La Leva Calcistica del ’68: quando il calcio era poesia

La canzone di De Gregori rappresenta uno dei vertici del cantautorato italiano, capace di fondere sport, esistenza e poesia in un capolavoro che continua a emozionare a distanza di oltre quarant’anni dalla sua creazione.

Era l’estate dei Mondiali di Spagna, quella del 1982. L’Italia di Bearzot e Pertini si preparava a scrivere una delle pagine più belle del nostro calcio, mentre nei negozi di dischi arrivava “Titanic“, l’ottavo album di Francesco De Gregori. Tra le tracce di quel disco c’era una canzone destinata a diventare leggenda: “La Leva calcistica della classe ’68“.

In quell’Italia che scopriva la magia di Paolo Rossi e si commuoveva per un Presidente della Repubblica che urlava di gioia in tribuna, De Gregori raccontava una storia apparentemente semplice: quella di un ragazzino di dodici anni alle prese con un provino di calcio. Ma come sempre accade con il Principe, dietro la semplicità si nascondeva un universo.

Il disco usciva a giugno, poche settimane prima che Antonio Cabrini – proprio lui, Nino – sbagliasse quel rigore nella finale contro la Germania.

Il campo di terra e polvere

“Sole sul tetto dei palazzi in costruzione
sole che batte sul campo di pallone
e terra e polvere che tira vento e poi magari piove”

L’ambientazione che sceglie De Gregori è lontana anni luce dai centri sportivi di oggi, dalle accademie tecnologiche, dai campi perfetti come biliardi.

È l’Italia del boom economico che sta tramontando, quella dei quartieri in costruzione e dei campetti polverosi. Non c’è l’erba inglese, non ci sono le tribune coperte, non ci sono le telecamere. C’è solo il sole che batte forte, la polvere che si alza a ogni scatto, il vento che può cambiare la traiettoria del pallone e la pioggia che può rovinare tutto in un attimo.

Era il calcio genuino, quello dove il talento doveva fare i conti con le buche del campo, dove la tecnica si forgiava sull’irregolarità del terreno di gioco. Un calcio che insegnava ad adattarsi, a inventare, a sognare nonostante tutto. O forse proprio per questo.

Nino e le scarpette di gomma dura

“Nino cammina che sembra un uomo
con le scarpette di gomma dura
dodici anni e il cuore pieno di paura”

Con questi versi, De Gregori ci introduce al protagonista della sua storia, un bambino che rappresenta migliaia di ragazzini italiani di ogni epoca.

Quelle “scarpette di gomma dura” raccontano più di mille discorsi sociologici. Erano i tempi in cui non tutti potevano permettersi le scarpe da calcio vere, quando i sogni si inseguivano anche con le Superga comprate al mercato. Nino non è il figlio del dirigente o del calciatore famoso: è uno di noi, uno qualunque, con la sua paura e la sua speranza.

Ma c’è qualcosa di magico in quel “cammina che sembra un uomo“. In quei dodici anni che portano il peso di aspettative enormi, nel contrasto tra l’apparente sicurezza e il “cuore pieno di paura“. De Gregori cattura l’essenza di ogni ragazzino che ha mai sognato la maglia numero sette, che ha mai creduto che il calcio potesse cambiare la vita.

Il rigore che non devi sbagliare

Il cuore della canzone pulsa nel ritornello:

“Ma Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore
non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore
un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia”.

Qui De Gregori tocca l’anima del calcio e della vita. Il rigore diventa metafora del momento cruciale, dell’attimo che può cambiare tutto. Ma il messaggio è rivoluzionario: non è dal risultato che si giudica un uomo, ma dai valori che porta dentro di sé.

Coraggio, altruismo, fantasia. Tre parole che risuonano come un manifesto etico. Il coraggio di provarci sempre, anche quando le gambe tremano. L’altruismo di pensare prima alla squadra che a se stessi. La fantasia di vedere soluzioni dove altri vedono solo problemi.

Era il calcio di Gianni Rivera e Sandro Mazzola, sarebbe stato quello di Roberto Baggio e Francesco Totti. Un calcio dove la classe non è solo tecnica, ma anche morale. Dove si può essere campioni anche sbagliando un rigore, purché lo si facesse con lo stile giusto.

La maglia numero sette

“E allora mise il cuore dentro alle scarpe e corse veloce più del vento
Prese un pallone che sembrava stregato
Accanto al piede rimaneva incollato
Entrò nell’area, tirò senza guardare
Ed il portiere lo fece passare”

Il finale della storia è un trionfo, ma non quello che ci si aspetterebbe. Nino conquista la maglia, ma la vera vittoria è aver superato la paura, aver trovato il coraggio di essere se stesso.

La maglia numero sette era quella dei fantasisti, dei giocatori che inventavano il calcio giocando. Era il numero di chi vedeva passaggi impossibili e tentava dribbling che sfidavano le leggi della fisica.

Ma De Gregori sa che per ogni Nino che ce la fa, ce ne sono centinaia che rimangono indietro. E li ricorda con una delle strofe più toccanti della canzone italiana:

“E chissà quanti ne hai visti e quanti ne vedrai
di giocatori tristi che non hanno vinto mai
e hanno appeso le scarpe a qualche tipo di muro
e adesso ridono dentro a un bar”.

Non è crudeltà, è realtà. È il destino di chi ha sognato in grande ma non ha avuto fortuna, talento o semplicemente l’occasione giusta. Ma anche loro, ci dice De Gregori, mantengono una loro dignità, una loro bellezza malinconica.

Il calcio che era

Quando ascoltiamo oggi “La Leva calcistica del ’68“, non possiamo fare a meno di pensare a quanto sia cambiato il mondo del pallone. I ragazzini di dodici anni non camminano più sui campi di terra e polvere con le scarpette di gomma dura. Frequentano accademie, hanno preparatori atletici, mental coach, agenti già da bambini.

Il calcio si è professionalizzato, tecnologizzato, globalizzato. Ha guadagnato in spettacolo ma forse ha perso qualcosa per strada: quella semplicità genuina, quel rapporto diretto tra il sogno e la realtà, quella dimensione umana che De Gregori ha saputo catturare per sempre.

La canzone è diventata, nel tempo, molto più di un brano musicale. È il monumento a un’epoca, il ritratto di un’Italia che non c’è più, la celebrazione di valori che resistono al tempo. Ogni volta che la ascoltiamo, torniamo bambini anche noi, con le nostre scarpette di gomma dura e il cuore pieno di paura e di speranza.

Ma Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore. Queste parole echeggiano ancora, dopo quarant’anni, come un inno alla bellezza del tentare, del provarci, del metterci il cuore. Sempre.