La storia agonistica e umana di un campione che per un decennio è stato considerato il più grande calciatore italiano e forse del mondo
“Peppìn Meazza e’ il football, anzi “el folber” per tutti gli italiani. Grandi giocatori esistevano al mondo, magari più tosti e continui di lui, però non pareva a noi che si potesse andar oltre le sue invenzioni improvvise, gli scatti geniali, i dribbling perentori e tuttavia mai irridenti, le fughe solitarie verso la sua smarrita vittima di sempre, il portiere avversario…”
Come non citare il maestro del giornalismo sportivo Gianni Brera per scrivere di Giuseppe Meazza?Cent’anni fa (23 agosto 1910) nasceva a Milano uno dei più grandi se non il più grande giocatore italiano e interista di tutti i tempi. Da bambino gioca a piedi scalzi in strada e nei prati di Porta Vittoria per non rovinare l’unico paio di scarpe comprate da mamma Ersilia, fonda La Costanza, squadra calcistica di ragazzini che partecipa ai vari tornei serali, milita nell’Iris 1914, rischia di finire al Milan per amore di Luigi Cevenini detto Zizì che passa, a cavallo della Grande Guerra, ai rossoneri ed entra, quattordicenne, nei Boys dell’Internazionale. L’esordio nel campionato italiano è come un temporale che spazza via un calcio fatto di lanci lunghi, tecnica approssimativa, ritmi compassati, scarpate e svirgolate.
Di colpo il gioco diventa veloce, imprevedibile, fantasioso. Alla “prima”, nel 6-1 del 25 settembre 1927 contro la Dominante, segna una doppietta (in alcuni resoconti calcistici è una tripletta) e diventa subito l’idolo dei tifosi. Per tutti è già il “balilla” il soprannome datogli dal compagno Leopoldo Conti quando l’allenatore nerazzurro Arpad Veisz , su suggerimento del romano e laureato – eccezione all’epoca – Fulvio Bernardini, decide di lanciarlo in prima squadra.
Di statura media e fisico asciutto, Giuseppe, è seguito da vicino da Arpad che lo allena nei fondamentali carenti come il colpo di testa; per ore lo fa palleggiare contro il muro gibboso del carcere di San Vittore, che crea traettorie irregolari alla palla. E’ curato dai dirigenti dell’Inter che lo nutrono con bistecche per favorirne lo sviluppo. Ma è la crescita sportiva del piccolo campione che impressiona. Dai 12 gol del primo campionato passa ai 33 della stagione successiva, ai 31 del primo campionato a girone unico del 1929/30. E’ l’anno dello Scudetto. Una vittoria che l’Inter, divenuta già Ambrosiana (estate 1928) per volere fascista, aspetta da dieci anni. Nel drammatico match del crollo delle tribune del vecchio stadio Fossati di via Goldoni, 15 giugno 1930, contro il forte Genoa 1893 del cannoniere Virginio Levratto, si carica la squadra sulle esili spalle e segna i tre gol che valgono il pareggio e consegnano virtualmente il titolo ai nerazzurri. Solo poche settimane prima riesce a segnare tre reti alla Roma in soli quattro minuti: al 1°, al 3° e al 4°! Un record rimasto ancora oggi imbattuto. Molte sono le triplette, le quaterne e le cinquine che semina nei campi di tutta Italia.
Amante, da giovane, della vita notturna e del gentil sesso, si racconta che una domenica si sia presentato all’Arena, reduce da una festa e scaricato da un taxi in corsa, solo dieci minuti prima del fischio d’inizio della partita. Vestito di tutto punto, con gli occhi di sonno, avvolto da profumo di donna e sigarette, entra negli spogliatoi mentre le pareti rimbombano delle urla e dei rimproveri di compagni e allenatore. Si cambia e scende in campo. Neanche mezz’ora dopo ha segnato una doppietta…Il ciclo d’oro all’Inter è chiuso nel 1939 quando una cattiva circolazione del sangue gli blocca il piede sinistro. Passerà un anno tra massaggiatori e guaritori finchè il vecchio medico sportivo Arrigone lo visita e capisce che un osso comprime una vena. Viene operato, ridiventa un calciatore ma è tardi… indossa senza entusiasmo le maglie di Milan, Juventus, Varese ed Atalanta (segnando quasi sempre gol dell’ex alla “sua” Inter) per tornare e chiudere nella squadra del cuore nel dopoguerra.
