Dicembre 1977: dalle colonne del Guerin Sportivo Sandro Ciotti regala un divertente ritratto del grande Dino Zoff, futuro Campione del Mondo
Ormai lo hanno proditoriamente calato in questo astuccio di personaggio tutto di un pezzo, granitico nella sua severità polivalente (e cioè di costumi e di linguaggio, di abitudini e di giudizi) e non c’è niente da fare: il primo che si azzardasse ad avanzare l’ipotesi di uno Zoff non diciamo ridanciano, ma gioviale, non diciamo orgiastico, ma appena appena disposto al sorriso, verrebbe guardato con l’aria commiserevole con cui si guarda un pazzo. Un pazzo dissacratore, per giunta.
Perché questo popolo di molto presunti umoristi che noi siamo ama i miti severi, epici, suscettibili di incoraggiare la più ampia utilizzazione della massima risorsa nazionale (la retorica). Proporgli uno Zoff in pantofole (magari accreditandolo, per buon peso, della capacità di esibire battute disincantate) sarebbe come dedicare una monografia al talento di Von Braun come giocatore di bocce o varare un’inchiesta avente per tema i dubbi circa la femminilità di Amanda Lear. Tuttavia una certa pervicace vocazione al rischio e la consapevolezza di muoverci in una palestra — come quella del Guerino — di solide tradizioni anticonformistiche ci induce ad alcune folgoranti memorie che avremo l’ardire di elencare:
1) Con nessun azzurro del calcio ci è mai capitato di ridere di gusto come con Zoff il Super severo.
2) Per quel pochissimo che ne sappiamo pochi padri sono così poco severi con la prole come lo è il Supersevero con il figlio Marco (al quale viene tra l’altro consentita una liberalità di linguaggio di norma concessa solo ad alcuni portuali marsigliesi).
3) Mai sentito il Supersevero fare esercizio di severità giudicando colleghi o avversari. E allora? Che vogliamo fare? Spingerci sino al punto di mettere in dubbio persino la riservatezza del Supersevero? Ma si capisce: già che ci siamo!
Si è sempre detto: «Neanche il tentativo polemico più provocatorio riesce a fare uscire Dino Zoff dalla sua biblica riservatezza». Negheremmo. Quando Ghezzi, da vero «kamikaze» (e magari proprio puntando sul Mito della Riservatezza del Supersevero che avrebbe impedito al medesimo di uscire allo scoperto) dichiarò che il portiere era bravino ma non troppo, coraggioso ma non troppo, acrobatico ma non troppo, aggiungendo che ai suoi tempi sì che i portierissimi si sprecavano, il Super-severo prese cordialmente cappello replicando morbidamente (è severo, questo sì, con decibel: non alza mai la voce) che il «kamikaze», avendo giocato solo sei volte in Nazionale, contro le sue millanta, non disponeva di pulpiti adeguati a certe prediche, che la preparazione in uso oggi è di gran lunga più rigorosa e massacrante di quella vigente negli anni ’50 e che, quanto alle usci te (che a dire del « kamikaze » non rappresenterebbero un punto esclamativo nel repertorio del Supersevero) era opportuno considerarle come quelle delle coppie, che sbagliano egualmente sia uscendo troppo che troppo poco.
E, più recentemente, il Supersevero si sottrasse ancora, e clamorosamente, al Mito della Riservatezza, quando venne punzecchiato dal giovane Mattolini il quale, alla vigilia di Napoli-Juventus, dichiarò che i portieri stranieri, gli acrobati del gran calcio internazionale, uscivano più spesso e meglio di Dino. E il Dino medesimo, confermando una vocazione per la battuta che almeno per noi è sempre stata trasparente, avanzò – sempre morbidamente – l’ipotesi, suggestiva quanto attendibile, che il Mattolini avesse visto all’opera i pregiati portieri internazionali solo via Capodistria e prospettando l’opportunità di lasciare certe sentenze a chi, invece, li aveva affrontati di persona.
