Dino Zoff: Decenni

La grandezza di Dino Zoff non risiede solo nei suoi successi sportivi, ma anche nell’integrità e nell’umiltà che ha sempre dimostrato, sia in campo che fuori. La sua figura rimane tuttora un esempio per tutti gli sportivi, un simbolo di dedizione e di amore per il gioco del calcio.
In questo post, viaggeremo attraverso il tempo, esplorando la carriera straordinaria di Zoff, decennio per decennio, attraverso le interviste rilasciate in tutti questi anni.

Sommario:

Anni ’40: Nato nel 1942, Dino Zoff inizia il suo viaggio nel calcio in un’epoca di ricostruzione post-bellica. Cresciuto a Mariano del Friuli, la sua passione per il calcio prende forma nei campi polverosi dell’Italia del dopoguerra.

Anni 50: La fine degli anni ’50 segna l’inizio della carriera giovanile di Zoff, dove la sua dedizione e il suo talento iniziano a brillare. La sua ascesa nel calcio professionistico è all’orizzonte.

Anni 60: Il debutto di Zoff in Serie A avviene nel 1961 con l’Udinese. Questo decennio vede la sua crescita come portiere di spicco, culminata con la vittoria del Campionato Europeo nel 1968 con la nazionale italiana.

Anni 70: Gli anni ’70 sono testimoni della maturazione di Zoff come uno dei migliori portieri al mondo. La sua carriera è arricchita dai ripetuti successi con la Juventus, dove la sua presenza in campo diviene sinonimo di sicurezza e affidabilità.

Anni 80: Il culmine della carriera di Zoff arriva negli anni ’80, quando, all’età di 40 anni, solleva la Coppa del Mondo come capitano della nazionale italiana nel 1982. Un decennio che segna anche il suo addio al calcio giocato.

Anni 90: Dopo il ritiro Zoff non abbandona il mondo del calcio, ma intraprende la carriera di allenatore, guidando Juventus, Lazio (anche come dirigente) e la Nazionale con cui raggiunge il secondo posto a Euro 2000.


ANNI ’40: UN MONDO A PARTE

Mariano del Friuli, un punto sulla carta geografica tra Udine e Gorizia. Case basse tagliate da una strada che auto e camion attraversano a gran ritmo. Un posto di passaggio, oggi. Millecinquecento anime, più o meno lo stesso numero di allora. Oggi per lo più sono volti scavati dal tempo e dalla fatica, facce di furlàns orgogliosi della loro vita di paese, dei loro miti che resistono agli anni. Facce come quella di Dino Zoff. Uno che quel paese non l’ha mai dimenticato, perché le radici non si tagliano da queste parti. Qui vivono ancora gli amici di allora, quelli che crescevano insieme al piccolo Dino in un’Italia che usciva dalla guerra, giovane e piena di speranze e sogni, come loro.

«I miei anni Quaranta sono stati quelli di un bambino che cresceva sano e tranquillo in un paese. La guerra? Mentirei se dicessi che mi toccava, è finita quando avevo appena tre anni, mi ha sfiorato e non ho fatto in tempo a comprenderla. Sono venuto su coltivando il tempo del gioco, si stava in giro anche sei o sette ore al giorno, e non c’erano pericoli per i ragazzini come me, se non quelli accentuati dalla nostra incosciente irruenza. Il calcio era un prato di campagna, il nuoto un torrente, i boschi servivano per giocare all’epopea del West, dividendoci tra indiani e cowboy, o a rivivere il mito di Tarzan, rischiando di romperci l’osso del collo sugli alberi, questo sì. Ricordo un ‘infanzia a contatto con la natura, splendida sotto tutti i punti di vista. È stata una fortuna, quella di nascere in un piccolo paese di campagna».

Difficile anche evidenziare il confine invisibile tra gioco e sport.

«Lo sport cambiava a seconda delle stagioni. D’estate c ‘era il torrente, ghiacciato, dove apprendevamo i segreti del nuoto. La corsa era alla base di tutto. E poi, certo, ogni angolo era buono per tirare quattro calci a un pallone. Eravamo liberi. Per i bambini che oggi vivono in città o in periferie in cui trovi a fatica un pò di verde, è diverso: per nuotare bisogna andare in piscina, farsi accompagnare dai genitori. Noi, semplicemente, uscivamo di casa».

