L’uomo che inventò il mestiere di tifoso professionista negli anni ’70. Un gigante che anticipò gli influencer, viaggiando in autostop per gli stadi d’Italia.
Immaginate un’epoca in cui non esistevano smartphone, social media o dirette Instagram dagli spalti. Gli anni Settanta dello sport italiano avevano però un protagonista unico, impossibile da ignorare: un uomo di oltre due quintali che attraversava l’Italia in autostop pur di non perdersi una partita, un match, una gara. Giuseppe Serafini, per tutti semplicemente Serafino, non era un giornalista né un atleta. Aveva inventato dal nulla un mestiere che nessuno prima aveva osato immaginare: fare il tifoso a tempo pieno.
Nato nel capoluogo lombardo nel maggio del 1946, Serafino aveva una particolarità che lo rendeva unico nel panorama sportivo italiano: non aveva una fede calcistica. In un paese dove il tifo è spesso questione di vita o morte, dove si eredita la maglia del cuore come un cognome, lui amava indistintamente tutte le compagini che vestivano i colori nazionali. L’importante era l’Italia, non importava se si trattasse di pallone, canestri o racchette.
La sua voce possente – aveva studiato canto lirico senza mai sfondare – risuonava negli impianti sportivi come una sirena. Quando la Rai trasmetteva un evento importante, i telespettatori sapevano che prima o poi la regia avrebbe inquadrato quel faccione sorridente, magari con un cappello folkloristico o un piatto fumante in mano. Non era casualità: Serafino era diventato parte dello spettacolo stesso, un elemento di colore che il pubblico si aspettava di vedere.
Il professionista dell’entusiasmo
Come si mantiene un tifoso professionista? Questo era il mistero che circondava Serafino. La realtà era meno glamour di quanto si potesse pensare: dormiva dove gli capitava, accettava passaggi da sconosciuti, mangiava grazie alla generosità di chi incontrava. I biglietti? Li otteneva con un mix di insistenza e simpatia contagiosa. Conosceva ormai tutti nell’ambiente sportivo italiano, e molti dirigenti avevano iniziato a considerarlo una sorta di amuleto vivente.
Alcune società intuirono il potenziale mediatico di questa figura: il Palermo di Renzo Barbera, l’Inter dell’era Sandro Mazzola, il Milan quando in campo c’era Gianni Rivera, persino la Juventus di José Altafini. Tutti, in momenti diversi, decisero di “ingaggiarlo” ufficiosamente per infiammare il tifo. Curioso che un ragazzo cresciuto all’ombra della Madonnina non avesse problemi a sostenere con uguale trasporto nerazzurri, rossoneri o bianconeri: per lui contava solo il colore azzurro della nazionale.
La sua fedeltà alla causa italiana lo portò a seguire anche sport meno popolari. Quando nel 1972 Simmenthal Milano e Ignis Varese si giocarono lo scudetto di basket in uno spareggio memorabile, Serafino era lì, a tifare paradossalmente per la squadra lombarda rivale della sua città. Accompagnò perfino la Pistoiese nella sua scalata dalle categorie minori fino al massimo campionato, un’avventura che solo un vero romantico dello sport poteva apprezzare fino in fondo.
Quando il tennis diventò un ring

Se nel calcio la sua presenza poteva confondersi tra migliaia di voci, nel tennis Serafino diventava inevitabilmente il centro dell’attenzione. Gli spalti raccolti, il silenzio tra un punto e l’altro, la concentrazione degli atleti: tutto amplificava la sua voce tonante. Ed è proprio sui campi da tennis che avvenne l’episodio che lo consegnò alla leggenda.
Era il 1979, finale di Coppa Davis a San Francisco. Gli azzurri affrontavano gli Stati Uniti sul loro campo, e Adriano Panatta se la vedeva con John McEnroe, già noto per il suo carattere fumantino. In un momento di pausa, Serafino fece irruzione sul campo. Non era la prima volta che si verificavano queste “invasioni”, ma stavolta inciampò platealmente davanti al campione americano. McEnroe andò su tutte le furie, mentre Panatta non riusciva a trattenere un sorriso divertito.
Il capitano azzurro Nicola Pietrangeli non la prese altrettanto bene: pretese che Serafino venisse allontanato dalle competizioni di tennis. Ma i giocatori, si mormorava, non erano poi così contrari a quella presenza rumorosa che in qualche modo li faceva sentire a casa anche dall’altra parte dell’oceano. La situazione divenne così problematica che Franco Carraro, all’epoca presidente del CONI, tentò una soluzione estrema: gli offrì del denaro di tasca propria affinché smettesse di presentarsi agli eventi sportivi. Tentativo inutile, naturalmente.
Tra mito e stereotipo
La fama di Serafino varcò i confini nazionali in modi inaspettati. La prestigiosa testata americana “Newsweek” gli dedicò un servizio, utilizzando la sua figura per raccontare un certo tipo di italianità. Nel 1978, la Panini fece qualcosa di straordinario: nell’album dei calciatori inserì una sua caricatura, opera dell’illustratore Prosdocimi. Non era un calciatore, non era nemmeno un tecnico, eppure meritava una figurina tutta sua. Era il riconoscimento definitivo: Serafino era entrato nell’immaginario collettivo.

