna religione, in materia».

Così sia, ma intanto il Venezia tra i cadetti gli regala un bel cocktail di amarezze e soddisfazioni. Due anni a tu per tu con quel vulcano di presidente che risponde al nome di Maurizio Zamparini. Che due volte lo allontana (nella prima stagione preferendogli Marchesi, nella seconda Maroso) e due volte lo richiama a campionato in corso. Due volte il tecnico salva la squadra dalla retrocessione, ma lo strappo è inevitabile. Anche perché a Zamparini piace parecchio esternare, magari a mezzo stampa, le sue simpatie per certi giocatori, e Zac non gradisce.

Così, dopo due anni di Serie B il tecnico romagnolo preferisce ributtarsi nel cosiddetto inferno della C1. Anche se non sceglie una società qualsiasi, in questa discesa. Dietro al nome, ci sono tradizione e storia. Magari anche un pò d’affetto, e di rimpianto per quello che poteva essere l’inizio di una carriera da calciatore e che è rimasto un breve passaggio nelle categorie giovanili. Insomma, da allenatore Zaccheroni sceglie il Bologna, per il dopo-Venezia. Il fatto è che lui spera in un progetto ad ampio respiro, ma il Bologna appena rinato dalle ceneri del fallimento ha ancora troppe teste pensanti. C’è già Gazzoni, ma ci sono anche le Coop. In poche parole, non c’è una linea precisa, al momento.

Così, dopo dodici giornate e con la squadra al settimo posto, Zaccheroni viene esonerato. «Un’amarezza, ma sbagliai io ad andarci. Io parlavo di assestamento, mi sembrava normale. Mi interessa costruire qualcosa che duri nel tempo, non un progetto che affondi alla prima tempesta». Un anno dopo, siamo alla stagione ’94-95, la Serie B torna a offrirgli un’occasione.

È Cosenza, non esattamente il massimo in quel momento. Mancano i fondi, le garanzie economiche, il campo su cui allenarsi. E a metà gennaio arriva anche una penalizzazione di nove punti, per illecito sportivo. «Arrivavano giocatori con i bagagli in macchina, che erano appena stati sfrattati perché la società non aveva pagato loro l’affitto. Sembravamo spacciati, e invece facemmo quadrato e trovammo lo spirito giusto. Feci giocare undici ragazzi della Primavera, tre di loro divennero titolari. E ci salvammo. Alla fine, posso dire che quella è stata una delle stagioni più felici della mia carriera. Quell’esperienza mi ha arricchito: non solo dal punto di vista professionale, anche sul piano dei rapporti umani».

Il Cosenza al quindicesimo posto è un miracolo bello e buono. Se ne accorgono in tanti. In ordine sparso, Genoa, Chievo, Perugia, Salernitana. Ma a un certo punto arriva anche la chiamata dell’Udinese, appena salita in Serie A. Alberto Zaccheroni, quello che aveva iniziato ad allenare per gioco, facendo una dannata fatica a scegliere gli undici amici da mandare in campo al torneo dei bar, intuisce che sta passando un treno importante. E l’occasione giusta, la Serie A è il porto da raggiungere, il Graal di tutti gli allenatori, la grande ribalta. Poco importa se il patron friulano, Giampaolo Pozzo, gode di una discreta fama di mangiallenatori. Ne ha cambiati sedici in dieci anni, una bella collezione.

Zaccheroni assieme al patron dell’Udinese, Giampaolo Pozzo

Zac arriva a Udine, e il clima non è esattamente quello della festa. Alla partenza per il ritiro estivo, prima della stagione ’95-96, la squadra è salutata da un pugno di tifosi, che a contarli bastano le dita di una mano. Le amichevoli estive aiutano a scaldare l’ambiente, si passa dai mugugni al silenzio, già una conquista. Zac lavora con un programma a lungo termine, il genere che preferisce, «Più di tutte le tattiche, conta il progetto in cui credere» ha sempre asserito. Il progetto c’è, e il bello è che il tecnico non è l’unico a crederci. I dirigenti sono con lui, un po’ alla volta lo seguono anche i tifosi.