«Ogni tanto si giocava in uno spiazzo, davanti a casa mia. Disegnavo la porta sul muro: già allora mi piaceva giocare in quel ruolo. Non so da cosa sia nata, la passione. Non certo dalla televisione, che allora non portava immagini di calcio nelle case come succede adesso. Semplicemente, mi scelsi quel ruolo. E per tutti i miei compagni, quando si giocava, ero Dino, il portiere. Questo mi rendeva orgoglioso. Si sa come succede, di solito, in questi casi: in porta ci va quello più scarso della compagnia. Non era il mio caso: io venivo proprio scelto, come numero uno. E ne ero felice».

Al paese dicevano: bravo, ma se crescesse un po’ in altezza sarebbe meglio.


«Già, era l’unico problema. Non ero quel che si dice un gigante, anzi. La crescita è arrivata di colpo, tutta in una volta. Ma questo è successo un po’ di tempo dopo, negli anni dell’adolescenza. Però l’infanzia è stata importante anche in quel senso, direi formativa. Una palestra a cielo aperto, dal punto di vista dello sviluppo fisico».

Intanto, papà Mario e mamma Anna vigilavano sulla crescita morale. Senza pressioni, ma con attenzione.

«Mi lasciavano gli spazi del gioco, ed era normale. Ero un bambino. L’ho detto, c‘era un senso di libertà che oggi non si può più respirare. Non c’erano pericoli, nella mia terra, a quei tempi».


ANNI ’50: HO FATTO UN SOGNO

Il calcio, quello vero, è un’emozione che si fa strada a metà degli anni Cinquanta. Sulle macerie della guerra è risorta un’Italia che ha voglia di dimenticare, di seppellire in fretta i dolori. Non è ancora boom economico, ma la strada è imboccata. Lassù, a Mariano, è ancora provincia, e i ritmi della campagna scandiscono le giornate come dieci anni prima. Dino Zoff apre la scatola dei sogni, l’intero paese assiste alla sua maturazione, e sogna insieme a lui.

«A tredici anni sono stato inserito nella squadra del paese. Il ricordo più vivo? Il fatto che improvvisamente mi sembrava di entrare in un altro calcio. Con le divise ufficiali, e squadre “vere” di fronte. E poi, tutta Mariano incominciava a vivere una specie di favola. Dico, eravamo millecinquecento anime, ci si conosceva tutti. La gente sapeva che in porta ci sapevo fare, e quella faccenda dell’altezza diventò una specie di problema della comunità. Non scherzo: davanti a casa mia c ‘era una specie di fonderia, un posto in cui si lavorava il legno, e ogni quindici giorni il titolare mi chiamava per misurarmi con un metto a muro. Era il controllo periodico, tutti volevano sapere se e quanto stavo crescendo».

Gli anni della Marianese. Dino giocava, naturalmente in porta, e prima di tutto lavorava, perché il calcio era un sogno da coltivare con discrezione, senza troppi voli di fantasia.

«A casa mia non era concepibile che uno potesse pensare a un futuro da calciatore. Mamma e papà erano stati chiarissimi: o studi o impari un mestiere; poi, se davvero ci sai fare, giochi a pallone. Così è stato. E così doveva essere, non ho mai dimenticato di ringraziarli per avermi fatto fare la scelta giusta».

Gli è rimasta, nel tempo, quella visione un po’ speciale del calcio, un mondo dorato da affrontare con determinazione ma senza eccessi.

«Ho sempre considerato questo mestiere da dilettante. Proprio così, è la parola giusta. Mi sono sempre considerato un dilettante del pallone, anche nei momenti importanti della mia carriera, anche quando ho fatto il professionista ad alto livello. Ma in fondo anche il concetto di professionismo è cambiato, nel tempo. Oggi è quasi sinonimo di programmazione, freddezza. Di me si è sempre detto che davo un’immagine di assoluta sobrietà, in campo. E invece io ci mettevo l’anima, e ho sempre dato tutto, ho lavorato senza fare troppi conti sul domani, senza risparmiare energie. Il calcio io l’ho attraversato a tavoletta».

