Storie di schemi: l’evoluzione della tattica

Un grande viaggio nelle tattiche del football. All’inizio c’era la Piramide di Cambridge, poi si passa dal sistema di Chapman alle grandi innovazioni di Viani, Rocco ed Herrera, dal calcio olandese contrapposto a quello all’italiana fino alla rivoluzione di Sacchi


Dalle origini al passing game

All’inizio il calcio non aveva regole codificate e valide per tutti. Dunque è privo di senso, per la fase iniziale, parlare di tattiche o di strategie di gioco e tantomeno di spirito collettivo. Chiunque venisse in possesso della palla iniziava un’azione individuale muovendosi in direzione della porta avversaria finché le forze sorreggevano il suo slancio. In questa prima forma di calcio, gli undici giocatori si disponevano alla rinfusa e soltanto il portiere, l’unico autorizzato all’uso delle mani, aveva una sua specifica caratterizzazione.

In una fase successiva, dopo che la creazione della Football Association (1863) aveva posto alcune norme fondamentali per differenziare il calcio dal rugby, davanti al portiere si disposero in verticale due giocatori, mentre gli altri otto erano unicamente proiettati all’attacco. Utilizzando le formule aritmetiche che sono attualmente di uso comune per classificare gli schemi di gioco, si dovrebbe parlare di 1-1-8, e se consideriamo che il modulo oggi più diffuso è il 4-4-2, potremmo dedurne che, dalle origini a oggi, il calcio si è evoluto esclusivamente in fase difensiva, sottraendo uomini all’attacco, per irrobustire la fase di copertura.

Furono gli scozzesi, che alla fine del 19° secolo si distinguevano per praticare il calcio più sofisticato e meglio organizzato, a modificare per primi lo schieramento standard, raddoppiando il numero dei giocatori addetti alla difesa della propria porta. Per rimanere ai numeri, nacque così il 2-2-6: due coppie verticali di difensori, che dovevano contrastare, su due successive linee, lo slancio degli attaccanti. È in apparenza singolare, dunque, che il primo match internazionale della storia, che oppose il 30 novembre 1872, a Glasgow, il 2-2-6 scozzese all’1-1-8 inglese, si sia concluso a reti inviolate, nonostante entrambi i moduli adottati fossero nettamente offensivi. Sin da allora, divenne evidente che l’efficacia di un attacco non dipende dal numero degli attaccanti, bensì dal loro razionale impiego.

Quest’epoca del calcio viene definita del kick and yusch (“calcia e corri”), espressione che sta a indicare un gioco assolutamente spontaneo, frutto della libera iniziativa dei singoli, e privo di un benché minimo collegamento fra i diversi reparti. I difensori, per esempio, provvedevano unicamente a rilanciare il pallone il più lontano possibile, senza prendere nemmeno in considerazione l’idea di mettere in azione i propri attaccanti. Nei college inglesi, questa fase caratterizzata da un gioco esclusivamente individuale venne chiamata dribbling game. Fondamentale fu il passaggio, sempre sotto la spinta decisiva degli scozzesi, al passing game, cioè alla manovra basata sui passaggi fra i compagni di squadra: è proprio con il passing game che il calcio inizia la sua lunga e complessa evoluzione tattica.

1872 – Una rappresentazione del primo match internazionale: Inghilterra-Scozia 0-0

La “piramide” di Cambridge

Lo sviluppo delle strategie di gioco fu senza dubbio agevolato dal fatto che il calcio di fine secolo si giocasse soprattutto in ambiente universitario: l’evento agonistico, infatti, divenne oggetto di studio, in vista di un suo progressivo perfezionamento. Il college di Cambridge, uno dei più prestigiosi d’Inghilterra, ideò una formula rimasta fondamentale nella storia del calcio e alla quale, in ultima analisi, vanno fatti risalire tutti gli schemi moderni.

Il passing game, come si è visto, aveva introdotto il concetto della collaborazione fra i compagni di squadra, anche di reparti diversi. Per ottenere una più razionale occupazione del terreno di gioco, Cambridge adottò e diffuse uno schema a piramide: davanti al portiere si collocavano due difensori (backs); poco più avanti si posiziona un’altra linea, formata da tre giocatori (definiti half-backs, e poi semplicemente halfs), che dovevano raccogliere le respinte dei difensori e tramutarle in suggerimento per la linea degli attaccanti (forwards), composta da cinque uomini che occupavano l’intera larghezza del campo.