Al suo primo anno di A, porta la squadra al decimo posto. L’ambiente si scalda, e lui avverte: «L’Uefa non è alla nostra portata. Ci sono almeno sei o sette squadre più forti di noi». Invece, nella stagione ’96-97 l’Udinese arriva quinta in campionato e conquista l’Europa. «Significa che nel calcio non contano solo la tattica e la tecnica. Ci sono anche l’aspetto fisico e quello mentale. Sotto questo aspetto, siamo stati tra i più bravi. E il coraggio, quello non ci è mai mancato».

Zaccheroni piace, incontra, intriga. Lo cerca Moratti, lo contatta i il Napoli, lo corteggia Mantovani. Pozzo lo sa e non vuole lasciarselo scappare. Gli propone un contratto biennale, lui risponde “no, grazie”. «Piuttosto, sto fermo un anno o vado ad allenare in B». Vince lui, anche su questo fronte. Un anno di accordo e programmi precisi: navigare sopra la zona retrocessione, possibilmente dalle parti della zona-Uefa.

Dicono che si stia abituando a non scoprire troppo le carte, Alberto Zaccheroni. Lui ci ride su, ma intanto la sua Udinese prende il volo. Gira a metà campionato al terzo posto, accusa una leggera flessione e poi si riprende: terza, alla fine. Un capolavoro, ma l’artefice minimizza: «I tifosi sognano, a un certo punto parlavano anche di scudetto. Io sapevo che era impossibile. Noi siamo in grado di lottare con le migliori solo se testa e gambe funzionano al cento per cento».

Dice noi, Zac, e intende il suo gruppo delle meraviglie. L’ariete Bierhoff, capocannoniere del campionato, che in tre anni ha fatto progressi incredibili. I ragazzi cresciuti sotto l’ala del tecnico romagnolo: da Pierini a Bertotto, fino a Giannichedda, arrivato sconosciuto dal Sora. E Jonathan Bachini, un’altra scommessa vinta. «Lo avevo provato in precampionato, come alternativa a Helveg. Era così bravo a seguire le mie indicazioni che non l’ho tolto più».

Le indicazioni, appunto: «A me piace cambiare. A Lugo schieravo la squadra a zona, e mi davano del pazzo. Al secondo anno a Udine, ho tolto un difensore e aggiunto un attaccante. E andata bene, l’idea ha funzionato». L’idea è il 3-4-3 che ha fatto decollare l’Udinese, con il trio AmorosoPoggiBierhoff davanti, i polmoni di Helveg a far funzionare il meccanismo, la grinta dei ragazzi di Zac, quelli di cui si diceva.

Ma il giovane Alberto aveva un sogno, voleva arrivare a San Siro. Andrà diversamente da come pensava allora, ma ci arriverà. Lo sceglie Adriano Galliani, al quale il presidente Berlusconi, completamente assorbito dagli impegni politici, ha affidato la gestione della società. Il nuovo tecnico non è legato dalle catene del pregiudizio, ma il suo arrivo non è accompagnato da particolari illusioni. Trova una squadra che ha fallito tutti gli obiettivi, che ha chiuso il campionato al decimo posto e non ha staccato alcun biglietto per l’Europa. Un Milan fuori dal giro, insomma. Da rifondare. Ma prima bisogna rimettere insieme i cocci: dicono che entrare nello spogliatoio rossonero sia una specie di esame. Come passare sotto le Forche Caudine. Bella accoglienza, non c’è che dire.

Sulla panchina del Milan uno scudetto alla prima stagione

Il pragmatico Zac non si perde d’animo. Parte dal presupposto che la sua dovrà essere un’operazione complessa e non necessariamente veloce. Del resto ha avuto assicurazioni in questo senso, potrà lavorare a un programma a medio-lunga scadenza. La situazione che preferisce. Niente proclami, dunque, nè dalla dirigenza nè tantomeno dall’allenatore.

«A questo gruppo spero semplicemente di trasmettere il mio entusiasmo. Che in questo momento è grande». Il primo cosiddetto proclama di Alberto Zaccheroni è di una semplicità disarmante. Ma è chiaro che ha le sue idee in testa, e a Milanello vuole portare un vento di novità. A partire dal modulo. Dopo anni di 4-4-2, a cui l’avevano abituato prima Sacchi e poi Capello, il gruppo rossonero dovrà fare conoscenza col 3-4-3 di Zaccheroni, quello con cui il tecnico romagnolo aveva iniziato a schierare l’Udinese un paio di stagioni prima, trovando una risposta immediata da parte dei giocatori e il cambio di ritmo della squadra friulana.