Imparando, come volevano mamma e papà, un altro mestiere. Anche quello ispirato dalla passione. Sono i tempi dell’officina. Dino parte ogni mattina in bicicletta verso Gorizia.

«Lavoravo in una grandissima officina, facevo il motorista. Mi piaceva mettere le mani dentro ai motori. Non avessi fatto il calciatore, sarebbe stato il mio futuro, probabilmente. Ma è andata così. Sono arrivato a giocare in Promozione, poi alla De Martino dell’Udinese».

Udine è il primo viaggio vero, pochi chilometri e sembrano un’infinità.

«Lavoravo in officina e due volte a settimana andavo ad allenarmi dietro al vecchio stadio Moretti. Prendevo la corriera, arrivavo di corsa all’allenamento e di corsa tornavo a prendere l’ultimo pullman per Mariano».

Ricordi di un ragazzo a cui si sta aprendo un mondo nuovo davanti. Pure, il più vivo tra tutti è una delusione fortissima.

«Proprio così, se penso agli anni Cinquanta mi viene in mente quell’occasione mancata. Dunque, ho diciassette anni e gioco nelle giovanili dell’Udinese, quando inizia a circolare la voce che mi chiameranno nella Nazionale Juniores. C’è l’Europeo in Portogallo alle porte, i giornali mi danno per titolare certo e alle mie spalle c’è un ballottaggio tra Bonollo e Caposciutti. Di più: in Federazione mi dicono di star pronto, di preparare i passaporti. In paese c ’è fermento, animazione. Come va a finire la storia? Semplice: in Portogallo vanno gli altri due, e il sottoscritto ci resta di sasso».

Bonollo e Caposciutti, poi, non avrebbero avuto la stessa buona stella a ispirarli. Il secondo, addirittura, sarebbe diventato attaccante.

«Centravanti della Sambenedettese, per l’esattezza. E gli capitò di vivere un dramma, quando si scontrò accidentalmente con Strulli, il portiere dell’Ascoli, che morì in seguito a quell’incidente».

Accadde in un maledetto giorno di San Valentino, il 14 febbraio del ‘65. Nel frattempo, Zoff era già un nome da Serie A. Altra storia, storia da anni Sessanta.


ANNI ’60: LA TOPOLINO GRIGIA

Da dove iniziare? Naturale, da quel 24 settembre 1961. La prima volta in Serie A, la sorgente della leggenda.

«Un debutto tragico. A Firenze perdemmo 5-2, mi aveva buttato nella mischia Cina Bonizzoni, ma tornai subito in panchina. E rividi il campo nel finale di campionato, giocando tre buone partite. Andammo a vincere a Palermo, e alla penultima giornata addirittura in casa della Juventus, che a dirla tutta quell’anno giocò un campionato sottotono, ma era pur sempre la Juve. Infine, un pareggio col Bologna. Me li ricordo tutti, quei primissimi minuti in campo. E più di tutti quelli del debutto, con quei cinque gol sul groppone che poi rividi al cinema, in uno di quei cinegiornali che andavano allora nell’intervallo del film. Mi rimpicciolivo nella poltroncina, perché nessuno mi riconoscesse».

Udine, come si diceva, è il viaggio. Non un’avventura, ma quelle corriere da prendere al volo diventano un incubo. Per fortuna, la domenica dopo la partita c’è la Topolino grigia. Quella di Felice Tofful, l’amico che lo segue dappertutto. Che lo aspetta per riportarlo a Mariano dopo la partita. Felice e la sua futura moglie davanti, Dino dietro rannicchiato accanto al borsone da calcio. Si sta stretti, ma il ritorno è più veloce, e in fondo più leggero.

