VIERCHOWOD Pietro: l’ultimo Zar

Ha giocato contro Boninsegna e Shevchenko. Il suo calcio attraversa Maradona e Platini, Van Basten e Ronaldo. Passa per Bettega, Pulici, Paolo Rossi, Altobelli, Pruzzo e Careca. Tocca Rummenigge, Batistuta e Weah e Zidane, sino a sfiorare Bobo Vieri e Pippo Inzaghi. Un difensore vero, un esemplare raro di quella “scuola italiana” che ormai sembra scomparire.

GLI INIZI

Il padre si chiamava Ivan Luchianovic, soldato ucraino dell’armata sovietica prigioniero a Bolzano, Pisa e Modena. Finita la guerra Ivan Luchianovic Vierchowod si rifiutò di tornare in Ucraina, nella fonderia di Ricovo, periferia di Kiev. Si sposò a Spirano, nel Bergamasco. Nel dopoguerra fece il facchino e l’ortolano e poi il meccanico nella fabbrica delle motociclette bicilindriche Rumi. Pietro era un bambino di ferro. Il severo Ivan lo mandò subito a imparare un mestiere e Pietro diventò manovale e aiutante idraulico. E calciatore nel tempo libero. A 16 anni in prima categoria con lo Spirano, c’è anche un provino col Milan, ma c’è anche il tecnico Zagatti ad impedire la nascita di una futura, mostruosa coppia difensiva Baresi-Vierchowod: “Nel tuo ruolo siamo coperti, grazie”. Meglio cosi’.
Dopo una parentesi nella Romanese in serie D (esordio nel 1976, entra all’82’, sui giornali scrivono: Wiechivoch…), va a Como. Vince un campionato di C a 19 anni, uno di B a 20. Lo compra la Sampdoria, che pero’ e’ in B. Pietro ottiene di restare un altro anno sul Lario: “Preferisco la A”. Non ci rinuncera’ mai.

FENOMENO IN AFFITTO

I problemi cominciano l’anno dopo. Il Como retrocede, la Sampdoria non sale. Mantovani lo manda a Firenze, in prestito. E’ un anno bellissimo, la squadra arriva seconda per un punto, beffata dalla Juve. Lui ci riprova l’anno dopo, ma a Roma: ancora una volta in prestito, qualcuno scrisse addirittura per intercessione di Giulio Andreotti. Pietro non e’ una promessa, ma un campione del mondo che ha avuto la sfortuna di saltare la finale del Bernabeu per una maledetta caviglia dolorante. Era stata la prima beffa della sua carriera: al suo posto a marcare Rummenigge, e ad entrare nel mito, c’era andato Bergomi. Ma il difensore del futuro, tutti ci scommettono, e’ lui. E solo con lui Nils Liedholm puo’ impostare una Roma con una sorta di difesa a 1: con Nela e Maldera piu’ ali che terzini e Di Bartolomei libero (di attaccare), dietro basta la velocita’ di Pietro.

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L’ERA SAMP

Campione d’Italia. Roma l’ha conquistato dopo un inizio diffidente, vorrebbe restare. Niente da fare: Mantovani, ancora piu’ padrone che padre, lo porta a Genova, con la Samp finalmente in A. Sono 12 anni stupendi, in cui un gruppo inimitabile di giovani campioni fa grande un piccolo club.
Stavolta e’ lui a dire no a Mantovani ogni volta che il presidente ha la tentazione di venderlo: vuol restare fedele al “patto di sangue” firmato con Vialli, Mancini e gli altri, tutti insieme alla Samp finche’ la Samp non vince lo scudetto. Lo vince nel 1991. L’anno dopo arriva in finale di coppa Campioni: per tutti i doriani si apre una ferita che solo Vierchowod e Vialli, in un’ altra squadra, sono riusciti a guarire.

L’ERA POST-DORIANA

Succede che con Mantovani padre muore una certa Samp. Mantovani figlio gli vuole dimezzare l’ingaggio: e’ ora di andarsene. Lo vuole, come sempre, la Juve, che gli guarisce quella ferita: coppa dei Campioni, 1996, a 37 anni. Poi pero’ arrivano Montero e Iuliano e Pietro si sente di troppo. Sceglie Perugia, ma e’ solo un flash: litiga con Galeone (“I suoi metodi non sono adatti alla A”) e pianta tutti dopo un mese. Pare finita, data l’eta’. Invece, guarda il destino: si fa male ancora Baresi (quanti incroci con l’altro totem) e lo chiama addirittura il Milan. Peccato sia il peggior Milan, ma e’ un altro cerchio che si chiude: anche Berlusconi si era sentito dir di no dal Vierchowod doriano. Annata balorda, alla fine deve trovarsi un’ altra squadra o smettere. Trova il Piacenza e con la squadra emiliana disputa tre stagioni contribuendo anche a due salvezze. L’allenatore Simoni però non crede più nel giocatore e convince la società a non rinnovare l’accordo con lo Zar ponendo fine alla carriera del “russo” che si ritira dall’attività agonistica nel 2000, a 41 anni suonati.
Una volta appese le scarpette al chiodo si dedica alla professione di allenatore ma con poca fortuna. Chiamato, prima dal Catania, in serie C1, poi dalla Florentia Viola in C2, in entrambi i casi è costretto ad incassare l’esonero della società. Nel settembre 2005 ottiene una nuova chance dalla Triestina di Flaviano Tonellotto ma, vista la difficile situazione, anche da Trieste è costretto ad andarsene anzitempo.