Intuiamo, a questo punto, la perplessità (o addirittura lo sgomento?) dei nostri lettori. «Vuoi vedere» – supponiamo stiano per dire – «che Zoff è un frivolone, un maledetto estroverso, goliardo per vocazione e portiere per necessità?». Ma no, ma no, è chiaro! E’ stata anzi, la sua parabola, particolarmente generosa di connotati che contraddicono certe immagini. Senza arrivare a dire che la sua è stata una carriera costruita sul sudore e le lacrime è certamente doveroso ricordare che lo è stata sul sudore e i sacrifici, sul sudore e il controllo di se stessi, soprattutto sul sudore e certe ardue scelte iniziali. Ad anni sedici per il futuro Supersevero si trattò, nel giro di ore, di decidere se fosse meglio fare il meccanico motorista a Gorizia a 60.000 lire al mese o il portiere a Udine per 30.000.
E, nell’occasione, a nessuno saltò in testa di incrociare nei paraggi per informare Zoff che sarebbe diventato Zoff sicché Zoff, decidendo di tentare di diventare Zoff, eseguì con friulana computazione il «numero» più familiare all’uomo italico medio (il salto nel buio) facendo notevole esercizio di coraggio.
Tanto più che Zoff senior aveva chiaramente partecipato a Zoff junior che per un pallone si può delirare, ma anche fare la fame laddove non c’è motore, per perfetto che sia, che non abbia, a giuoco lungo, bisogno di essere riparato. Dino decise invece di mettere il suo motore (cioè quello della sua vitalità, del suo talento, delle sue speranze) nel pallone e questo, come una mongolfiera non in debito di idrogeno, lo ha fatto lievitare sin dove sappiamo.
Ma se fosse andata male, con questi motori che – come l’inflazione – non aspettano? Le tappe verso il mito sono note a vecchi e bambini: Marianese, Udinese, Mantova, Napoli, Juventus, Nazionale. Ha vinto molto, compreso l’ufficializzazione quale miglior portiere continentale di cui lo gratificò «France Football», e ha conosciuto tanta gente (certo più di quanta avrebbe voluto conoscerne) ma concede, con friulana parsimonia, la sua amicizia solo a due o tre personaggi del pianeta in cui si muove. Tentiamo tre nomi: Giagnoni, Morini, Juliano. Il Supersevero è coerente: se ci pensiamo bene i tre hanno precise parentele caratteriali.
Coerente e schietto: quando Schoen lo volle nella rappresentativa del MEC e riunì i convocati catechizzandoli per due ore in tedesco fu l’unico che ebbe il coraggio di dirgli che non aveva capito un’acca. Coerente e sensibile. Ci passò vicino negli spogliatoi perugini nella sinistra domenica che derubò Renato Curi. Era terreo, sconvolto, gli occhi smarriti, disperati di una disperazione quasi impudica, immagine struggente di un dolore virile ma totale. Coerente e sobrio. Para pensando alla squadra e al risultato, non agli applausi. Se un intervento inelegante dà più garanzie di uno stilisticamente impeccabile lo adotta senza esitazioni, se una goffa respinta di piede è da preferire ad un plastico plangeon che vellicherebbe la tifoseria delle curve se ne infischia della tifoseria.
Coerente e schivo. Quando il cronista in fregola di adulazione ne loda sperticatamente il senso del piazzamento replica secco secco che senza quello come base innata chi si mette in porta anche in uno scontro tra scapoli e ammogliati è solo un pazzerellone che non fa ridere nessuno. Coerente e amico mio. Non nel senso in cui lo è dei succitati compagni di recinto, ma nel senso che – allergico, com’è ai microfoni – quando capisce che di una intervista con lui ho davvero bisogno non me la nega mai. E non è mai roba da routine: ha sempre una sua verità da dire, una notazione acuta da proporre.
Coerente e autorevole. Nessuno, in nessuna squadra, ha l’ascendente che lui si ritrova ad avere sui compagni senza averlo in alcun modo promosso (e forse proprio per questo). Coerente e revanscista. Con i mondiali di lingua spagnola (dopo la sofferta panchina messicana) ha un conto aperto. Chiudilo al meglio, Dino, farai un favore a tutti. Compreso il severamente tuo… Sandro Ciotti