«Dopo quelle quattro partite mi ritrovai, con l’Udinese, in Serie B. E questa volta da titolare. Ma fu una brutta stagione, giocai davvero male, forse per l’emozione di dover dimostrare qualcosa alla mia gente. Forse è proprio vero che non si può essere profeti in patria. Fatto sta che finii nel mirino. Ero malvisto dall’ambiente, avevo contro la stampa, i dirigenti, i tifosi. Sembravo la causa dei mali della squadra. In quel momento delicato, trovai l’affetto e l’appoggio di una persona eccezionale. Il presidente dell’Udinese, Bruseschi, mi difese sempre a spada tratta. E a fine stagione mi cedette al Mantova con le lacrime agli occhi. Lui credeva in me, ma era l’unico in quel momento».

Mantova è la pista di decollo verso i cieli della gloria. È il grande calcio che si accorge di Zoff, e non solo.

«Lì ho conosciuto mia moglie Anna, ho messo le basi per costruire la mia famiglia. In squadra, avrei dovuto fare il secondo a Santarelli, che veniva dal Bologna al posto di Negri per fare il titolare. Ma lui si infortunò quasi subito, e toccò a me. Giocai ventisette partite, nella mia prima stagione mantovana, ci salvammo. Avevo rotto il ghiaccio. Ricordo anche che di lì a poco Edmondo Fabbri, che a Mantova era legato e intanto era diventato Ct della Nazionale, iniziò seriamente a pensare di convocarmi per il Mondiale del ‘66 in Inghilterra. Venne accusato di tenere le parti della società del presidente Nuvolari, e la faccenda finì in una bolla di sapone».

Il miracolo non riesce due volte: l’anno successivo, ‘64-65, il Mantova retrocede, ma anche in quella stagione negativa Dino Zoff è una B delle certezze della squadra. E soprattutto su di lui ci si puntella per la risalita, che è immediata. Un anno tra i cadetti, la promozione. Nel ‘66-67 il Mantova è di nuovo in Serie A, e ha un portiere eccezionale. È anche nelle mani di Zoff il nono posto finale della squadra, e a questo punto è chiaro che il ragazzo deve prendere il volo.

«Dovevo finire al Milan. C’era un accordo verbale, sembrava cosa fatta ed ero entrato nell’ottica di fare quel minimo spostamento, da Mantova a Milano. All’ultimo momento sorsero problemi, l’affare andò in fumo. Finii a Napoli, praticamente fuori tempo massimo. Ricordo che fecero aprire un ufficio postale di notte, per riuscire a spedire alcune pratiche necessarie entro le scadenze stabilite dalle date di mercato. Allora mica c’erano i fax…».

Finì così: Zoff al Napoli, Cudicini al Milan di Rocco.

«E fu la fortuna di entrambi. Fabio, dopo gli anni della Roma, era finito al Brescia, dove aveva giocato solo una quindicina di partite in una stagione. Rocco se ne ricordò quando capirono di avermi perso, lui andò a Milano, si tolse certe ruggini di dosso e giocò sette anni alla grandissima. Quanto a me, mi misi addosso la maglia del Napoli e sei mesi dopo quella della Nazionale…».

L’uomo di roccia e montagna immerso in una città di mare e sole. Un uomo di grandi silenzi in un posto di parole che volano nel vento. Apparentemente, un controsenso.

«Invece furono anni fantastici. E non dimenticherò mai l’impatto con quel pubblico, con quei tifosi. Facevo il militare nella Compagnia Atleti di Bologna, mi feci una tirata da Bologna a Napoli in macchina per arrivare puntuale all’appuntamento con la mia prima partita al San Paolo. Era un’amichevole, ma di lusso perché di là c’era l’Independiente. Feci una partitone, e il giorno dopo i quotidiani titolarono: “Zoff come Nembo Kid”. Un sogno. Comunque è vero, io sono un tipo tranquillo e all’inizio feci anche un po’ forza a me stesso: scendevo in campo prima della partita e correvo a salutare la curva. A me, così timido, sembrava quasi di fare gesti esagerati. Poi ci feci l’abitudine».

Chiudiamoli in un paio di ricordi indelebili, questi anni Sessanta.

