Ad un passo dalla gloria

Sei storie di sei outsiders per sei scudetti mancati


VENEZIA 1941/42

La guerra bussava ormai prepotentemente alle porte dell’Italia, ma il campionato proseguiva. Nonostante gli allarmi aerei e le notizie catastrofiche che arrivavano dal fronte. Nonostante tutto. E il calcio non smetteva di raccontare le sue piccole grandi storie. In quel 1941/42, il Venezia era una società tanto umile quanto coraggiosa. Aveva già dimostrato il suo valore l’anno precedente, quando era riuscita a conquistare una splendida Coppa Italia. Forte di una delle migliori coppie di centrocampisti di tutti i tempi, quella formata dal roccioso Ezio Loik e dal sommo Valentino Mazzola, la compagine neroverde rischiò il colpaccio anche in campionato, cogliendo un fantastico terzo posto a soli quattro punti dalla Roma campione. Un exploit che non fu destinato a ripetersi. Con il passaggio al Torino di Loik e Mazzola proprio in quell’estate ‘42, la stella del Venezia si eclissò, lasciando però di quelle incredibili imprese un ricordo che in Laguna si tramanda tuttora di padre in figlio.


LIVORNO 1942/43

Il 1942/’43 è ilprimo dei cinque capolavori consecutivi del Grande Torino, forse il più sofferto. Merito di un avversario tenace come il Livorno, una squadra priva di grandi campioni eppure capace di guadagnarsi la palma di sorpresissima del campionato. In avvio, i toscani collezionano qualcosa come sei vittorie consecutive, tra cui quella epica proprio sul campo del Torino. Ha quindi inizio un duello esaltante, che vedrà appaiati granata ed amaranto per tutta la durata della stagione. A quattro giornate dalla fine, ecco il guizzo che pare decidere le sorti del torneo: grazie a una sofferta vittoria sull’Atalanta, il Toro di Loik e Mazzola sorpassa in vetta il Livorno, sconfitto a Roma da una rete del grande Amedeo Amadei. Si decide tutto negli ultimi novanta minuti. Gli amaranto liquidano agevolmente il Milano, mentre i piemontesi, a Bari, non riescono a risolvere un match complicatissimo. Fino all’86°: Mazzola fa esplodere in un boato i tifosi granata, che, dall’alto del loro punto di vantaggio, centrano uno tra gli Scudetti più esaltanti che si ricordino. Dopodiché, la guerra travolgerà in pieno il nostro Paese, ed anche il calcio smetterà di raccontare le sue piccole grandi storie.


UDINESE 1954/55

Quando il Milan, alla vigilia del campionato 1954/’55, acquistò il celebre uruguayano Juan Alberto Schiaffino ed il giovane, promettentissimo difensore Cesare Maldini, che andavano a loro volta ad impreziosire un organico che aveva già in Nils Liedholm, Gunnar Nordahl e Lorenzo Buffon i fiori all’occhiello, gli esperti erano tutti concordi: quell’anno, si sarebbe lottato per il secondo posto. E in effetti sarebbe andata proprio così, con il Milan campione seppure dopo aver sudato le classiche sette camicie. Chi fu dunque ad impensierire così tanto l’armata rossonera? Semplice: l’Udinese. Un fiore sbocciato all’improvviso tra le mani di Peppino Bigogno, allenatore di infinito buon senso e dallo stile impeccabile. Tutto iniziò nel peggiore dei modi, con tre sconfitte nelle prime tre giornate. Soltanto dopo Natale, l’Udinese riuscì a far quadrare i conti, regalando ai propri tifosi un calcio di pregevole fattura. Stelle della squadra erano il goleador Lorenzo Bettini e, soprattutto, lo svedese Arne Selmosson, detto “Raggio di Luna”, fuoriclasse acquistato per un pugno di lire eppure rivelatosi uno dei migliori talenti del torneo. Con pazienza ed entusiasmo, i friulani inanellarono una serie di 23 gare consecutive senza sconfitte,-in un’irresistibile rimonta che toccò l’apice con la vittoria a San Siro contro il Milan. Era il 1° maggio del ’55, mancavano solo cinque partite alla fine: troppo poche per sognare un incredibile sorpasso sui Diavoli rossoneri, che infatti chiusero al comando con un rassicurante più quattro. Chissà: se la riscossa dell’Udinese fosse partita prima, oggi saremmo qui a parlare di una tra le più grandi sorprese nella storia del nostro calcio. Non fu una favola a lieto fine. Dopo la conclusione del campionato, i friulani vennero retrocessi a tavolino a causa di un illecito commesso due anni prima, e sulle imprese di Bettini e Selmosson calò definitivamente il sipario.


