Pasolini: «Distruggo il mondo, salvo lo sport»

Tratta dal Guerin Sportivo del luglio 1975, un’intervista del poeta Ennio Cavalli a Pier Paolo Pasolini. «Gli sportivi sono poco colti e gli uomini colti poco sportivi»

  • Intervista di Ennio Cavalli

ROMA – L’incontro con Pasolini inizia da sua madre: gentilastuta, dolcesuadente come lui. Dalla voce «telefonica» della signora Susanna, la cronologia della mattinata dello scrittore («è tornato stanotte, ma riposa, chiami tra mezz’ora»; «sta facendo la doccia, provi tra un po’»), fino a condolersi dell’errata scansione dei tempi («è uscito proprio ora… ma le do il suo numero segreto, ha la penna?»).

Infatti, eccolo. Il suo «perché no?» alla richiesta di un’intervista sportiva dimostra che non erano tattiche elusioni, ma scarti anguilleschi del Vip. Trova subito un buco nel pomeriggio. Per salire in casa di Pier Paolo, all’Eur, si parcheggia vicino alla Basilica di Pietro e Paolo: quasi un «introibo» nominale che, all’autore del Vangelo secondo Matteo, non può essere sfuggito.

In casa ha i muratori: «Non saprei dove farla sedere. Vogliamo andare in macchina?». Scendiamo ed i bambini che schiamazzano in cortile gli dicono «ciao» e lanciano il pallone. Risponde di testa e distribuisce carezze. Su un’Alfa 2000 coupé guadagniamo un viale alberato. Tra un po’ deve tornare alla PEA (Produzioni Europee Associate) per gli ultimi ritocchi al film Salò o le centoventi giornate della città Sodoma. «Sono tetragono a tutto, ma non alle fatiche del montaggio!», e guarda l’orologio, come per dire che comunque sarà puntuale alla lotta. Tra auto sfreccianti espletiamo, diligentemente accostati al marciapiede, questa intervista randagia.

Pasolini con la madre Susanna

Pasolini sportivo e letterato. L’organizzatore di incontri di calcio tra amici, da una parte, quello di meccanismi fantastici dall’altra…

«Mi sembra che la simmetria abbia un lato o un elemento sbagliato: la parola organizzatore. Sono capace di organizzare stilisticamente un film o un romanzo, non una partita di calcio. C’è sempre qualcuno che mi chiama. Io vado soltanto a giocare. Comunque il binomio sussiste: l’arte è gioco ed anche il gioco, in qualche modo, è arte».

All’attacco, come intellettuale. E come calciatore?

«Mezz’ala sinistra. Ma da un po’ di tempo indosso il numero undici, gioco più arretrato».

Chi sono i suoi compagni abituali?

«Milito in diverse squadre. Una è formata da attori e cantanti e l’organizza Romolo Croce, ex allenatore; un’altra fa capo al press-agent Giacomo Ciarlantini. Una terza squadra siamo noi: io, il mio aiuto-regista e qualche attore. La quarta mi attende nel paesino di Chia, dove ho una casa».

Cosa pensa del giornalismo sportivo?

«Quello delle televisione è pessimo. I commentatori delle partite sono veramente spaventevoli. Quello stampato ha alti e bassi. Non c’è dubbio che Brera sa scrivere; anche Ghirelli. Però ci sono i giornalisti del tran-tran. Accetto il gergo come specializzazione tecnica. E’ giusto che ci sia, com’è giusto il gergo degli avvocati, dei medici e così via. Quello falsamente vivace, tipo i commenti sportivi alla televisione (“insaccare in rete”, “spintonamento”…) è invece un casuale ammasso di luoghi comuni».

Sport e cultura: mancanze reciproche. Chi è in maggior difetto?

«Gli sportivi sono poco colti e gli uomini colti poco sportivi. E’ un difetto generale della società italiana. Sono rare, da noi, le persone colte o amanti della cultura e i giocatori non fanno eccezione alla regola. Tra quelli che conosco, Capello e Boninsegna, anche se non leggono molto, sono preparati. La grande carenza culturale da parte dei giocatori e la mancanza di interesse sportivo da parte degli uomini colti si spiega anche col qualunquismo indotto nei tifosi, nelle masse, dalla stampa sportiva. Solo a un certo livello il tecnicismo ha tratti di humour. In questo Brera e quelli della sua scuola si differenziano. Non è che escano dal qualunquismo. Anzi, c’è una tendenza reazionaria in Brera (la sua ammirazione dell’ atletismo in senso quasi razzistico), però è un qualunquismo giustificato dal tecnicismo».

Esistono, secondo lei, grandi scrittori con tematiche sportive? E che doti devono avere? Un esempio: alcuni dei «Quarantanove racconti» di Hemingway hanno per protagonisti fantini, sciatori, pugili.

«Non ci ho mai pensato, ma credo che Hemingway sia un caso più unico che raro. Io ho scritto un solo racconto sportivo, pubblicato e ripubblicato nelle antologie, in tutte le salse. “Reportage su un dio” era un abbozzo di film, più che un racconto: storia di un giornalista sportivo che fa un’inchiesta sul mondo del calcio».

Sulla connotazione ambigua dei giovani d’oggi come “prigionieri del sistema della falsa tolleranza” influisce anche un certo tipo di approccio con lo sport, una certa dipendenza emotiva e psicologica da quel genere di spettacolo?