«28 maggio 1967, Mantova-Inter 1-0, ultima giornata della stagione ‘66-67. Fu la partita della famosa “papera” di Giuliano Sarti, che costò lo scudetto all’Inter, Io ero lì, sull’altra sponda. E poi l’Europeo del ‘68, in particolare la semifinale contro l’Urss, davanti al pubblico di Napoli. Nessuno riuscì a segnare, finì al sorteggio e per fortuna andò bene a noi. Sembrava non voler finire, quell’Europeo. Due partite anche a Roma, nella finale con la Jugoslavia, e poi quella grandissima gioia. L’immagine del decennio è questa: la vittoria di Roma, avevo ventisei anni ed ero campione d’Europa».


ANNI ’70: MURO IMPENETRABILE

C’è una Vecchia Signora a scandire il tempo del Mito, lungo il cammino degli anni Settanta. Dino Zoff alla Juventus, è il treno che porta verso la gloria. Eppure…

«Eppure io a Napoli stavo benissimo, ed ero anche disposto a rimanerci a lungo. Era l’ambiente ideale, per uno che vive di calciò. Ma Ferlaino aveva deciso altrimenti. C’erano problemi finanziari in quel momento, e io ero uno dei pezzi pregiati della squadra, diciamo così. Insomma, feci le valigie e affrontai l’avventura».

Ambiente nuovo, e che ambiente. Aristocrazia del calcio. Certo, Zoff ci arriva a trent’anni compiuti, non è più il ragazzino timido dei primi viaggi da Mariano a Udine. Non ha più l’età per sorprendersi.

«Io in quell’ambiente ci sono entrato con molta tranquillità. Non con freddezza, intendiamoci, perché non sono mai stato un uomo di ghiaccio. Ho i miei sentimenti, sapevo cosa significava indossare quella maglia, sapevo a quali traguardi avrei potuto aspirare. Ma ero anche consapevole di una grande verità: il calcio è uguale dappertutto, una società può essere più o meno organizzata ma quando vai in campo, se sai interpretare la tua parte, ne esci sempre. Questo mi dicevo, viaggiando sulla strada per Torino. Sapevo per quale compito ero stato chiamato, ero pronto ad assolverlo. Molto semplice».

Dino Zoff approda nella sua prima Juve, quella della stagione ‘72-73. Quella che resterà nel cuore forse più di altre.

«Non ho mai detto che fosse la Juve più bella. Nè la più forte. Era semplicemente la più brillante. Davanti aveva Causio, Anastasi, Haller, Capello, Bettega. Gente così. Non avrebbe mai potuto essere una Juventus monotona non vi pare?»

Come si fa a non essere d’accordo? Quella squadra, naturalmente, agguanta subito lo scudetto. E’ un cocktail perfetto di velocità e fantasia, di classe e dinamismo. Da lì in avanti negli anni, arriveranno altri campioni. Boninsegna e Benetti, i primi. Poi Tardelli, Cabrini, i nuovi stranieri d’Italia, da Brady a Boniek e finalmente Platini. Dalla prima all’ultima, dalla più brillante a quella che probabilmente resta la più forte in assoluto.

«Quella che arrivò a un soffio dalla Coppa dei Campioni, nella finale di Atene. Con Gentile e Cabrini, Platini e Boniek, Scirea e Tardelli, Bettega e Rossi… Sì, quella probabilmente è stata la Juve più forte. Ma alla prima resto particolarmente legato».

Il ricordo del decennio è qualcosa da consumare lentamente, l’esatto contrario di un attimo fuggente. Qualcosa di travolgente, e soprattutto duraturo.

«La cosa più straordinaria che mi potesse capitare. In Nazionale, per giunta. Parlo del record di imbattibilità durato quasi due anni, dal 72 al 74».

Esattamente dal minuto 73 dell’amichevole Italia-Jugoslavia a Torino (20 settembre ‘72) al minuto 46 di Italia-Haiti a Monaco (15 giugno ‘74), nel girone eliminatorio del Mondiale. In tutto, 1143 minuti.

«Fu qualcosa di incredibile, una sensazione fantastica. Cercavo di non pensarci, ed effettivamente in campo mi concentravo sulla partita, ma più i minuti e i mesi passavano e più la faccenda si sentiva. Arrivò addirittura sulle prime pagine di giornali americani, se ne occupò persino Newsweek. Quel primato, indubbiamente, mi regalò una incredibile notorietà. Poi al Mondiale in Germania, purtroppo, finì come finì. Tutta la squadra non giocò al meglio, fu una grande delusione perché ci sentivamo forti».