Quando fu introdotta in Italia, questa impostazione a 2-3-5, portò a definizioni ancora in uso: ‘prima linea’ (a partire dall’alto) per gli attaccanti, ‘linea mediana’ per quella intermedia (e mediani furono definiti i suoi interpreti), ‘terza linea’ per gli ultimi difensori, chiamati quindi terzini. La rappresentazione grafica di questo schieramento, comprendente un portiere, due terzini, tre mediani, cinque attaccanti, assume la forma di una piramide rovesciata, e col nome di ‘piramide’ questo schema si diffuse in tutta Europa. Si tratta di un sistema di gioco già completo, cui manca però un elemento: la marcatura, cioè l’abbinamento di un proprio difensore a uno specifico attaccante avversario, e proprio per questa caratteristica, in un certo senso, la piramide di Cambridge può essere considerata un antecedente della ‘zona’. È comunque da questa formula che partono i due schemi gioco destinati alla massima diffusione nel periodo fra le due guerre: il ‘metodo’ e il ‘sistema’.

1894 – Una formazione della Cambridge University.

Il “metodo” e il centromediano

Chiaramente ispirato alla piramide, il metodo venne anche chiamato “modulo a W”, perché la disposizione dei giocatori in campo disegnava due W poste l’una sull’altra. Come nella piramide, davanti al portiere prendevano posizione i due terzini, chiamati a presidiare la propria area di rigore senza specifiche funzioni di controllo nei confronti degli avversari. La linea mediana veniva però diversamente articolata: i due mediani laterali si allargavano sulle due opposte fasce di campo e finivano per controllare direttamente gli attaccanti esterni avversari, cioè le “ali”, mentre il mediano centrale, detto “centromediano”, diventava la figura dominante della squadra.

Lievemente arretrato rispetto ai due laterali, aveva il doppio compito di opporsi al centravanti avversario e di capovolgere il fronte del gioco con precisi e potenti rilanci che mettevano in moto la controffensiva. In genere, il suo rinvio veniva raccolto dalle mezzali, che impostavano la manovra sulle ali, i cui cross chiamavano in causa, per la conclusione a rete, il centravanti. Perno del metodo, il mediano centrale venne indicato anche come ‘centromediano metodista’, ruolo che assommava le funzioni svolte attualmente dal ‘libero’ difensivo e dal regista di centrocampo. In sintesi, il mediano centrale era l”uomo-squadra’.

Rispetto alla piramide, inoltre, gli attaccanti non erano più disposti tutti e cinque su una medesima linea: i due interni, o mezzeali, erano più arretrati rispetto alle ali e al centravanti. In tal modo, passando dal 2-3-5 della piramide a un più articolato 2-3-2-3, il metodo raggiunse il perfetto equilibrio numerico fra giocatori di difesa e di attacco. Questo schema tattico venne esaltato dalla scuola danubiana, la cui squadra più rappresentativa fu il Wunderteam austriaco, e raggiunse i risultati migliori con l’Italia di Vittorio Pozzo, che proprio grazie al metodo vinse due titoli mondiali consecutivi, nel 1934 e nel 1938, inframmezzati dalla medaglia d’oro ai Giochi Olimpici del 1936. Deve essere però precisato che l’Italia diede del metodo classico un’interpretazione particolare, potenziando la fase difensiva e adottando l’efficacissima arma offensiva del contropiede, cioè invogliando la squadra avversaria all’attacco in massa, al fine di coglierla sguarnita mediante improvvisi contrattacchi.

1932 – Il Wunderteam austriaco di Hugo Meisl

Il “sistema” inglese o “WM”

Il “metodo” era la tattica ideale per un gioco essenzialmente tecnico, basato sull’abilità di palleggio e sui prolungati scambi di passaggi, e mal si adattava, quindi, al calcio inglese, che si sviluppava invece in chiave prevalentemente atletica, veloce, aggressiva, esaltando il tackle, cioè il duro contrasto uomo contro uomo per la conquista del pallone, ed era alla ricerca di un modulo di gioco più congeniale a queste caratteristiche. L’occasione fu offerta dalla modifica alla norma sul fuorigioco, apportata nel 1925 dall’IFAB (International football association board), l’ente preposto ai regolamenti internazionali.