L.R. VICENZA 1977/78

Alla fine degli anni 70, il calcio stava pian piano cambiando. In Italia, la chiusura delle frontiere non permise alle società di tesserare i campioni stranieri, così, dall’estero, ci si limitò ad importare le idee. Sì, perché l’allenatore del Lanerossi Vicenza nel 1977/78 era una vecchia volpe come Gibì Fabbri, tecnico innamorato di quello stile di gioco spregiudicato e spettacolare che in Olanda chiamavano “calcio totale”. Il suo “Johan Cruijff” si chiamava Paolo Rossi, attaccante poco più che ventenne già nel giro della Nazionale. L’anno prima, i suoi 21 goal avevano messo le ali ai sogni vicentini nel campionato cadetto, ma da lì a pensare che anche in Serie A il giovane bomber potesse fare la differenza, beh, ce ne correva. E invece, non solo Pablito avrebbe migliorato il bottino (lievitato a 24 reti), ma tutto il Vicenza avrebbe sfoderato una stagione “monstre”, conclusa addirittura al secondo posto. Lo Scudetto (sai che novità…) finì alla Juventus, ma la parte del leone la recitò proprio la squadra di Fabbri, soprattutto per via di quel gioco travolgente e così fuori dai canoni a cui all’epoca si era abituati.


PERUGIA 1978/79

Solo un anno dopo, un’altra provinciale di lusso era pronta a far parlare di sé. Era il Perugia di llarìo Castagner. Un undici compatto, registrato in difesa dal granitico Piero Frosio e ispirato, là davanti, dai guizzi di Salvatore Bagni, futura colonna di Napoli e Nazionale. Che il 1978/79 si sarebbe rivelato irripetibile, i perugini lo capirono alla quarta giornata, quando una grande vittoria a Torino sulla Juventus proiettò in orbita le quotazioni del Grifone. Fu un campionato disputato sotto il segno della regolarità: zero sconfitte, miglior difesa e ben sette pareggi a reti inviolate. Ecco, forse, qual è stata la pecca più grande: l’eccessiva prudenza con cui il Perugia ha affrontato alcuni incontri. Se avesse osato di più, se avesse cercato la vittoria con più insistenza, probabilmente sarebbe riuscito ad avvicinarsi ulteriormente al Milan campione, oppure addirittura a superarlo. Discorsi che oggi lasciano un po’ il tempo che trovano. Meglio invece applaudire ancora una volta quel secondo posto che fu visto da tutti come un piccolo prodigio calcistico.


PARMA 1996/97

Prendete un manipolo di giovani campioni affamati di successi, aggiungete un tecnico preparato che fa del buon senso la sua arma vincente, insaporite il tutto con una pioggia di quattrini garantiti da una società ambiziosa, mescolate con cura ed otterrete il super Parma degli anni 90, una delle principali attrazioni di quella Serie A che, ai tempi, era giustamente considerata il campionato più bello del mondo. Un campionato che i Ducali non sarebbero però mai riusciti a conquistare. Avrebbero forse potuto rompere il sortilegio nel 1996/97, se la solita Juventus non ci avesse messo lo zampino. Quell’anno, è vero, i bianconeri erano i grandi favoriti, ma il Parma, uscendo subito dalla Coppa Uefa, potè concentrare le sue migliori energie esclusivamente sul fronte interno, al contrario dei rivali, chiamati alla strenua difesa del titolo europeo nonché all’assalto delle ambitissime Supercoppa Europea e Coppa Intercontinentale. Ne nacque un torneo tutto sommato mediocre, in cui i ragazzi di mister Ancelotti non diedero mai veramente la sensazione di insidiare la corazzata di Lippi. Nonostante l’esplosione di tanti giovani talenti, da Buffon a Cannavaro, da Crespo ad un immenso Thuram, gli emiliani dovettero accontentarsi dì un dignitoso secondo posto, seppure a sole due lunghezze da Madama. Fu il miglior risultato della storia del Parma, non sufficiente, purtroppo, a sfatare il tabù tricolore.

Testo di Stefano De Martino