Altre gioie grandi.

«Una su tutte, la Coppa Uefa del ’77 vinta in finale contro l’Athletic Bilbao. Il primo successo internazionale della Juventus, qualcosa che società e tifosi attendevano da una vita. Ci sembrò di aver fatto una grande impresa, sul campo ai Bilbao».

Chiudere l’ennesima parentesi di vita con una delusione. Forte, intensa.

«Il mondiale d’Argentina, naturalmente. Per me è andata anche peggio che nel ‘74, quella era stata una caduta di gruppo, questa volta nel mirino dei colpevolisti finii soprattutto io. Sapevo di non essere stato all’altezza della situazione, e questo fece soffrire parecchio».

Ma qualcuno andò decisamente oltre. Parlando addirittura di viale del tramonto.

«Avevo trentasei anni e mi sentivo in perfetta forma. Feci i miei errori, in Argentina, e su questo non si discute. Ma le critiche furono piuttosto pesanti, questa volta. Per fortuna, mi ero fatto due spalle larghe».

Si chiama esperienza.

«Il fatto è che le critiche io le ho ricevute da sempre. Ho imparato che per evitarle ho una sola soluzione: devo vincere, vincere sempre. Funziona così».

Provarci, allora. Ti smarrisci al Mondiale del ‘78 e che fai? Ti organizzi per quello che verrà.

«Per reagire bisogna aver dentro questa voglia di rivalsa. Non mi è mai mancata. L’avevo, tornando da quell’avventura in Argentina».

Un’avventura che sfiorò appena, sui campi di calcio di Buenos Aires, Baires, Mar del Plata, Rosario, Cordoba, Mendoza, la tragedia che stava devastando un paese e la sua gente. La vita fuori, che a volte sa nascondersi sin troppo bene perché lo spettacolo continui. Soprattutto se lo spettacolo fa gioco, dà prestigio agli occhi del mondo.


ANNI ’80: IL MONDO IN MANO

Anni Ottanta. Scusate la mancanza di originalità, ma da dove potremmo iniziare altrimenti? Ma sì, in fondo è normale e anche logico: Spagna ‘82, Italia campione del mondo, Zoff che solleva la Coppa e diventa un emblema con quelle braccia sollevate, con quella fascia da capitano, con quello sguardo fiero che senza eccessi esteriori si apre alla gioia. Il campione ha quarant’anni, e in Argentina dicevano che fosse alla frutta, praticamente un ex. Soddisfazione immensa.

«L’apice assoluto della felicità. Trent ‘anni di pallone, di parate, di serietà e passione per arrivare a toccare il cielo con un dito. Ne valeva la pena, pensai in quei momenti e penso ancora oggi. Certi momenti non puoi raccontarli, non puoi fare altro che viverli e lasciarteli scivolare addosso. Sull’erba del Bernabeu, l’11 luglio dell’82, mi ripassò davanti tutta quella lunga carriera, in brevi fotogrammi: i sacrifici, i trionfi, i momenti difficili e quelli in cui ti senti di spaccare il mondo. E in cima a tutto, quegli attimi appena vissuti, quelli della finale contro la Germania. Il momento più bello, anche se non fu quella la partita più importante».

Brasile, invece. Con quella parata al minuto 89 su Paulo Isidoro, al Sarrià di Barcellona.

«Quello fu probabilmente il momento più delicato del Mondiale. Ma là, in mezzo al Bernabeu, con la Coppa finalmente tra le mani, arrivai a capire cos’è la felicità. Ero così felice che quando salii sul palco baciai la regina di Spagna. Probabilmente l’etichetta non lo consentirebbe, ma in quel momento le etichette chi se le ricordava più?»

Era la Nazionale di Zoff, consacratosi Mito. Ed era la Nazionale di Enzo Bearzot.