Sino ad allora un attaccante che si trovasse più avanzato rispetto alla linea del pallone era considerato in posizione regolare soltanto se, al momento in cui partiva il passaggio destinato a raggiungerlo, almeno tre avversari (normalmente due più il portiere), si frapponessero fra lui e la porta. Si trattava di una regola penalizzante per il gioco di attacco: bastava infatti che uno dei terzini avanzasse, lasciando l’altro a presidio dell’area, perché il centravanti si trovasse sistematicamente in posizione irregolare. Come conseguenza, si era sviluppata la tendenza a mantenere il centravanti arretrato, con il ruolo di rifinitore per gli interni che, partendo da lontano, potevano arrivare al gol senza cadere nella trappola del fuorigioco. Nel 1925 l’IFAB ridusse a due (in pratica uno più il portiere) il numero dei difensori che un attaccante doveva avere tra sé e la porta, e stabilì inoltre che non esisteva fuorigioco nella propria metà campo.

La modifica favorì la ripresa del calcio offensivo. Fu Herbert Chapman, mediocre ex giocatore ma grande stratega, assunto dall’Arsenal per risollevare le declinanti sorti del club, a mettere a punto una nuova tattica di gioco, che da lui si chiamò Chapman system, e che si diffuse ovunque semplicemente con il nome di “sistema”. In questo schema tattico, la figura determinante rimaneva il centromediano che però, a differenza di quanto previsto dal “metodo”, veniva arretrato sulla stessa linea dei terzini, i quali a loro volta si allargavano sulle fasce laterali, dando vita a una difesa a tre. Il centromediano, piazzato nel cuore del reparto arretrato, doveva prendersi direttamente cura (a “uomo”, come si direbbe oggi) del centravanti avversario: nasceva così il ruolo specifico dello “stopper”. I due mediani laterali avanzavano e formavano, con le due mezzali, il quadrilatero di centrocampo, mentre le ali e il centravanti costituivano il terzetto di punta.

Rispetto al 2-3-2-3 del metodo, il sistema presentava un 3-2-2-3 e, nella rappresentazione grafica, la squadra non disegnava più due W, bensì una W e una M, ed è infatti con il nome “WM” che il sistema inglese si diffuse in tutto il mondo. Le differenze fra metodo e sistema potrebbero apparire poco significative, ma in realtà non cambiò soltanto la posizione sul campo di alcuni giocatori, quanto piuttosto l’intera filosofia di gioco. Le marcature divennero individuali, strette, a volte asfissianti; la frammentazione della partita in una serie di duelli uomo contro uomo determinò un calcio più aggressivo, meno tecnico e fantasioso, più veloce e fisico.

In Inghilterra il successo del sistema fu immediato, anche perché l’Arsenal, reimpostato da Chapman, uscì da un lungo periodo di crisi e ottenne una lunga serie di vittorie, conquistando una Coppa d’Inghilterra e tre titoli assoluti nell’arco di cinque anni. Questi positivi risultati indussero, come sempre avviene, molte altre squadre ad adottare il nuovo schema tattico: tutti i club inglesi si convertirono rapidamente al sistema, e anche in Germania il successo fu notevole (sotto la guida del tecnico Otto Nerz, i tedeschi furono la sola nazionale sistemista ai Mondali del 1934 vinti dall’Italia, che invece, come abbiamo visto, applicava il metodo). Nell’Europa centrale, culla della scuola danubiana, e in Italia il processo fu più lento.

Nel Campionato italiano la prima squadra ad adottare il sistema fu il Genoa, nella seconda metà degli anni Trenta, ma solo le vittorie in serie del Grande Torino ‒ la cui superiorità era tale che avrebbe dominato con qualsiasi tattica, e che nel 1943 firmò il primo scudetto sistemista del calcio italiano ‒ indussero nell’immediato dopoguerra a una generale conversione. L’ultima squadra ad abbandonare il metodo fu il Bologna. Alla nuova realtà, malgrado le resistenze di Vittorio Pozzo, metodista convinto, dovette arrendersi anche la nazionale azzurra, che però incontrò non pochi problemi nel cambio di impostazione.