A Milano trova due giocatori che conoscono bene le sue idee, Helveg e Bierhoff. Li ha voluti Capello, a onor del vero, ma Zac è ben contento di averli con sè nella nuova avventura. Il nodo della questione, a questo punto, è un altro. Convertire il resto della squadra alle idee del nuovo timoniere. Potrebbe essere un’impresa, e Alberto Zaccheroni lo sa bene. Ma figurarsi se si tira indietro.

All’inizio non è semplice, il viaggio è faticoso e il Milan non propone certamente il miglior gioco del campionato. Però viaggia, defilato ma viaggia. Prima all’inseguimento della Fiorentina, dalla sedicesima di campionato in avanti all’inseguimento della Lazio. A due, quattro, cinque punti. Mai davanti. ma nemmeno troppo distante. Una squadra che comunque non molla, neppure quando la squadra di Eriksson sembra aver preso definitivamente il volo. Sono sette i punti di distacco alla ventisettesima, quando si gioca un LazioMilan che finisce a reti inviolate.

Da quel momento in avanti nel gruppo di Zac si accende la famosa lampadina. A Roma, la domenica successiva a San Siro contro il Parma. E soprattutto alla ventinovesima, a Udine. Dove finisce 5-1 per il Milan, dove si sblocca Bierhoff fino a quel momento sepolto da una valanga di critiche, dove Zac gioca la carta Boban proposto nelle vesti di rifinitore alle spalle della coppia d’attacco WeahBierhoff. Rilanciando il croato, trova il guizzo vincente. La Lazio è nel mirino, il Milan non sbaglia più una mossa. Improvvisamente, ci crede.

Credono nel suo calcio quelli della vecchia guardia. che all’inizio, per forza di cose. erano sulla difensiva e lo studiavano. Ci credono quelli che ne avevano condiviso i trionfi di Udine. Ci credono i giovani che. come al solito, da lui hanno avuto un’opportunità. E alcuni di loro, come Abbiati, Sala e Ambrosini, non se la sono lasciati sfuggire. Il sorpasso arriva a una giornata dalla fine. Lo scudetto all’ultima di campionato. Vince la Lazio, in casa contro il Parma. Ma vince anche il Milan a Perugia. È gloria, finalmente. La squadra di Zac, che ha girato a fari spenti per quasi tutta la stagione, è campione d’Italia.

Per Zaccheroni è sicuramente il momento più alto della sua carriera. Otterrà naturalmente la seconda Panchina d’Oro consecutiva e l’Oscar del Calcio AIC come Miglior Allenatore, oltre all’amicizia e alla gratitudine eterna della dirigenza del Milan, che ancora oggi lo ringrazia.

In rossonero assieme a Galliani e Paolo Maldini

Nella stagione successiva arrivano in rossonero Gattuso, Serginho, Chamot, De Ascentis e Shevchenko. In campionato i rossoneri arrivano ad un onorevole terzo posto ma la delusione arriva dalla Champions League dove i rossoneri non riescono a superare nemmeno il girone qualificandosi all’ultimo posto. Unica soddisfazione stagionale è la vittoria della classifica cannonieri con Shevchenko, ventiquattro reti al primo anno in Italia.

Ma ormai il rapporto tra il Zac e il Milan sta vacillando. Il terzo anno porta ad un’ulteriore eliminazione in Champions League ed inevitabile arriva l’esonero del tecnico romagnolo, che viene sostituito dal duo Cesare MaldiniMauro Tassotti a due mesi dal termine della stagione 2000/01. Celebre resterà una dichiarazione di Berlusconi che ne suggella l’esonero: «Mi viene in mente un personaggio della mia giovinezza, che si chiamava Lizzola. Era un bravissimo sarto, e aveva per motto, a proposito della buona stoffa: attenzione a che sarto la dai…».

Insomma, all’improvviso la stoffa è “troppo buona” per il sarto Zaccheroni, che deve ripartire, subentrando a Sven Goran Eriksson, nel settembre 2001 dalla Lazio. A fine campionato arriverà sesto, anche grazie all’ormai mitologico epilogo del 5 maggio con la vittoria contro l’Inter di Hector Cuper che consegna di fatto lo Scudetto alla Juventus di Marcello Lippi.

