Ritratto inedito di un goleador di provincia dal piedino di fata, che va alla scoperta della grande ribalta, sognando Napoli come Cenerentola sognava il ballo di mezzanotte
Un pò poeta, un pò pirata
CATANZARO. Adesso sogna Napoli come Cenerentola il ballo di mezzanotte. I calabresi arrabbiati mobilitati delusi finiranno per capire: Massimo Palanca ha chiuso un ciclo di sette anni col calcio dei poveri, ma non dimenticherà mai i 69 gol realizzati, i quattro campionati di A e i tre di B vissuti come «O Rey» di Catanzaro, i profumi di zagara, l’ombra del carcere sullo sfondo dello stadio delle domeniche felici, le suggestioni di certe mattine davanti al mar Jonio. E’ passato tutto in fretta, deve andare.
Gli pare ieri quando arrivò minuto e incurvato come una virgola e con quei baffi da pirata per dire che lo prendessero in considerazione, che non avessero paura, che non dessero troppa importanza al fisico da inappetente, alla sua faccia patibolare da calciatore di periferia mai cresciuto abbastanza per dispetto del destino. Gli pare ieri ma deve andare: le prospettive del futuro combattono i ricordi del passato: le reti alla Mortensen direttamente su calcio d’angolo, le rovesciate acrobatiche col pallone che s’infila sotto la traversa, le finezze da artista della palla un po’ poeta e un po’ visionario, le scintille d’estro d’uno che non vuol diventare numero, che non vuol farsi irreggimentare, che non vuole essere dimenticato, anche se è costretto avvolgere la carriera in un posto considerato troppo spesso da quelli del football milionario il «penitenziario senza ritorno»: vero niente.
Massimo Palanca riemerge ogni domenica e ogni giorno calza meglio la sua città con piedi da ballerina, con le sue scarpette N. 38 di cui troppo si è vergognato in passato confrontandole ai «piedoni» dei Maciste dell’area di rigore.
LA RIVELAZIONE. Arriveranno a chiamarlo «piede di fata», l’eco delle sue bravate giungerà puntualmente, con frequenza, dal profondo Sud o da qualche città visitata in trasferta, sempre con l’acqua alla gola, sempre con l’obbligo di dover allontanare coi fatti il sospetto che sia la stagione della retrocessione. Palanca chi sei?
Quante volte gli abbiamo ripetuto la domanda, abbagliati da qualche improvvisa prodezza da fauno… La rammentiamo eversore di Roma e Lazio, pronto a trafiggere con implacabile puntualità, come l’ultimo re barbaro. E lui timido, scontroso, non poteva altro che scuotere la testa come una vecchia sveglia e strizzarsi i baffi.
«Sono un povero diavolo – ripeteva – vivo alla giornata, penso all’oggi, il domani non m’interessa. Io sono in provincia, io sono lontano mille chilometri dai grandi centri. Io sono quello che sono e gli anni passano. Ma ho una moglie e un figlio che mi fanno sentire importante. E la sera, quando me ne vado a casa, Catanzaro diventa Parigi, Roma, New York. Sarò un po’ matto ma è così. Con Rosanna e Marco vicini non chiedo altro».
«Chissà, non ipotechiamo il futuro. Intanto permettetemi di conoscerlo, di ambientarmi nella grande società, di avere il riscontro del grande pubblico, pensavo proprio che fosse tardi. Io ho sempre avuto il presentimento di non poter andar molto lontano col pallone. E ho badato soprattutto ad accontentarmi… Ho giocato tre anni nei dilettanti del Camerino ed uno in serie C col Frosinone, prima dell’avventura lunga a Catanzaro. Segnavo gol a grappoli ma nessuno se ne accorgeva. Erano i gol del solito ignoto…».
Ecco: dietro ad un miliardo e trecento milioni (più la comproprietà del giovane Cascione) necessari per averlo nella città del golfo, c’è una storia strana, la storia d’un ragazzo fil di ferro, che però non ha il fisico del ruolo, che però inganna maledettamente tutti gli osservatori che nel tempo io provavo e magari vorrebbero strapparlo alla sua sorte di «anonimo» di Loreto. Sì, Massimo Palanca, nasce proprio nel paese della Madonna, visto che a Porto Recanati non c’è ospedale e non si può partorire. Cresce un giorno sì e l’altro no, scherzano gli amici. Cresce comunque in qualche modo e si porta dietro una vaga tristezza da «sabato del villaggio»; il padre custode dello stadio di Recanati e ha altri sette figli.