«Solo lui poteva arrivare a quella vittoria. Solo un uomo così, di grande coraggio, di intelligenza infinita, di profondo sapere. Solo lui poteva dare una coesione al gruppo, un senso di coralità, come effettivamente seppe fare nei momenti più critici di quel Mondiale, quando ci sembrava di combattere la nostra battaglia da soli, tra le critiche. Fu Bearzot a trasmetterci serenità, tranquillità. Quel Mondiale è stata davvero la sua vittoria personale».

E poi via, spazio all’interminabile sequenza di ricordi, fotografie appena scolorite, sensazioni indelebili, attimi e persone insostituibili. Zoff e il presidente Pertini sull’aereo del ritorno, per dire.

«Coppia imbattibile, con un mazzo di carte in mano. Toccò a noi stare insieme, evidentemente ci consideravano i senatori del gruppo. Pertini è stato un grande uomo, a quel successo devo anche l’immenso piacere di averlo conosciuto un po’ più profondamente. Ci faceva sentire l’amicizia, l’affetto di un popolo intero. E lo faceva con grande semplicità, allo stesso modo in cui sapeva interpretare il suo ruolo istituzionale. Ricordo perfettamente il giorno in cui ci invitò a pranzo al Quirinale. A tavola voleva i “suoi vecchi” accanto: Bearzot alla sua destra, il sottoscritto a sinistra. Non volle sentire ragioni. Questa, disse, è la festa dei giocatori azzurri campioni del mondo, e a tavola con me li voglio tutti; i ministri, aggiunse, se vogliono possono accodarsi, ma la loro presenza non è importante come quella della squadra. Era unico, inimitabile».

Che cos’è quella sensazione che prende nel momento in cui guardi in faccia la felicità e sai che più in là non si può andare, che sei arrivato al capolinea della gloria e ringrazi il cielo che sia finita in questo modo? In mezzo all’erba del Bernabeu, un portiere di quarant’anni ha appena vinto, da capitano, il campionato del mondo. Sa che se quella non è stata l’ultima recita, ci siamo vicini. Gioia dell’anima, malinconia del tempo che passa.

«Mi sentivo ancora in perfetta forma. E infatti la mia storia dì calciatore non si chiuse lì. Durò un ‘altra stagione. Ma si sa come vanno certe cose: un anno va tutto a meraviglia, vinci lo scudetto per la seconda volta di fila e vinci anche il titolo mondiale, l’anno dopo paghi pegno e qualche problemino arriva. Così accadde in quella stagione ’82-83: perdemmo il campionato, finendo alle spalle della Roma, e perdemmo quella finale di Coppa dei Campioni contro l’Amburgo, ad Atene. Non mi sono mai chiesto se avrei dovuto chiudere la carriera in Spagna. Presi la decisione dopo la finale di Atene, e non mi sono mai pentito di quell’anno di calcio in più che mi sono messo alle spalle».

Gli anni Ottanta si chiudono sull’altra sponda. Guardando il campo da un’altra angolazione. Dalla panchina.

«Prima l’esperienza da tecnico dei portieri alla Juventus, poi la Nazionale Olimpica, con la conquista della qualificazione per le Olimpiadi di Seul».

Un bilancio di sette vittorie, quattro pareggi e nessuna sconfitta in undici partite. Poi, la nuova chiamata della Juventus. Per la prima squadra, questa volta. Portandosi appresso l’amico di mille battaglie in campo, Gaetano Scirea. Dovrebbe essere l’inizio di una nuova felicità, ma il destino è in agguato, si porta via Gaetano in un incidente stradale in Polonia. Zoff, da quel momento, si sentirà sempre un po’ più solo. Ha perso un amico, e non ha più accanto un uomo che aveva le sue stesse sensazioni, il suo stesso stile, i suoi silenzi e la sua concretezza. Lo ricorderà spesso.

«Senza Gaetano mi sento più povero. E mi fa arrabbiare il fatto che uno come lui abbia ricevuto i giusti onori solo dopo la morte. Prima era stato messo in secondo piano. Succede a chi affronta questo mondo con correttezza. Spesso gli uomini veri sono considerati banali».

Due anni alla Juve, due stagioni di raccolta.

«Vincemmo Coppa Italia e Coppa Uefa, con una squadra buona ma non certo irresistibile. E negli anni in cui a dominare erano Milan e Napoli. Intendo quel Milan e quel Napoli…».