1934 – cinque elementi dell’Arsenal di Chapman: Wilf Copping, Eddie Hapgood, Frank Moss, Ray Bowden, Cliff Bastin

“Mezzo sistema”, “vianema”, “catenaccio”

Come Pozzo aveva intuito e sostenuto, con la conseguenza di essere rimosso dall’incarico di commissario tecnico della nazionale italiana, il sistema puro, quale lo concepivano gli inglesi, non si adattava al calcio italiano. Il passaggio alla nuova impostazione tattica non era ancora completato, che già si cominciò ad apportare correzioni e adattamenti al modulo originario. Nel 1944, vincendo un Campionato di guerra non riconosciuto ufficialmente, la squadra dei Vigili del Fuoco di La Spezia, guidata dal tecnico Barbieri, ex genoano e quindi tra i primi giocatori a praticare il sistema in Italia, aveva applicato il “mezzo sistema”, un ibrido fra metodo e sistema.

Uno schema simile a questo era stato adottato nella stagione 1946-47 anche dal Modena, che schierava un terzino, Remondini, a guardia del centravanti avversario e l’altro, Braglia, libero da marcature e pronto a intervenire in seconda battuta. Quel Modena arrivò secondo, dietro all’imbattibile Torino, miglior risultato di tutta la sua storia. Lo stesso Nereo Rocco, alle sue prime armi come tecnico della Triestina, si segnalò per una tattica che privilegiava la fase difensiva, sottraendo un uomo all’attacco per dotare la squadra di un ultimo baluardo, che la rendesse meno vulnerabile di fronte alle squadre più ricche, in grado di ingaggiare i più forti attaccanti stranieri.

La variante più famosa e geniale del sistema, rimasta legata al nome del suo ideatore, è però quella che consentì alla Salernitana di accedere, nel 1947, alla massima categoria. Il tecnico Gipo Viani, resosi conto che il parco giocatori della Salernitana era troppo modesto per affrontare con successo, uomo contro uomo, le avversarie più forti, mise in atto un accorgimento semplice ed efficace, schierando con il numero 9, quindi come nominale centravanti, un giocatore che aveva invece caratteristiche difensive. Questi, al fischio d’inizio, retrocedeva e andava a controllare il centravanti avversario, liberando così dall’incarico il proprio centromediano, che si portava alle spalle di tutti, per accorrere ovunque si aprisse una falla e rimediare all’errore di un compagno o allo spunto vincente di un avversario.

Questo sistema di gioco, che potenziava la difesa e impoveriva l’attacco, fu chiamato “vianema”, e si ispirava al verrou che il tecnico austriaco Karl Rappan aveva fatto giocare alla Svizzera nei Mondiali del 1938. Si trattava di una sorta di anticipazione di quel “catenaccio”, che sarebbe in seguito divenuto il simbolo della vocazione ostruzionistica del calcio italiano, in un’ottica spregiativa che andrebbe però rivista in sede critica. In realtà, quando venne applicato da grandi squadre, il catenaccio si rivelò una tattica efficacissima, utilizzando la quale l’Inter allenata da Foni vinse due scudetti consecutivi, nel 1953 e nel 1954. La mossa decisiva era l’arretramento dell’ala destra interista, Armano, che in fase difensiva prendeva il posto del terzino Blason, il quale a sua volta retrocedeva alle spalle degli altri difensori-marcatori con la funzione di “spazzino dell’area”.

Una volta in possesso di palla, l’Inter ripristinava le posizioni originarie e in tal modo rendeva più impenetrabile la difesa, ma non penalizzava l’attacco, quando manteneva l’iniziativa del gioco. Come sempre, la tattica era tanto più funzionale quanto più efficaci ne erano gli interpreti. Disponendo di attaccanti eccezionali (Lorenzi, Nyers, Skoglund), quell’Inter poteva permettersi di lasciarli talvolta in inferiorità numerica. Deve essere ricordato che Blason era già stato il battitore libero della Triestina di Rocco, che abbiamo ricordato come una delle prime squadre ad adottare quello che si poteva chiamare “mezzosistema”.

L’Inter di Foni vinse due scudetti consecutivi tra il 1953 e il 1954

Sud America: dalla diagonal al 4-2-4

Anche nella scuola sudamericana, che contendeva a quella europea la leadership mondiale, si era sviluppata la ricerca di un razionale schema di gioco. Argentina e Brasile preferivano affidarsi al libero talento dei loro fuoriclasse (e il Brasile spesso scadeva nell’anarchia). L’Uruguay, invece, si era affermato proprio in virtù di una rigorosa organizzazione, che curava soprattutto la fase difensiva, e sul canovaccio del metodo già negli anni Venti e Trenta aveva adottato una variante chiamata en abanico (“a ventaglio”), che prevedeva il centravanti arretrato. Una figura, questa, che si ritrova nella diagonal, modulo di gioco sviluppato nei primi anni del dopoguerra dalle due principali squadre brasiliane di Rio, Flamengo e Fluminense.