«Forse voleva fare una squadra di calcio – sorriderà più tardi Massimo, precisando i particolari inediti della sua biografia – oppure si fidava ciecamente della provvidenza. Al dunque però la pagnotta era dura, e non bastava mai. Meno male che io mi nutrivo pure mangiando palloni e respirando calcio. Per studiare sfruttai una combinazione che mi offriva il presidente del Camerino: gratis vitto e alloggio purché giocassi da mezz’ala senza chiedere altro nella sua squadra. Ero leggerino, ma col dribbling e la visione del gioco mi difendevo. Sono insomma diventato calciatore per motivi di studio, perché volevo diventare geometra e assicurarmi il posto fisso. D’estate guadagnavo qualche soldo da bagnino. Ina vita così, senza pensarci troppo alla solita favola del pallone che può arricchire i poveri. Ci pensava invece mio fratello più grande e non ha avuto fortuna. Ha girovagato nelle Marche senza mai trovare grosse soddisfazioni. Io invece piano piano sono venuto avanti, mi sono fatto sempre più rispettare. Forse devo tutto al mio spirito d’osservazione. Da piccolo, appoggiato alle reti di recinzione guardavo i più grandi e immagazzinavo i fondamentali, i piccoli segreti, i loro metodi di tiro in porta…».
I RIFIUTI. Roma e Lazio l’ebbero a due passi, a Frosinone. Era il 1973, Massimo andò ai provini senza particolare emozione, precisa che si comportò così così, lo scartarono. «Penso fosse sempre colpa delle mie spallucce, del fisico da impiegato, della mia timidezza…».
Lo scartò anche il Napoli due volte: Janich nel 1973, Sormani nel 1977. «Questo qui – disse un dirigente napoletano d’allora – può sfondare giusto nel tiro con l’arco. Ma dove può andare così ingobbito: se tira vento deve mettersi i pesi in tasca per non volare via».
Il rosario dei cattivi giudizi che lo hanno riguardato è stato interminabile. Serviva qualcuno che non si facesse suggestionare da quelle ossa, da quella magrezza, da quei pochi muscoli, da quella faccia tutta barba e baffi.
Fu Nicola Ceravolo, l’ex presidente del Catanzaro, il «salvatore». Palanca aveva spopolato nel Frosinone e costò al Catanzaro 100 milioni» venti in più di quanti ne offriva la Reggina senza convinzione.
Col suo umorismo proprio Ceravolo disse: «Non credo d’aver sbagliato e comunque sia Palanca va proprio bene per il Sud povero e depresso. Ha la povertà dipinta in faccia. Per me, scherzi a parte, diventerà un simbolo…».
Alle diffidenze, Massimo oppose subito reti tutte da premiare. Si spiegava: «Mi riesce meglio il difficile del facile, non sono però un esibizionista. Io sono un povero diavolo, uno che vuole soltanto vivere senza preoccupazioni con la propria famiglia. E a Catanzaro specialmente d’estate mi trovo a meraviglia. Ho il mare in casa e la villeggiatura gratis. Vi pare poco?».
IL DESTINO di un uomo è il suo carattere. Ma il destino d’un uomo dipende pure dalla fantasia, dai suoi estri, dal sangue che si porta dentro, dai brividi che riesce a trasmettere. In tal senso Palanca, con quei gol tutti da premiare, diventa il Gigi Riva di Catanzaro. Le signore cominciano ad andare alle partite, lo eleggono a loro idolo, lo festeggiano e ìo coccolano ai ricevimenti. Segna di sinistro, di destro, in acrobazia, d’astuzia. Proprio gol per signora, li definisce un immaginifico osservatore.
Di Marzio e Mazzone contribuiscono ad irrobustirlo un po’, a dargli un minimo di peso atletico. «Sono gli allenatori che mi hanno condotto per mano alla maturità – spiega – e forse a loro devo l’occasione in extremis che mi è capitata. Vorrei almeno segnare, con la maglia del Napoli tutti quei gol che sono mancati al signor Marchesi per vincere l’ultimo campionato». Il ragazzo pelle ed ossa, coi baffi alla tartara, esce finalmente dalla prigione degli antichi affetti. La Calabria gli ha dato materna protezione, ma ormai l’addio è inevitabile. Col suo plantare nella scarpa destra – vecchio rimedio escogitato per ovviare all’arco del piede d’appoggio troppo accentuato – e con i «suoi gol per signora N. 38», il condottiero dei poveri passa giustamente a nuova vita. L’ira di Catanzaro non s’è placata e si capisce… Chi sostituirà il vice-Pruzzo del 1980-81? Chi garantirà quei 13 gol indimenticabili del l’ultimo campionato?