Sono passati diversi decenni, ma i poster dell’imprevedibile fuoriclasse venuto da El Salvador si trovano ancora nei bar di Cadice. Giocava un calcio di radiosa bellezza. Di fama, soldi e successo non gli importava nulla. Preferiva vivere: a modo suo
di Andrea De Benedetti
Chi avesse la ventura o la curiosità di visitare Cadice lasciandosi guidare da null’altro che dal profumo di pesce fritto o dal suono austero del flamenco (chitarra sola e voce lancinante), si imbatterebbe prima o poi in un bar fatto all’incirca così: tre o quattro tavolini di legno frequentati da sparuti vecchietti con dentature pericolanti; lungo bancone di acciaio decorato nella parte frontale da motivi vagamente arabeggianti; pavimento ricoperto di moquette fantasia a base di noccioli d’oliva, stuzzicadenti e tovaglioli di carta; pareti pralinate di grasso con attaccate le foto delle divinità più rappresentative delle quattro religioni del luogo: un torero (Rafael Ortega o Jesulin de Ubrique); un musicista flamenco (Camarón de la Isla o Paco de Lucia); una Vergine (a piacere); un calciatore.
Solo in quest’ultimo caso la scelta è univoca ed ecumenica: il poster di Jorge Alberto Gonzalez detto “Màgico”, un poster miracolosamente preservato da fumo, unto e sputi come succede solo a certe reliquie, è presente infatti in tutti i bar, pub, bettole e osterie della città, dove la devozione nei suoi confronti ha resistito al tempo arricchendosi di un’aneddotica fantasiosa e abbondante, tipo vite dei santi.
«Ti ricordi di quella volta che» è l’incipit di tutte le conversazioni rievocative che ne aggiornano la memoria, discorsi la cui credibilità scema di pari passo con l’aumento del tasso alcolico in sala, che uno immagina simile, nei toni e nella composizione antropologica, a quella del Bar Sport di Stefano Benni. E tuttavia la storia del Màgico Gonzalez, che arrivò a Cadice dal nulla, evangelizzò la popolazione con un calcio di radiosa bellezza (Maradona disse di non aver mai visto uno cosi, neppure se stesso), e dieci anni dopo ripartì per l’ignoto avvolto dalla stessa aura mitica e misteriosa di un messia o di Mary Poppins, avrebbe potuto tranquillamente ambire a un capitolo della Leggenda Aurea, o almeno a essere raccontata in un libro di Soriano.
Qualche breve cenno biografico: nato in Salvador da famiglia miserrima (potrebbe essere stato altrimenti?), Màgico si diede a conoscere come calciatore con il Fas de Santa Ana, squadra di vertice del campionato locale che gli servì da trampolino per arrivare in nazionale. Con la maglia del suo paese partecipò a Espana 82 in cui il Salvador si distinse come la selezione di gran lunga più scarsa della competizione (celebre l’1-10 incassato dall’Ungheria) ma lui riuscì ugualmente a esibire parte del suo repertorio guadagnandosi un ingaggio dal Cadice, allora in seconda divisione. Lì rimase per quasi un decennio (intervallato da una cessione in prestito al Valladolid per indisciplina) e poi rientrò nel suo paese dove continuò a giocare fino alla soglia dei quarant’anni.
E cosa faceva di tanto straordinario il Màgico Gonzàlez per convertirsi in un poster incorrotto e immortale? Difficile dirlo. Anche qui, salvo qualche raro VHS, occorre rimettersi alla tradizione orale, che parla di gol di tacco, di suola, di rabona, in sforbiciata carpiata, a occhi chiusi, senza mani, senza piedi, senza denti, e di tanti altri colpi che non sono stati gol per pochissimo ma che forse, a ripensarci, sì.
Perché la fama di un giocatore così geniale e straordinario non abbia mai oltrepassato la provincia di Cadice è presto detto: non gliene fregava niente. Un anno gli offrirono di andare all’Atalanta, dove avrebbe guadagnato cinque o sei volte quanto gli davano in Spagna. Disse di no, perché in Italia «no hay pescado frito», non c’è pesce fritto. Un’altra volta fu sul punto di firmare per il Paris St. Germain. Ridisse di no, «perché a Parigi piove troppo».