Nel 1971 aveva partecipato a “Rischiatutto”, il popolare quiz condotto da Mike Bongiorno, ma la sua vera vetrina rimanevano gli stadi. Le telecamere lo cercavano, sapevano che quella presenza garantiva un momento di folklore autentico. Con i suoi vestiti eccentrici, i copricapi improbabili e quella mole che aumentava progressivamente a causa di una patologia, rappresentava uno stereotipo dell’italiano all’estero: chiassoso, appassionato, sempre pronto a festeggiare con un piatto di pasta.
Non tutti apprezzavano. Nel 1972, durante una trasferta europea dell’Inter a Liegi, un tifoso belga esasperato dai suoi canti lo spinse. Il risultato fu tragicomico: Serafino, con i suoi due quintali di peso, travolse come un birillo una decina di spettatori. Tutti finirono al pronto soccorso, compreso lui. La moglie del presidente dell’Inter Fraizzoli andò a trovarlo in ospedale, convinta che fosse un fedelissimo nerazzurro, e si sentì immediatamente chiedere un rimborso spese. Era il suo modo di sopravvivere: senza vergogna, con la faccia tosta di chi sa di dover tirare avanti con le proprie forze.
L’addio prematuro
Nell’aprile del 1980, Serafino si trovava nella città che lo aveva accolto più calorosamente: Palermo. Il presidente Barbera lo aveva praticamente adottato, vedendo in lui un modo per rivitalizzare l’entusiasmo della tifoseria siciliana. Ma il suo corpo, provato dalla Sindrome di Pickwick – una rara malattia respiratoria direttamente collegata alla sua obesità patologica – iniziò a cedere.
Ricoverato d’urgenza l’11 aprile, i medici gli imposero un regime alimentare severissimo. Ma anche in corsia d’ospedale, Serafino rimaneva fedele a se stesso: gli infermieri, impietositi, raccoglievano una colletta quotidiana per preparargli spremute gigantesche utilizzando cinque chili di arance. Un gesto di affetto che però non poteva cambiare il destino ormai segnato.
Morì il 17 aprile 1980, a soli trentaquattro anni. Le sue ultime parole, secondo quanto riportato, esprimevano il rammarico di non poter assistere ai Campionati Europei che l’Italia avrebbe ospitato di lì a pochi mesi. Anche sul letto di morte, pensava allo sport e alla nazionale.
Un’epoca perduta

Oggi esistono tifosi celebri su Instagram, influencer pagati per presenziare agli eventi, testimonial che trasformano la passione sportiva in business. Serafino anticipò tutto questo di trent’anni, ma con una differenza sostanziale: lui viveva davvero quello che faceva. Non c’era filtro tra la sua passione e il pubblico, non esisteva una strategia di marketing dietro ogni apparizione.
Altri paesi hanno avuto le loro mascotte: il Brasile può vantare “Cotonete” con i suoi capelli impossibili, la Spagna ha “Manolo El Bombo” col suo tamburo martellante. L’Italia ebbe Serafino, e forse fu la versione più autentica di tutte. Non scelse di diventare un’icona: lo divenne naturalmente, semplicemente vivendo la sua ossessione per lo sport azzurro.
Chi lo ricorda ancora oggi – e sono sempre meno – parla di lui con un misto di nostalgia e incredulità. Come era possibile che una persona riuscisse a essere ovunque? Quando qualcuno compariva a troppi eventi ravvicinati, scherzando gli dicevano: “Sei onnipresente come Serafino”. Era diventato sinonimo di ubiquità, di passione senza compromessi.
Il mondo dello sport che Serafino rappresentava non esiste più. È stato sostituito da un’industria miliardaria, da diritti televisivi astronomici, da piattaforme di streaming e commenti in tempo reale sui social. Forse, se fosse nato quarant’anni dopo, avrebbe davvero fatto fortuna come influencer. Ma probabilmente avrebbe perso l’essenza di ciò che era: un uomo capace di attraversare l’Italia in autostop solo per urlare “Forza Azzurri” da qualche tribuna, senza chiedere altro in cambio se non la gioia di esserci.