La diagonal si ispirava al sistema inglese, ma con una particolare attenzione alla manovra sulle fasce laterali, dove terzino e ala operavano in tandem, spostando poi il gioco sul centro (da qui il nome di diagonal). Qui il mediano, con la maglia numero 5, vero perno della squadra, agiva in sintonia con il centravanti, più arretrato nei confronti dei compagni di reparto. Il più celebre centravanti arretrato del Brasile fu Ademir, tiratore scelto dei Mondiali 1950, dove peraltro la diagonal del Brasile fu sorprendentemente battuta dall’Uruguay, schierato secondo dettami assai vicini al catenaccio europeo.

Il centravanti arretrato fu anche il fiore all’occhiello, in senso tattico, della più forte nazionale degli anni Cinquanta, la Grande Ungheria, che disponendo di autentici fuoriclasse poteva permettersi un modulo assai spregiudicato: tre difensori in linea, come nel sistema puro, due mediani di filtro e rilancio, il centravanti arretrato (Hidegkuti) in linea con le due ali, mentre i due teorici interni, Kocsis e Puskas, costituivano in realtà le punte più avanzate, quasi un doppio centravanti. Rispetto al sistema classico, o “WM”, il sistema ungherese fu definito “MM” (3-2-3-2).

La vera rivoluzione tattica si verificò in Sud America nel 1958 a opera del Brasile, affidato alla guida dell’oriundo italiano Vicente Feola. Mentre quasi tutta l’Europa, sotto la spinta dell’Italia, giocava con il libero fisso in difesa, il Brasile si presentò con tre linee parallele: quattro difensori (due terzini e due centrali); due mediani, uno di contenimento e uno di regia (il grande Didí); quattro attaccanti. Il 4-2-4 può essere considerato l’antecedente di tutte le tattiche moderne, perché dalle sue correzioni, in senso difensivo, discendono prima il 4-3-3 (con un’ala sottratta all’attacco e aggiunta al centro- campo), poi l’ancora attualissimo 4-4-2, dove difesa e centrocampo presentano una disposizione speculare (due laterali e due centrali) e dove gli attaccanti, ridotti a due, si spostano sull’intero fronte e creano varchi per gli inserimenti dei compagni più arretrati. È, in altri termini, la “zona” che si contrappone al calcio all’italiana, basato su marcature individuali e il libero fisso, alle spalle della linea difensiva.

1958 – il pianto di Pelé e il simbolo del grande Brasile di Feola, l’inventore del 4-2-4

Il “gioco totale” degli olandesi

Il 4-2-4 brasiliano, con i suoi derivati, stentò a trovare applicazione in Europa, dove resisteva il più pragmatico calcio all’italiana, esaltato dai successi dell’Inter di Herrera. Perché si verificasse un vero cambiamento, occorreva un’autentica rivoluzione: nei primi anni Settanta, l’Olanda (una nazione che sino ad allora era rimasta molto ai margini del calcio d’élite), con i suoi club, soprattutto l’Ajax, e la sua nazionale, ma anche grazie all’eccezionale fioritura di un gruppo di talenti che avrebbero saputo applicare con successo qualsiasi modulo, attaccò il punto fermo di ogni strategia sino allora teorizzata: la fissità dei ruoli.

Il “calcio totale” del tecnico Rinus Michels prevedeva infatti una completa intercambiabilità di funzioni fra i giocatori in campo: persino il portiere poteva usare i piedi e uscire dall’area per partecipare alla manovra. Si trattava di una rivoluzione “culturale” prima ancora che tecnica. I difensori appoggiavano l’attacco, gli attaccanti retrocedevano a coprire la propria area e, quindi, al calciatore specializzato si sostituiva il calciatore universale. Un fuoriclasse, Johan Cruijff, divenne il simbolo del nuovo calcio. Come disposizione iniziale, l’Olanda non si discostava troppo dal 4-3-3, ma la differenza era determinata dagli spostamenti in campo, dal ritmo altissimo, da figure di gioco innovative come il fuorigioco sistematico (avanzata sincrona e improvvisa di tutti i difensori, per mettere in posizione irregolare gli attaccanti avversari) o il pressing, cioè l’aggressione all’avversario in possesso di palla, attuata da due o tre giocatori contemporaneamente.