AZZURRO SBIADITO

Con la nazionale il rapporto e’ difficile: non e’ il cocco di nessun citti’. Gioca con Bearzot i Mondiali dell’86, quelli sbagliati. C’e’, ma non gioca, nel ’90. Rifiuta di esserci nel ’94: dice no a Sacchi perche’ non vuole fare panchina, senza sapere che il destino era pronto a risarcirlo per la beffa dell’82: si infortuna Baresi, lui non c’e’ e si morde le dita. Alla fine racimola 45 presenze in un arco temporale di ben 12 anni, dal debutto nel Mundialito 1981 in Uruguay contro l’Olanda fino all’aprile 1993 nel match contro l’Estonia.

La carriera infinita: pensieri e parole dello Zar

GLI INFORTUNI

«Non mai avuto problemi muscolari. Cioè stiramenti, strappi. O menischi e altre cose di questo tipo. Io solo alcuni buchi ai polmoni, solo pneumotorace…».
Racconta il primo: «A Torino, nel 1991, Juve-Samp. Nell’intervallo dico a Boskov e al medico: “Mi fa male al petto e non riesco a respirare”. Boskov alza le spalle: “Non è niente, passa subito”. Torno in campo e dopo dieci minuti faccio segno alla panchina: “Non ce la faccio, non respiro”. Vujadin mostra l’ orologio: “Dai, gioca mancano ancora cinque minuti”. Sono rimasto un’altra mezz’ora, sino alla fine”. Mi hanno visitato in diversi e liquidato con un sorriso: “Un po’ d’aria nello stomaco, la butti fuori e sei a posto”. Per fortuna poi sono stato visto da uno pneumologo che ha scoperto il buco. Così la seconda volta, una cosa simile. Dicevano di non preoccuparmi, che non era niente. La diagnosi me la sono fatta da solo, ormai ero pratico».
Il terzo buco al polmone a 37 anni Torino. «Giocavo nella Juve. Robetta, sono tornato quindici giorni dopo».

IL PIU GRANDE: MARADONA

Due parole su Diego: «Che numeri. Una volta gli ero addosso, incollato. L’avevo, come si dice adesso, ingabbiato. Si è girato con una piroetta, un tunnel ed è volato via. Io allora sono scattato e l’ho raggiunto e chiuso in angolo e lui si è messo ridere: “Hanno ragione a dire che sei Hulk: ti manca solo il colore verde”».

VAN BASTEN

Due parole su Marco: «Alcuni anni fa, l’ho visto a Montecarlo. Era in piscina con la bambina e mi ha chiesto: “Ma tu giochi ancora?” Era triste, è stato imbarazzante. Lui si era ritirato a 29 anni, io ne avevo 40 ed ero ancora in pista. E’ stata una perdita immensa. Noi del calcio, tutti noi, non sappiamo cosa abbiamo perso con l’ addio di Marco. Giocatore unico, forse come i nostri duelli. Erano duri e spigolosi, ma leali. Ci siamo battuti e picchiati, non si è mai tirato indietro. Non era cattivo come Bettega, ma il gomito lo alzava anche lui»

ALLA JUVENTUS

La Juve, una stagione, un trionfo. «L’allenamento cominciava alle dieci del mattino, io alle otto e mezzo ero già in campo. Spesso arrivava l’Avvocato. Non mi chiedeva di calcio, era curioso di tutto. Era stato in cavalleria e voleva sapere di mio padre soldato dell’armata sovietica. Della prigionia, del suo lavoro in Ucraina. Poi parlava anche della Juve… Nella Juve sono stato bene, c’era la struttura ideale per giocare al calcio. Come al Milan: tu devi pensare solo a fare il giocatore. Alla casa, all’affitto, al pediatra ci pensano loro».

ALLA ROMA

«Un’altra realtà, altra dimensione, altri giocatori: Ancelotti, Falcao, Prohaska, Bruno Conti. E il Barone… Ci affascinava con i suoi racconti surreali. Liedholm era molto superstizioso. Sulle maglie, ad esempio. Non potevamo prenderle, doveva consegnarle lui. Una volta, l’ho strappata dal mucchio, tanto sapevo il numero. Mi ha guardato malissimo: “Se succede qualcosa la colpa è tua. Non farlo più, capito?” Un’altra volta mi metto, per sbaglio, il suo cappotto: nelle tasche c’era di tutto. Ma proprio di tutto: sale, ciondoli, amuleti, boccettine, cornetti. Uomo fine e ironico ma credeva a queste cose».

CONSUNTIVI

La Sampdoria, la squadra della sua vita… «Mia, di Vialli, Mancini, Cerezo. Di tutti. Era la squadra degli amici e siamo stati un meraviglioso, irripetibile gruppo. Lì ho vinto, è stato fantastico. Ma è stato bello con tutte, perché tutte mi appartengono. Prima il Como: la prima famiglia. Poi la Fiorentina: la scoperta del grande calcio. Sono tornato a Firenze per questo, ho sbagliato. La Roma: il primo scudetto. La Juve: la coppa dei Campioni. Il Milan: il momento sbagliato. Dovevo arrivare nel 1990, Il presidente Paolo Mantovani mi bloccò. E il Piacenza: la rinascita, in campo a quarant’ anni. Ma sono solo ricordi».


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