Il denaro non gli interessava, non si immaginava nemmeno un futuro da ricco. Quando il presidente del Cadice gli offrì un contratto da un milione e mezzo di pesetas al mese (circa diecimila euro), lui rifiutò, perché c’era una clausola che l’avrebbe costretto a pagare centocinquantamila pesetas per ogni episodio di indisciplina, e lui aveva paura che in quel modo non ci avrebbe guadagnato, bensì rimesso.
Il suo sogno era diventare tassista notturno, sentirsi raccontare avventure mirabolanti, esserne coinvolto. Ma le avventure più mirabolanti erano le sue. Come quella volta che rimase addormentato dentro lo spogliatoio nell’intervallo di una partita contro l’Atlètico Madrid. O quell’altra che alla vigilia di una partita il suo allenatore David Vidal lo stanò in una discoteca di Cadice, e allora lui si nascose nella cabina del dj e lo ritrovarono il mattino dopo sdraiato sul mixer.
Un anno il Barcellona lo ebbe in prestito per una tournée negli Stati Uniti. Durante il soggiorno in albergo a Los Angeles, qualcuno fece suonare per scherzo l’allarme anti-incendio. Tutti scesero in strada tranne lui. Una guardia risalì a cercarlo e lo trovò a letto con una donna. Reazione del Màgico: «non sono stato io!».
Agli allenamenti ci andava con parsimonia e solo se ci si esercitava anche col pallone. Altrimenti, con commovente candore, declinava l’invito: «no grazie: preferisco dormire». La leggendaria fama di viveur sibarita e quella, ad essa complementare, di dormiglione compulsivo, convinsero il presidente Irigoyen a predisporre una marcatura a uomo sul Màgico, costantemente pedinato da un impiegato del club che aveva, tra gli altri incarichi, anche quello di andarlo a svegliare tutte le mattine. A volte, il malcapitato se ne tornava indietro a mani vuote e si doveva subire la ramanzina dell’allenatore, che sfogava contro di lui la sua frustrazione.
Al trofeo “Ramon de Carranza”, torneo estivo piuttosto blasonato, Màgico Gonzàlez riuscì a ribaltare una finale col Barcellona giocando solo il secondo tempo. Da 0-1 a 4-1, due reti e due assist. Un’impresa resa ancora più straordinaria dal fatto che era arrivato allo stadio solo nell’intervallo, dopo che compagni e dirigenti l’avevano cercato invano per tutta la giornata rastrellando le balere e i bordelli di cui era frequentatore abituale. Lo localizzarono a casa, stravaccato sul divano, che guardava distrattamente la partita senza accorgersi che era proprio la sua.
Se ne potrebbero raccontare tante altre di storie così, magari un po’ ritoccate dai narratori e dalla loro memoria, così generosa di dettagli. Il fatto è che anche il presente del Màgico ha assunto contorni leggendari. Dopo l’omaggio che il Cadice organizzò in suo onore nel 2001, infatti, non se ne è più saputo nulla. A San Salvador gli hanno dedicato lo stadio più importante, ma lui non ci va da anni. Periodicamente qualche giornalista spagnolo viaggia in Salvador per ritrovarne le tracce, ma anche lì sembra che nessuno abbia notizie sul suo conto, al massimo qualche informazione di seconda mano non molto più credibile delle agiografie spagnole.
L’unica prova tangibile del fatto che sia ancora vivo è dunque una macchina, una Golf GTI che comprò in Spagna e portò con sé in Salvador, forse l’unico vero risparmio in dieci anni da professionista. Ebbene, a quanto pare la macchina in questione fa capolino periodicamente di fronte alla casa di sua madre. Chissà chi c’è dentro.
Forse il “Màgico”. O forse un tassista.
- Testo di Andrea De Benedetti