«Lo sport è diventato un bene di consumo. Si è mercificato, tecnicizzato. I ragazzi non lo vedono più come una cosa lontana, mitica, irraggiungibile. E’ entrato in casa con la televisione. Anche i protagonisti assumono una mentalità tecnicistica, secondo me molto nociva. Soltanto i cento metri o le specializzazioni strette richiedono un tecnicismo assoluto. Il discorso vale per Mennea, per Fiasconaro. Ma chi gioca al calcio o corre in bicicletta deve avere “larghezza di vedute”».

Come vede lo sport futuribile?

«Prima dovrei dire come immagino la società futura. Cosa che mi è impossibile perché non so, non voglio, né posso saperlo».

Durante le riprese di “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, il suo ultimo film

Diciamo allora di quali elementi correderebbe quella presente per renderla più accettabile…

«Bisognerebbe abbinare ad ogni impianto sportivo un analogo impianto culturale. Ma questa è follia, pura utopia. In realtà abolirei tutto ciò che di culturale s’è fatto in Italia negli ultimi dieci anni. Abolirei la televisione. Per una lotta vera e sincera, un intellettuale dovrebbe dire: be’, adesso, per altri dieci anni ne facciamo a meno. Abolirei le tre classi obbligatorie dopo la quinta elementare, perché insegnano solo cretinerie, i codici moralistici della piccola borghesia e basta. Quei tre anni servono a peggiorare antropologicamente l’italiano. Ecco perché aggiungere ad ogni impianto sportivo un istituto culturale, anche se giusto, risulterebbe folle: chi insegna, che libri vi si leggono, come verrebbe gestito? Meglio non pensarci».

Oltre alla televisione e alla scuola dell’obbligo cosa abolirebbe?

«Certe conquiste della cosiddetta permissività, di quella che considero una falsa tolleranza. Tornerei a una severità non voglio dire repressiva, ma impostata sulla buona educazione contro l’eccessiva libertà che viene lasciata ai rapporti tra bambini, per esempio. I genitori dovrebbero rendersi conto che un ragazzino non può essere impegnato con rapporti precoci a tredici-quattordici anni con una ragazza. Lo potrebbe in una diversa società. La libertà sessuale precoce in questo momento, in Italia, non ha nessuna contropartita. Pazienza, per il ragazzo che giochi sempre e solo al calcio. Ma chi gode di libertà sessuale quasi assoluta, senza una visione culturale della vita, diventa nevrotico per ragioni uguali e contrarie alla repressività».

Non ha detto cosa metterebbe al posto della televisione.

«Niente. Sospenderei immediatamente la televisione e basta. Se dipendesse da me, da questo momento la televisione non trasmette più».

Neppure le partite in diretta?

«Sarebbe un grande dolore, lo confesso. Però rinuncerei a quell’unica cosa buona, pur di non vedere più gli atroci lettori del telegiornale, quelle stronze delle annunciatrici, pur di non vedere più caroselli infami, tribune politiche incomprensibili».

E negli altri paesi?

«In paesi più evoluti, come l’Inghilterra, c’è maggiore capacità di respingere, oppure di capire. L’America è magma e caos, che la tivù rispecchia. Sono i paesi in via di sviluppo o semisviluppati come l’Italia e quelli del terzo mondo che dovrebbero stare in guardia. I paesi del terzo mondo che cominciano adesso ad averla, non sanno che trappola si scavano sotto i piedi».

Per che squadra tiene?

«Per il Bologna. Ma il mio primo sport è stato il fioretto. Il calcio lo snobbavo, da principio. Andavo a scuola e alla sera a lezione di fioretto. Poi ho boxato. Verso i quindici anni ho scoperto il calcio. Allora il Bologna era un famoso squadrone, al tempo di Biavati, Sansone, Andreolo e ho cominciato ad amare la squadra della città in cui abitavo».

Adesso che non va tanto bene…

«…persevero nella mia fedeltà con grandi rabbie, dispiaceri, furie. Non posso non tenere per il Bologna. Vado spesso a vederlo allo stadio. Recentemente, dopo una sconfitta subita dal Milan, decisi di far basta. Tra l’altro mi avevano messo in tribuna con una colonna davanti che nascondeva la porta. Ero già indignato per quello. Ma dopo quattro-cinque giorni ho ricominciato a tifare».

La sua biografia di sportivo, insomma, inizia presto e si arricchisce tuttora di dati.

«Ogni settimana faccio le mie partite. L’ultima, molto divertente, l’ho giocata con le vecchie glorie del Genoa contro quelle del Sampdoria. La più bella partita degli ultimi tempi l’ho fatta proprio a Bologna. La squadra del mio film contro i vecchi del Bologna: vecchi per modo di dire, perché c’erano anche Perani e Fogli che giocano ancora divinamente. Hanno vinto loro, per moltissimo».

A cinquantatré anni il fiato tiene ancora?

«Quello che manca enormemente, adesso, è la frazione di secondo, lo scatto. E’ lì che occorre la grande vitalità della gioventù. Corro molto, manca il guizzo e la lucidità alla fine dello sforzo».

  • Intervista di Ennio Cavalli – Guerin Sportivo, luglio 1975