L’anno successivo, è protagonista dell’ennesimo subentro della sua carriera coronando un sogno personale: viene chiamato nell’ottobre del 2003 proprio dall’Inter (sua squadra del cuore da bambino) di Massimo Moratti per sostituire Cuper dopo 7 giornate. All’avvio, Zaccheroni ottiene 7 vittorie su 8 partite giocate. Conquista un posto in Champions League per la stagione successiva ma, a fine stagione, non viene confermato perchè il patròn nerazzurro gli preferisce Roberto Mancini.

Il colpo è duro da digerire per Zac, che trova però il coraggio di ripartire ancora una volta. Nel settembre del 2006, a pochi giorni dall’inizio del campionato, viene infatti ingaggiato come allenatore dal presidente Urbano Cairo nell’anno del centenario della squadra granata e assume l’incarico con una squadra in crisi, riuscendo inizialmente ad ottenere buoni risultati e a porre rimedio alla situazione. Ma dopo una lunga e inspiegabile serie di sconfitte consecutive a inizio 2007, il 26 febbraio viene esonerato e sostituito con Gianni De Biasi.

«Arrivai il giovedì con il campionato che iniziava la domenica. L’avvio fu stentato, ma poi risalimmo fino all’ottavo posto prima della pausa. In sede di mercato avremmo dovuto fare di più, invece non lo facemmo e inanellammo sei sconfitte di fila. E io sono andato a casa, come succede nel calcio».

Poche soddisfazioni sulla panchina della Juventus

Lo stop con il Torino costa caro al Zac che resta fermo per tutta la stagione 2008/09. A gennaio 2010 arriva un altro subentro: a volerlo è la Juventus, costretta ad esonerare Ciro Ferrara reduce da un’incredibile serie di sconfitte. Il settimo posto finale ed un’inopinata eliminazione in Europa League (4-1 da Fulham dopo la vittoria a Torino per 3-1) costano il rinnovo sulla panchina della Vecchia Signora confermando la parabola discendente di Zaccheroni ormai da troppe stagioni senza il “magic touch” degli anni d’oro con Udinese e Milan.

«Alla Juve mi sono trovato in grande sintonia con la squadra, ma purtroppo ho ereditato un organico decimato e tale ha continuato ad essere anche dopo: non abbiamo mai avuto meno di tredici indisponibili. Tant’è vero che a parte le ultime due partite di campionato non siamo mai andati sotto nel primo tempo, crollavamo alla distanza. Poi è cambiata la proprietà e io sono andato via».

Ma per i temerari il futuro riserva sempre sorprese. A Zaccheroni fino ad ora è mandata solo un’esperienza con una Nazionale. E la chiamata arriverà addirittura da Tokyo, diecimila chilometri ad est da Cesenatico. Il Giappone crede in Zac che da agosto 2010 prende in mano le redini della Nazionale del Sol Levante. Le prime amichevoli danno risultati lusinghieri (anche un 1-0 all’Argentina) e la corsa alla Coppa d’Asia del 2011 lo vede salire sul podio battendo in finale l’Australia per 1-0, risultato che gli varrà un udienza presso l’imperatore nipponico Akihito. Lo splendido quadriennio con il Giappone si concluderà in Brasile ai Mondiali 2014 con gli asiatici eliminiati al primo turno.

Zaccheroni assieme al capitano del Giappone Makoto Hasebe solleva la Coppa d’Asia 2011

«Se posso definire quella di Udine l’esperienza più gratificante, qui dico la più affascinante. Tra noi e il Giappone ci sono gli stessi diecimila chilometri che ci separano geograficamente. Siamo molto diversi, però mi piace dire che messi insieme saremmo il più bel paese del mondo. È stata un’esperienza di vita incredibile e anche sul piano sportivo mi ha gratificato tanto. Ho trovato giocatori molto interessanti e decisamente più avanti di quanto pensassi. Gli manca solamente la storia per aumentare la propria autostima, ma ci sono tanti buoni calciatori».

Le ultime esperienze di una carriera esaltante, che lo hanno portato dai bassifondi della provincia italiana alla corte dell’Imperatore del Giappone, lo vedono in Cina alla guida del Beijing Guoan per quattro mesi prima di essere frettolosamente esonerato, e poche settimane con la Nazionale degli Emirati Arabi Uniti a cavallo tra il 2017 e il 2019.