Gustavo Giagnoni – intervista novembre 1975

  • Intervista tratta dal Guerin Sportivo – novembre 1975

Rivera l’ha messo alla porta e lui approfitta dello stipendio che gli passa il Milan per andare all’estero e imparare. Dicono che deve farsi una cultura in attesa di prendere le redini della Nazionale. Può darsi, per ora è stato in Olanda, in Germania, poi andrà in Inghilterra e — in primavera — anche in Russia

di Elio Domeniconi

MILANO – Gustavo Giagnoni diventerà professore di calcio. E per imparare, viaggia in Europa. Persino in URSS. Come dire, l’importante è documentarsi.
«Se i russi accetteranno di mostrarmi qualcosa… all’Est sono molto gelosi dei loro segreti. Quand’ ero al Torino mandai Cancian a studiare una squadra avversaria e lo pregai di fermarsi una settimana per vedere anche gli allenamenti. Rimase una settimana ma vide solo i monumenti».

— Perché?
«Perché gli dicevano che si allenavano nel posto tale e poi trovava solo due giocatori, un’altra volta gliene facevano trovare tre. Non li ha mai potuti trovare tutti assieme».

— Lei in questi viaggi all’estero cosa ha imparato?
«Che gli altri lavorano molto più di noi. E noi allenatori dobbiamo insistere in questa direzione. In Italia si fanno al massimo cinque allenamenti. In Olanda ne fanno nove e in Polonia arrivano a dodici».

— I nostri giocatori sono battifiacca…
«Ma è colpa anche della stampa. A Torino ero riuscito a far capire ai giocatori che dovevano lavorare di più. Ma quante volte ho dovuto leggere che li facevo lavorare troppo. E almeno i giornalisti venissero a vedere la preparazione».

— Ce l’ha con i giornalisti?
«Il mio è un discorso generale, ma voglio far capire che anche la stampa ha le sue responsabilità. Mi sta bene che un giornalista venga a vedere gli allenamenti e poi mi critichi. Ma non accetto che mi critichi senza aver seguito la preparazione».

— Altafini ha detto che in Olanda corrono molto perché hanno freddo.
«Ed è vero che è più facile allenarsi ad Amsterdam che a Napoli. Però Altafini sa benissimo che in Brasile si allenano più ancora che in Olanda».

— Dice davvero?
«Certo. E’ un favola che i brasiliani trascurano la preparazione atletica, i brasiliani mantengono la loro caratteristica di gioco come è giusto, ma sono all’avanguardia sia come lavoro di équipe (a fianco dell’allenatore c’è sempre il medico e anche lo psicologo) sia come allenamento vero e proprio. La loro preparazione atletica è sempre perfetta e certi schemi vengono ripetuti in continuazione».

— Quello che si fa in Olanda.
«Appunto. In Olanda nei tre giorni base della preparazione, cioè mercoledì, giovedì e venerdì, vanno sul campo due volte al giorno, proprio per creare questi schemi e per migliorare la tecnica individuale. Da noi la tecnica individuale viene trascurata e non ci si rende conto che per arrivare all’automatismo di certi schemi, bisogna ripeterli in continuazione. Da noi ci si stufa a ripetere sempre le stesse cose».

— Il calcio totale degli olandesi è un po’ il famigerato “movimiento” di Heriberto.
«Ed Heriberto quante difficoltà ha incontrato in Italia. Adesso per lavorare è stato costretto ad andare alle Canarie. Lui era serio e voleva lavorare. Ma se prendeva qualche provvedimento nei confronti di chi non era serio e non voleva lavorare il provvedimento si ritorceva contro di lui. Diventava il cerbero, il torturatore. Noi ci riteniamo seri, ma spesso diamo l’impressione di non esserlo».

— Cosa dobbiamo fare per migliorare?
«Imparare qualcosa dagli altri, all’estero. Pigliamo l’Everton. Hanno ricevuto qualche critica perché hanno perso. Ma sarebbero stati sicuramente criticati di più se avessero vinto rinunciando al gioco. Mio figlio Ilio mi faceva notare che avevano fatto più gioco loro ed è vero, però il turno l’abbiamo superato noi. Là ci siamo difesi, qui li abbiamo fatti scoprire per infilzarli in contropiede».

— E loro ingenuamente sono caduti in trappola.
«No. Erano consci di questo rischio, ma l’hanno corso volutamente. Perché loro vogliono migliorare attraverso il gioco, cercano di imporre il loro gioco. E’ una caratteristica della loro mentalità, quindi del loro gioco. Gliel’ho detto: loro vengono criticati di più se si chiudono in difesa che se perdono. Da noi succede il contrario».

— Noi allora cosa dobbiamo fare?
« Non dobbiamo scimmiottare gli altri, prima di tutto. Sarebbe assurdo fare quello che fanno gli olandesi o i polacchi. Noi abbiamo l’estro dei latini, dobbiamo sfruttarlo».