Il calcio totale olandese sembrò, all’epoca della sua affermazione, la soluzione ideale, ma quel modulo ‒ come tutti, del resto ‒ era strettamente legato all’abilità degli interpreti: quasi tutti i tentativi di imitazione fallirono e la stessa Olanda, nella successiva generazione, non replicò i suoi successi. Fu una squadra italiana, sul finire degli anni Ottanta, il Milan allenato da Arrigo Sacchi e del quale non a caso facevano parte tre campioni olandesi, Gullit, Van Basten e Rijkaard, a proporre la più attendibile rivisitazione del calcio totale. Quel Milan vinse più all’estero che in Italia, e fu ammirato nel mondo come l’esempio di un calcio spettacolare, basato sul contributo collettivo nel quale si fondevano le prodezze dei singoli.

1974 – Cruijff e Neesenks, due tre i migliori interpreti del calcio totale olandese

Le varie anime della “zona”

La storia dell’evoluzione tattica del calcio è fatta di continue contaminazioni. Dopo la rivoluzione olandese, si susseguirono fasi di restaurazione, con periodici ritorni di marcature individuali e di libero fisso. Una delle più efficaci sintesi tra i vari moduli fu quella adottata dall’Italia di Bearzot, che vinse il titolo mondiale nel 1982, adottando uno schema di gioco definito “zona mista”. La difesa rispettava i canoni del calcio all’italiana, con rigorosi controlli individuali e il battitore libero (però di manovra, come il grande Scirea). Negli altri reparti, invece, gli azzurri si disponevano a zona, con frequenti interscambi. Specie in Italia il dibattito fra difesa a uomo e difesa a zona assunse toni accesi, come si era verificato anni prima tra i fautori del metodo e quelli del sistema.

Il primo scudetto conquistato da una squadra schierata rigorosamente a zona fu quello vinto nel 1983 dalla Roma, allenata dallo svedese Nils Liedholm. Quest’ultimo aveva già conquistato il titolo quattro anni prima alla guida del Milan, che però non si difendeva rigorosamente a zona, in quanto la coppia centrale della retroguardia prevedeva Bet in funzione di stopper e Franco Baresi in veste di libero. A poco a poco, la difesa a zona si è affermata, perdendo però qualche caratteristica tipicamente olandese, penalizzata dalle nuove regole. Alcune modifiche della norma sul fuorigioco, per esempio, hanno reso troppo rischioso il ricorso sistematico a questo espediente difensivo, così come il divieto di retropassaggio al portiere e l’espulsione per fallo commesso in una chiara azione da gol hanno consigliato di correggere lo schieramento rigorosamente in linea del reparto difensivo.

L’ultima evoluzione ha così riguardato prevalentemente l’assetto della difesa. Da quella classica a quattro uomini, si è passati a quella a cinque (tre centrali, di cui uno assai simile al vecchio libero, e due laterali, i terzini di un tempo), o a quella a tre, in cui gli esterni vanno a integrare il centrocampo, retrocedendo soltanto in situazione di pericolo. Attualmente i moduli più applicati sono l’inossidabile 4-4-2, che garantisce tuttora la migliore copertura degli spazi, il 4-3-3, che privilegia la fase offensiva, con due attaccanti esterni e uno centrale, il 3-4-1-2, che prevede la presenza di un trequartista, in genere giocatore molto tecnico e fantasioso, che occupa lo spazio fra le due linee di attacco e di centrocampo e ha la funzione principale di creare opportunità da gol per le due punte. Altre varianti prevedono la difesa a quattro o a cinque giocatori.

Ogni squadra, in realtà, adotta lo schema più congeniale ai giocatori che ha a disposizione, piuttosto che forzare le vocazioni tecniche dei singoli in un modulo astratto. Di conseguenza, infinite sono le varianti, frequenti i ritorni al passato (la difesa a tre è la rivisitazione del sistema), ma l’ultima vera rivoluzione resta, per ora, quella olandese degli inizi degli anni Settanta. Da allora, vi è stato solo un paziente lavoro di perfezionamento e di adattamento, ma nessuna intuizione veramente originale. Il calcio del Duemila attende ancora il suo Chapman o il suo Michels.