Il romanzo dello Stadio Penzo di Venezia

Che cosa succede se il pallone da calcio finisce in Laguna? Leggende, meraviglie e decadenza del Penzo, lo stadio centenario di Venezia

Questa è la storia di un altro calcio e di altre epoche. Di giocatori che entravano in campo per battersi con l’avversario senza organizzare combine e pastette per incassare soldi dai malavitosi. Niente scommesse, niente partite “over” cioè gonfiate nel risultato per assecondare il gioco sporco degli scommettitori, niente Procure che indagano, nessun idolo da abbattere come un grande ingannatore. Era un’altra dimensione, era un’altra Italia, non necessariamente migliore di questa. Una lettura che può quasi disintossicare, un racconto senza nostalgia, un omaggio ad una città incantata, Venezia, e al suo stadio particolare, il vecchio Penzo.

Ha compiuto 100 anni nel settembre 2013, il Penzo, che fa a gara con il Luigi Ferraris di Genova, inaugurato nel 1911, a chi è il più vecchio stadio d’Italia. Una struttura a pianta rettangolare sull’isola di Sant’Elena, unico stadio di calcio sull’acqua. È stato calpestato da piedi buoni e cattivi; è stato attraversato da palloni con camera d’aria e lacci e quelli con il baffo della Nike; ha avuto tribunette in legno e in cemento ma anche tubi Innocenti quando non si sapeva dove mettere la gente; ha ospitato insolite piste d’atletica da cinque a quattro corsie; è stato affollato da migliaia di spettatori ridottisi poi a poche centinaia; si è pavoneggiato in serie A e si è depresso nell’Interregionale. Dovette subire anche una tromba d’aria, era il 1970, che causò lutti alla città e quasi lo distrusse. Infine il tira e molla: giochiamo qui, no, andiamo sulla terraferma, è troppo vecchio, serve un impianto meno fatiscente e moderno. Non ha gli stucchi e gli affreschi della palestra della Misericordia, il tempio della Reyer baskettara, ma un po’ di rispetto, via.

1913: Ines Taddio inaugura il Penzo

Il vecchio stadio rimane lì in ammollo, una specie di santuario minore del Dio Pallone. La leggenda narra che quando bisognava perdere tempo per conquistare una vittoria, i tifosi urlavano ai giocatori del Venezia: «Buta ‘a bala in Laguna», e quelli invece di buttare la palla in tribuna la scaraventavano in acqua perché poi ci voleva un po’ per ripescare il pallone nei canali attorno al Penzo, i minuti passavano e un tempo l’arbitro neanche sapeva che cosa fosse il recupero.

7 settembre 1913, domenica: Ines Taddio, figlia di uno dei dirigenti del Venezia Football Club, tentava di rompere «la bottiglia di Sciampagna» contro un palo di una delle due porte del nuovo stadio di Venezia. Inutilmente. La bottiglia resisteva. Qualcuno andò a cercare un martello e lo diede alla signorina che così compì il rito inaugurale ma con tanto fervore che una scheggia di vetro la ferì. «Battesimo di vino generoso e di sangue gentile» annotò il cronista della Gazzetta di Venezia. Quasi un portafortuna per un club in verità non sempre fortunato, spesso ai margini del grande calcio. «In realtà già una paio di anni prima del ’13 – racconta Umberto Zane, curatore della mostra fotografica sui 100 anni del Penzo, un piccolo patrimonio documentario che verrà poi collocato nel vecchio catino, e autore di un libro Un ruggito lungo un secolo. Cento anni di calcio a Venezia e a Mestre – la squadra di calcio giocava in quella struttura. Tanto che il primato di longevità dello stadio di Genova è insidiato seriamente: diciamo che l’apertura dei due impianti è quasi contemporanea». E sottolinea: «La storia della città di Venezia e dello stadio marciano di pari passo».

La storia dei neroverdi (la vecchia casacca del Venezia voluta all’inizio del ‘900 da un allenatore svizzero, prima la maglia era rossoblu troppo simile a quella del Genoa) e del loro stadio si è spesso dipanata sulle vicende cittadine, politiche e urbanistiche. Alti e bassi, promozioni e retrocessioni. Oggi il Venezia ha cambiato anche maglia, ora è arancioneroverde, da quando cioè c’è stata la fusione con Mestre nel 1986. Quasi una bestemmia per le opposte fazioni, veneziane e mestrine.

Dunque, la fusione con il Mestre era l’unica cosa da fare secondo quel marpione di Zamparini, il vulcanico presidente del Palermo, noto mangiallenatori, che è stato l’ultimo a sospingere sulla ribalta nazionale la squadra lagunare. Per poi lasciarla nelle peste. Gli anni Novanta correvano verso la fine, la squadra che aveva in panchina Walter Novellino risalì in serie A nel ‘97-‘98 trent’anni dopo l’ultima apparizione grazie al gioco dell’allenatore dalla faccia da indio e alle reti di un bolzanino dalla chioma lunga e fluente, Stefan Schwoch. Poi vennero i gol di Pippo Maniero e di Alvaro Recoba (ve lo ricordate?) a tenere il club nella massima serie ma, alle soglie del 2000, ritornato all’Inter Recoba, la squadra precipitò in B sia pure per poco; Cesare Prandelli la riportò subito in A. Fu un fuoco di paglia.

