Roberto Bacchin, campione per caso

«Il mio merito? Dividevo casa con Pecci. Se voglio sfottere i miei ragazzi dico che ho vinto un campionato col Torino»

C’è qualcosa di pacifico e insieme di pugnace nell’aderire al proprio destino. Roberto Bacchin l’ha fatto senza rinunciare a quello che ama, ma vivendolo in una dimensione precisa: Novara è il luogo che tiene al guinzaglio la sua esistenza. Sentirlo parlare di scelta di vita, con quello che ha passato, riconcilia con un’espressione usata spesso a vanvera per spiegare malinconiche variazioni di residenza di super-miliardari.

Roberto Bacchin viene da Tombolo, provincia di Padova, paese di calciatori (vedi Dino Baggio) e di commercianti di bestiame. «Mio padre Angelo era uno di questi. Ce n’erano tanti come lui, a tutti i livelli. Partivano il lunedì e tornavano il sabato». Strana gente, percorrevano al contrario le strade che cinquantanni dopo saranno quelle dell’immigrazione, più o meno clandestina. «Andavano all’Est a cercare le carni migliori». Quindi possiamo parlare di un’infanzia da bambino ricco. Ride: «Ma no, ma no, mio padre era un piccolo commerciante, si stava bene, ma non si nuotava nell’oro». Famiglia completata da mamma Armida e fratello Rimo. Remo, forse. «No, Rimo. Proprio così. Si viveva nei bar, dove si svolgevano i commerci e dove c’era la Tv. Era un paese ricco in un Veneto bigotto». Tornano alla memoria immagini in bianco e nero di Germi, dolceamara vita di provincia.

Al bar non si va solo per gli affari. «Ricordo ancora la prima maglia da calcio, dell’Inter, quella bianca con la banda trasversale nerazzurra. Me la regalò mio padre. Era tifoso di Corso e Mazzola, come quasi tutti ai tempi della grande Inter».

Prati attorno, partite sterminate, i campi dell’oratorio, 30 metri quadrati e 40 ragazzini. Poi la prima società, la Luparense di San Martino di Lupari. «Perché al mio paese non c’era squadra, l’avevano squalificata anni prima per una zuffa gigantesca, credo, o una caccia all’arbitro».

Perbacco, ma la violenza non l’ha inventata Biscardi? «No, certo che no. Magari allora era un po’ più ruspante, meno, come posso dire, pericolosa?».

Forse. Bacchin fa dei provini per il Belluno e va lassù, all’inizio al settore giovanile, quindi, a 17 anni, in prima squadra. «All’inizio ero tornante, giocavo largo sulla fascia. Ma nella mia carriera ho fatto di tutto, anche il libero».

A Belluno prende il diploma di ragioniere, a Rimini, tappa successiva, prova a iscriversi a economia e commercio. «Ma non era facile conciliare studio e pallone». Il destino (e l’osservatore Ellena) lo portano a Torino. Un tempismo perfetto, quel passaggio vale lo scudetto. «Sì, quando voglio prendere in giro i miei ragazzi dico che ho vinto un campionato col Torino». Carta canta, una presenza, Torino-Cagliari 5-1 (2 maggio ’76) e si può dire di aver vinto. «Va bene, ci sto. Già essere scelti, allora non c’erano le rose di adesso, era significativo. Giocavano sempre gli stessi, perché c’erano meno partite, meno intensità, meno velocità».

D’estate, prima di cominciare, Bacchin trova buoni riscontri, qualche articolo positivo. «Poi sono finito in retroguardia. Probabilmente non ho capito cosa volessero da me. Ero giovane e mi piaceva giocare la palla, ma Radice badava alla sostanza. Poi c’erano dei campioni, un gruppo eccezionale, non meteore».

Come si viveva? «Dividevo l’appartamento con il povero Gorin e con Pecci. Grandissimo Eraldo: a ventanni era un leader, aveva personalità in campo. Sono stato felice di stargli accanto. Era simpatico. Vivevamo, abbastanza bene, sul Lungo Po. Certo adesso è differente: allora si faceva fatica a trovare una ragazza, dovevamo battagliare, come tutti».

A proposito, finita la stagione col Torino, Bacchin va a Novara e qui incontra sua moglie, Antonella. Nascono presto due gemelle, Valentina e Francesca. Il mestiere errabondo lo porta a Foggia, a Bari, a Udine e infine a Catanzaro. Molto Sud. I protagonisti di queste storie, se vengono dal profondo Nord, raccontano storie diverse sulle loro esperienze meridionali. «Io sono stato benissimo. Gli anni più belli sono stati quelli di Bari, pubblico caldo, che, nel bene e nel male, ti faceva sentire importante. A me piaceva giocare un calcio divertente. L’ho fatto e ho avuto la soddisfazione di arrivare in serie A con merito. Ricordo questo più dello scudetto, andavo in crescendo».

Ma il destino è in agguato. Spiaggia di Copanello, un tuffo in mare con Bivi e Cavasin. Campionato 1982-83 quasi archiviato, è già estate piena. «Sa quando ci si lancia sulla sabbia verso l’onda? A metà della corsa ho avuto paura e mi sono insaccato».

Una vertebra rimane schiacciata: è la porta dell’incubo. «All’inizio non pensavo neanche di tornare a camminare. Ho fatto due mesi di letto, un’operazione, la rieducazione. E mi sono ritrovato con una famiglia da mantenere e un lavoro da inventare, ma ringrazio la gente di Catanzaro che mi è stata vicina».

Diventa necessaria una (autentica) scelta di vita. «Ho promesso alla mia famiglia che non mi sarei più allontanato da casa. Per qualche anno ho fatto l’assicuratore poi ho aperto un negozio d’abbigliamento». Una carriera da allenatore (ultimo domicilio il Valle d’Aosta) a raggio limitato, dilettanti, C2, qualche campionato vinto, qualche esonero. «Il patto è che ogni sera torno a dormire a casa. Però io, questa, non la considero una camera. Bilancio finale: credo di essere stato un discreto giocatore di serie B». Nessun rimpianto. «Uno, veramente: forse non mi tufferei più». E’ già rischioso farlo nella vita di ogni giorno.

Roberto Perrone

StagioneClubPres (Reti)
1972-1974 Belluno33 (1)
1974-1975 Rimini21 (3)
1975-1976 Torino1 (0)
1976-1978 Novara65 (2)
1978-1979 Foggia32 (3)
1979-1981 Bari68 (9)
1981-1982 Udinese25 (2)
1982-1983 Catanzaro25 (1)