Nell’ultimo campionato, 1946/47, segna due gol decisivi ed evita l’onta della retrocessione alla “Beneamata”. Le sue cifre sono impressionanti: nelle 408 presenze nell’Inter realizza 284 gol con la media di quasi 0,70 a partita. Vince tre scudetti – uno, quello del 1939/40 senza giocare una sola partita – una Coppa Italia e per tre volte il trono di cannoniere.
Come un binario parallelo si sviluppa la sua carriera in Nazionale. Chiamato dal ct Vittorio Pozzo fa il suo esordio il 9 febbraio 1930, neanche ventenne, contro la Svizzera. Dopo una prima parte di gara in cui sbaglia quasi ogni passaggio, sommerso dai fischi e dagli insulti dei tifosi italiani – con la madre Ersilia che scappa dalla tribuna affranta- arrabbiati perché ha rubato il posto al fortissimo bomber napoletano Attila Sallustro, cambia marcia e segna una doppietta. Non si fermerà più. In maglia
azzurra vince due Coppe del Mondo (1934 e 1938) e due Coppe Internazionali (1930 e 1935). In 53 presenze realizza 33 gol, record battuto solo in epoca moderna da un certo Gigi Riva con 35 marcature. Le partite che lo consegnano alla storia della Nazionale sono quattro: Ungheria – Italia 0-5 del maggio 1930 (Coppa Internazionale, tre gol segnati nella prima vittoria azzurra contro i maestri danubiani); Italia – Spagna 1-0 (quarti di finale Coppa del Mondo 1934, segna di testa nello spareggio contro i forti iberici); Inghilterra-Italia 3-2 (amichevole del novembre 1934, con l’Italia in dieci e sotto 3-0 segna due reti in quattro minuti e coglie un palo con gli azzurri che diventano “I leoni di Highbury” e Italia – Brasile 2-1 (semifinale Coppa del Mondo 1938, realizza un rigore tenendosi con una mano i pantaloncini dall’elastico rotto).
Signore in campo, si racconta che si sia arrabbiato solo due volte: dopo un intervento molto duro di Pietro Serantoni in Inter – Juventus, suo grande amico ed ex compagno di squadra (“Sera, proprio tu! Non me lo sarei mai aspettato”) e dopo un rimprovero plateale di Annibale Frossi per un passaggio sbagliato: “Non ti permettere mai più di criticarmi in questo modo, tu che calci di punta”. Signore fuori dal campo: adora la famiglia, la moglie Rita e le figlie Silvana e Gabriella, è generoso con gli amici, ascolta la musica classica e il jazz, ama il cinema, le feste, i bei vestiti e le macchine. Manna per le pubblicità del tempo che lo rendono, primo uomo sportivo italiano, testimonial di prodotti.
Di poche luci e molte ombre la carriera da allenatore. Sei mesi in Turchia al Besiktas, primo allenatore italiano all’estero, due anni alla Pro Patria, uno da direttore tecnico, la breve e poco felice esperienza azzurra all’Olimpiade di Stoccolma 1952 e il nuovo ritorno alla casa nerazzurra chiamato alla guida del vivaio, con qualche incursione in prima squadra nei momenti di crisi, da Angelo Moratti. Nel 1968, con l’arrivo di Ivanoe Fraizzoli alla guida dell’Inter, diventa presidente degli Inter Club. Gira l’Italia e il mondo. In ogni serata, premiazione, manifestazione è travolto dall’affetto dei tifosi. Per molti anni collabora con La Gazzetta dello Sport e Il Calcio Illustrato; prende per mano il lettore e con parole semplici e chiare lo guida nel mondo del pallone. Se ne va il 21 agosto del 1979. Ai funerali vuole solo la famiglia perché -sue parole- : “Chi partecipa alle esequie parla d’altro non di chi non c’è più”. Di lui rimangono un mare di ricordi, di articoli, di premi, di medaglie, di fotografie e qualche filmato dell’Istituto Luce. Chi lo ha visto giocare, davanti un campione di oggi, continua a sostenere: “Certo è bravissimo, un campione, un fuoriclasse… ma Meazza era Meazza”.
Federico Jaselli Meazza e Marco Pedrazzini
Il mio nome è Giuseppe Meazza
ExCogita di Luciana Bianciardi,
pp. 296