— E nel suo viaggio in Olanda cosa ha imparato?
«Che l’allenamento non deve essere solo sforzo fisico. Che i loro terzini sono completi perché gli si insegna anche a fare gli attaccanti. Che occorre curare di più gli schemi. Noi latini siamo poco inclini all’automatismo, ma la loro tattica del fuori gioco è frutto di questi esercizi ripetuti sino all’ossessione. Anche all’intercambiabilità dei ruoli si arriva solo con l’esercizio. Noi, per anni, ai terzini abbiamo insegnato a fare solo i terzini. Il compito dei nostri difensori era solo quello di annullare l’avversario. Questo nel calcio moderno non è più possibile. E, si badi bene, non ce l’hanno insegnato solo adesso gli olandesi, l’avevamo già visto fare ai brasiliani. I terzini del Brasile si difendono a zona, ma sanno inserirsi anche nelle manovre dell’attacco».

— Il livello del calcio olandese com’è?
«Mi avevano detto che in Olanda c’è solo l’Ajax, ma non è vero. Il livello medio è eccellente. Oltre all’Ajax, il Twente, il Feyenoord, l’Eindhoven, sono autentici squadroni».

— Che impressione ha ricavato dal pubblico?
« Il pubblico partecipa ma si mantiene calmo ed è obbiettivo. Non si limita a criticare l’allenatore. Ho visto l’Ajax a Utrecht vicino a uno studente. Nel mio pessimo inglese gli ho chiesto un giudizio su Michels. E lui mi ha risposto: very good trainer, allenatore molto buono. Da noi invece gli allenatori sono considerati tutti teste di cavolo».

— E Rinus Michels cosa le ha detto?
«Mi ha detto di ricordarmi che: trainer is trainer. L’allenatore è l’allenatore. Cioè l’allenatore sta sopra a tutti, con la sua autorità».

— In Italia invece certi giocatori…
«Sono stato tante volte in Inghilterra e ho detto al mio amico Gigi Peronace che tornerò presto. Là ci sono degli allenatori che durano dieci anni, trent’anni come il presidente. All’estero un “golpe” come quello del Milan è inconcepibile. E l’allenatore viene giudicato per come lavora, non per i risultati immediati. In Inghilterra, come anche in Olanda, l’allenatore è sacro. Da noi ci lamentiamo del governo, perché rappresenta la autorità. Da loro l’autorità è sacra. Quindi è sacro anche l’allenatore che rappresenta l’autorità calcistica».

— E’ vero che in Olanda i calciatori hanno la massima libertà sessuale?
«Si tratta di favole messe in giro perché in occasione dei mondiali mogli e fidanzate andarono a trovare i mariti e i fidanzati che erano in Germania. Ma quante volte quando ero a Torino venivano le mogli a salutare i mariti in ritiro? Non le ho mai mandate via. Anche in Olanda, quando il marito calciatore è in ritiro, mica vanno a letto assieme».

— I medici sostengono che il ritiro dopo la partita serve di più di quello che la precede.
«Dal punto di vista medico, che si preoccupa solo del fisico. Ma io il ritiro della vigilia lo faccio per preparare la gara, per concentrare i giocatori. Dopo mi fido del loro senso di responsabilità. E devo dire che il miglioramento della categoria è notevole, oggi i giocatori hanno quasi tutti una mentalità da professionisti. Eppoi a poco a poco certe inibizioni le perdiamo anche noi. Se uno gioca male, non diamo più la colpa alla vita sregolata. Non diciamo più: è andato a donne di facili costumi».

— Osservando la Polonia cosa ha imparato?
«Che anche la Polonia gioca all’italiana. Ma tutti i paesi dell’Est hanno copiato l’Italia. All’Est si vedono catenacci giganti e il catenaccio si sa, è una manifestazione di inferiorità. Dieci anni fa la Polonia era considerata una squadra materasso. Ora ha vinto le Olimpiadi ed è arrivata terza a Monaco».

— Però, poi, la Polonia è arrivata terza ai Mondiali, mentre noi in Coppa Europa abbiamo battuto solo la Finlandia e una volta soltanto e pure su rigore.
«Ma la Polonia è venuta a Roma e non ha vinto, siamo andati là e abbiamo pareggiato. A Roma la Polonia non ha vinto non per il caldo ma perché non ha potuto sfruttare il contropiede. Siamo stati guardinghi noi e per non scoprirsi sono stati guardinghi anche loro così è finita zero a zero».

— Però hanno vinto quattro a uno con l’Olanda…
«Perché l’Olanda ha commesso strane ingenuità in difesa. Ma nella prima mezz’ora anche in Polonia era sembrata superiore l’Olanda. Ad Amsterdam, l’Olanda si è scatenata e i polacchi sono stati travolti. Secondo me sono anche ingenui, perché noi dopo un quattro a uno, non saremmo andati a beccare tre gol».