Il 2001-2002 fu l’ultimo campionato in cima, da lì in poi una rovinosa caduta senza fine, Zamparini andò via proprio a causa dello stadio. Almeno così andava dicendo. Lui ne voleva uno fuori dall’acqua, all’inglese. Odiava il vecchio Penzo, quando prese il Mestre con il Venezia, portò i neroverdi al Baracca sulla terraferma. Il Signor Emmezeta costituì una società apposta, la “Marco Polo Spa”, individuò il terreno tra Dese e Tessera, vicino all’A4, 30 mila posti, 50 milioni di spesa. Ma chiedeva al Comune permessi per aprire anche supermercati, sale da ballo e da cinema.

L’affare si complicò, l’imprenditore friulano abbandonò ogni cosa. Anzi, comprò da Franco Sensi il Palermo, dopodiché prese mezzo Venezia, compreso Pippo Maniero, e lo caricò su un pulmino che dal ritiro dei veneti a Pergine Valsugana raggiunse dopo 120 chilometri quello dei siciliani a Longarone. I supporter veneziani chiamano ancora oggi quel blitz “il furto di Pergine”. Il club era in una situazione disastrosa, fu dichiarato fallito da lì a qualche anno, ci furono anche sospetti di combine, apparve anche un compratore anglo-iraniano che poi si rivelò un imbroglione. La nuova società è ripartita dalla serie D ed attualmente la gestisce una società che fa capo ad un imprenditore russo, Yuri Korablin. Alta e bassa marea nella cronistoria di un club e di uno stadio.

Aveva una tribuna in legno agli inizi, il Penzo. Lo chiamarono così nel 1931 per ricordare Pierluigi Penzo, un aviatore veneziano della prima guerra mondiale morto nel 1928 tornando in volo dal Polo Nord dove aveva salvato Umberto Nobile. Nel ’27 era stato il conte Giuseppe Volpi di Misurata, quello della Mostra del cinema, a tagliare il nastro «del campo sportivo fascista di Sant’Elena». Costò un milione di lire, capienza 15 mila spettatori. Per rientrare un po’ dalle spese, venne messa una sopratassa sul biglietto dei vaporetti.

Venezia, 15 giugno 1941- Il presidente del Venezia Bennati assieme a dieci undicesimi della squadra che ha conquistato la Coppa Italia. Da sinistra: Diotalevi, Alberico, Alberti, Di Gennaro, Bennati, Mazzola, Tortora, Fioravanti; i tre in primo piano sono Stefanini, Loik e Puppo (manca nella foto Piazza).

Negli anni Trenta il primo ampliamento, ma i creditori mordevano la società, la squadra andava male. Finì in terza divisione finché spuntò un imprenditore, Arnaldo Bennati, che la portò in serie A nel 1938. Il Penzo si rifece il trucco, il campo venne ingrandito a spese della pista, tribune e gradinate furono prolungate: così accoglievano 22 mila aficionados. Ma già a quei tempi si parlava di fare uno stadio fuori da Venezia. Da lì a qualche anno, in tempo di guerra, il successo più significativo della storia dei lagunari.

È il 1941: ci sono due giovani in maglia neroverde, uno viene da Fiume e si chiama Ezio Loik, gioca mezzala destra, l’altro è di Cassano d’Adda, fa il servizio militare in laguna e si chiama Valentino Mazzola, gioca mezzala sinistra. Il Venezia ha pareggiato 3-3 con la Roma allo Stadio del Partito nazionale fascista la prima partita della finale di Coppa Italia. I giallorossi erano avanti 3-0 ma Mazzola, che ha 22 anni come Loik e non è ancora il grande Mazzola, segna il primo gol fantastico a leggere le cronache del tempo; si beve in dribbling due o tre avversari, uno con un colpo di tacco, e poi fa secco Masetti. E’ la rete della riscossa veneziana. Al ritorno, la vittoria porta la firma dei due campioni. Cross di Mazzola e Loik che colpisce al volo.

Seguono anni tristi per la società e per il Penzo, caduta in C, risalita in B a metà anni Cinquanta con Paolone Barison che conobbe tanta gloria con il Milan e altre squadre, infine la A nel ‘61. I nuovi protagonisti si chiamano Gino Raffin, attaccante, Carlo Alberto Quario, l’allenatore, Giovanni Bubacco, un signor portiere. E il Penzo si rigonfia di nuovo: arriva a contenere 25 mila spettatori. Il suo presidente e mecenate, Giovanni Volpi di Misurata, il figlio del conte Volpi, coinvolge anche Giulio Andreotti, che naturalmente occupava posti di governo e naturalmente prometteva.

Venezia, 15 aprile 1962 – 34a giornata di campionato: Venezia-Juventus 3-0 – La partita è conclusa e i giocatori sono festeggiati al centro di un campo pesantissimo per la pioggia. Il Venezia è salvo e in classifica ha raggiunto la stessa Juventus

Non si fece nulla. Il Venezia non vinceva scudetti ma si prendeva belle soddisfazioni, in quell’anno di serie A – il ‘61-’62 appunto – battè la Juve di Nicolè, Charles e Stacchini (3-0) e il Milan di Ghezzi , Greaves e Altafini (2-1), i tifosi facevano cortei di barche per i canali, festeggiando le imprese. Un saliscendi tra A e B, il record di presenze sugli spalti nel ’66, sempre contro il Milan: 26 mila. Il declino allontanerà a poco a poco gli appassionati dal campo di Sant’Elena. Oggi in Prima Divisione c’è una media di poco più di mille spettatori a partita. E molti continuano a dire: il nuovo stadio si farà. Il vecchio Penzo sorride sornione, pensa a come sono conciati i più blasonati San Siro, San Paolo, Olimpico. E butta la palla in laguna.

  • Fonte: www.succedeoggi.it