Poi, la rivoluzione, che quando arriva abbatte anche i monumenti. Dalla Juve di Zoff a quella di Maifredi, che il tempo avrebbe ridimensionato.

«Conseguenza di un radicale cambiamento societario. Non si trattò di una decisione improvvisa, conoscevamo tutti i nuovi indirizzi della dirigenza».

Sipario sul decennio del Grande Trionfo.


ANNI ’90: AZZURRO TENEBRA

Anni Novanta. Da Torino a Roma, dalla Juve alla Lazio. Un po’ tecnico, un po’ dirigente. Il Mito a tutto campo, adattato alla vita fuori dal campo.

«Ma non è affatto un salto complicato e difficile. Non cambia molto, in effetti. Eri nel mondo del calcio e ci resti, conosci la gente intorno a te, sai quello che devi attenderti. Quello che muta radicalmente è la prospettiva. Prima, da giocatore, devi pensare a te, vivi il calcio su un piano molto personale. Dopo è diverso: sia da allenatore che da dirigente devi preoccuparti dell’organizzazione del gruppo, devi essere capace di dedicare le tue attenzioni agli altri».

Dunque, all’inizio dell’ultimo decennio di questa lunga e intensa storia, Dino Zoff agguanta le redini della Lazio. Sposa un progetto, un’idea da coltivare.

«Ho preso una squadra che viveva a metà classifica, credo di averla aiutata a crescere. In due anni l’ho riportata in zona Uefa, e certi traguardi da quelle parti erano attesi da parecchio tempo».

Poi, un’altra rivoluzione globale. Con Zeman in panchina, Zoff trova un bell’ufficio da presidente: glielo lascia Cragnotti, che resta azionista di maggioranza. Il concetto è sempre lo stesso:

«Il calcio è il calcio, non cambia. Cambiano solo le sfumature».

Concetto che aiuta a reinventarsi. Stagione ‘96-97, il presidente-allenatore traghetta la squadra dall’era Zeman all’era Eriksson, e la trascina dall’undicesimo al quarto posto. Ma l’ultimo decennio del Mito ha un colore dominante: l’azzurro. Un approdo, una soddisfazione e una delusione grande a un passo dall’ennesimo trionfo.

«Quell’esperienza da Ct, a conti fatti, brucia ancora. Per l’epilogo di Euro2000, una questione di venti secondi tra il trionfo e la caduta. L’avevamo in pugno, quel titolo. Evidentemente, era scritto che dovessimo pagare un pegno alla sorte, dopo che ci aveva aiutato nella semifinale con l’Olanda».

Ci tiene, Dino Zoff, a mettere in chiaro il ruolo avuto dalla fortuna in quella finale di Rotterdam.

«Sicuro. Il destino si è messo in mezzo, ed è stato un destino contrario. Tutti sono stati ben consci di questo, sia negli attimi brucianti dello sconforto che dopo».

Proprio tutti?

«Tutti, tutti. Beh, è vero, qualcuno ha anche preso posizioni diverse, diciamo fuori dal coro. Ma non erano posizioni inerenti al calcio, c’erano altre questioni e non posso accettare di discuterne. Non ho voluto discuterle».

Fine della carriera da Ct. Ma dentro resta un sapore amaro, una specie di rabbia silenziosa. Ancora una volta, Zoff che non vince si discute. Come in quei giorni del ‘78, dopo il Mondiale d’Argentina.

«Già, a Euro 2000 non ho portato a casa il titolo. Non ho vinto, e se io non vinco ho sbagliato tutto. E’ una legge strana, e a volte fatico a comprenderla. In questo ambiente c’è gente che non ha mai vinto molto, ma sa costruirsi un’immagine. Personaggi, mettiamola così. E si fa presto a trasformarli in profeti, anche se non sempre il curriculum deporrebbe a loro favore. Succede. Io il personaggio Zoff ho sempre cercato di costruirlo con il lavoro. Sul campo, duramente e possibilmente in silenzio. Non ho cercato consensi, mai. Non so se ho pagato qualcosa in questo senso, ma io sono contento così, e a posto con me stesso. Mi basta».