— Quindi lei come Nereo Rocco è entusiasta del gioco all’italiana.
«Io dico solo questo: dobbiamo giocare come sappiamo. Non possiamo giocare come gli olandesi o come i polacchi perché non siamo né olandesi né polacchi. Cioè, a mio avviso, il gioco all’italiana non va modificato, va solo perfezionato. Lo si è visto anche in Nazionale. Il dottor Bernardini, dopo tanti tentativi, ha riscoperto il nostro gioco».

Settembre 1975: Giagnoni lascia il Milan

— A proposito della Nazionale, qual è il suo pensiero?
«Io dico che Bernardini e Bearzot possono fare ben poco. Hanno i giocatori a disposizione solo ogni tanto, cosa possono fare? Dobbiamo essere noi allenatori di club ad aiutare i tecnici della Nazionale, migliorando il livello delle squadre e anche cambiando la mentalità. Una sconfitta non è una tragedia».

— Non lo è all’estero.
«Perché all’estero la partita di calcio rappresenta solo un avvenimento sportivo, uno spettacolo. Da noi dietro una partita di calcio ci sono tanti interessi, anche politici e questo rende più difficile il compito di tutti. Ma la Nazionale deve costituire una squadra sopra la squadra, questo è lo spirito. E chi è alla guida di questa supersquadra deve limitarsi a scegliere i migliori. Però è dovere di tutti contribuire a migliorare il livello dei clubs»

— In che modo?
«Per prima cosa facendo lavorare di più i giocatori durante la settimana. L’anno scorso rividi Schnellinger, eppure è tedesco e i tedeschi conoscono il raziocinio del lavoro, ma mi disse: quelli sono matti, fanno due allenamenti al giorno. Venendo in Italia s’era guastato la mentalità pure lui. Da noi c’è ancora chi pensa che se si lavora troppo durante la settimana non restano energie per la domenica, invece è vero esattamente il contrario».

— E per cambiare la mentalità cosa dobbiamo fare?
«Io, tanto per cominciare, andrei a fare la preparazione all’estero. Da noi si inizia troppo tardi, per questo al primo turno ci troviamo male nelle Coppe. In Spagna fanno dei grossi tornei, sono rappresentate tutte le principali nazioni meno una: l’Italia. Il nostro periodo di ferie dovrebbe essere dal 15 giugno al 15 luglio».

— Poi tutti all’estero, proponeva.
«Io ci sono andato con il Torino approfittando anche di due partite di Coppa e ci siamo trovati benissimo. Perché in Inghilterra si pratica veramente il calcio atletico. Quando siamo tornati in Italia, abituati a certi scontri, ci sembrava di volare. Quell’anno col Torino siamo arrivati a un punto dallo scudetto e non si è trattato certo di un caso».

— Avrebbe voluto ripetere l’esperimento con il Milan?
«Ma Buticchi mi disse che non era il caso, dato il difficile momento dell’Italia. Ci avrebbero accusato di portare valuta italiana all’estero, anche se invece saremmo ritornati in patria con un po’ di sterline».

— E’ vero che all’estero c’è da imparare anche dagli arbitri?
«All’estero gli arbitri interrompono il gioco solo raramente. Così i giocatori dopo uno scontro, non possono fare i piangina e invocare subito l’intervento del massaggiatore, devono alzarsi da soli. La preparazione all’estero offre tanti vantaggi, sono esperienze interessanti. Le partite amichevoli con squadre di quarta serie non servono a nulla».

— Il torneo angloitaliano è stato un fallimento.
«Perché veniva effettuato a fine stagione, quando ormai il pubblico è stanco. Perché venivano invitate anche squadre di secondo piano e perché si trattava di squadre di una sola nazione. Ai tornei che dico io dovrebbero invece partecipare squadre di diverse nazioni. Tornei del genere rappresentano un’esperienza interessante e servirebbero pure a cambiare mentalità. Il risultato di questi tornei non conta, anche se si perde non è la fine del mondo. Quindi ci servirebbero per cominciare a cambiare mentalità e a risolvere i nostri problemi».

— E quali sono, secondo lei, i nostri problemi?
«I nostri problemi nascono da dietro. I nostri difensori sono bravissimi nel difendere, ma limitano il loro sforzo alla marcatura dell’avversario. Bisogna prendere esempio dal Brasile e dall’Olanda, due squadre che sono state e che sono alla avanguardia. I loro difensori non formano un reparto a se, partecipano alla manovra, sanno inserirsi all’attacco. Quando arriveremo anche noi all’intercambiabilità dei ruoli saremo sulla buona strada».

— Ma per arrivarci cosa dobbiamo fare?
«L’ho imparato in Olanda, ma in fondo è il segreto di Pulcinella: bisogna lavorare di più».

Elio Domeniconi