Intervista a Enzo Bearzot, maggio 1986

In questa intervista rilasciata ad Adalberto Bortolotti sul Guerin Sportivo del maggio 1986, il CT azzurro fa il punto sulla Nazionale all’alba delle grandi manovre in vista del Mundial messicano. E racconta le sue scelte: i vecchi e i nuovi.


Due giorni con Bearzot dietro un’improbabile pista bulgara. I nostri avversari inaugurali del Mundial messicano mettono barba e baffi finti, spediscono in tribuna il biondo Getov, la loro stella, e si offrono alla furia del giovane Belgio con tale accademica innocuità da far risultare il test del tutto inattendibile. Il «vecio» dà di gomito all’inseparabile Cesare Maldini e lascia l’Heysel cinque minuti prima della fine, facendo sbuffare la pipa come una ciminiera. Lo ritrovo più tardi, in albergo, e la diagnosi è lapidaria.

«Fosse questa la vera Bulgaria, adesso saremmo tutti felici e contenti. Purtroppo non è così e allora prepariamoci a soffrire».

L’atmosfera è quella di tante veglie azzurre, ufficialità e confidenze, aperture e ritrosie, bruschi sbalzi d’umore, verità mai compiutamente rivelate, ma piuttosto fatte faticosamente intuire. Enzo Bearzot ha cinquantanove anni, regge da undici la Nazionale, ha traversato linciaggi e apoteosi, sta partendo per il suo terzo Mondiale in presa diretta (altri due ne ha vissuti in ruolo subalterno, a partire proprio da Messico 70). Le esperienze lo hanno relativamente segnato fuori — un po’ più ossuto, un po’ più allampanato — e più profondamente inciso dentro.

È un uomo solo, o comunque isolato, in un mondo nel quale stenta sempre più a riconoscersi, non dico a identificarsi. La solitudine non come libera scelta, ma come soluzione obbligata di autodifesa.

«Leggo che a volte mi accusano di snobbare i miei colleghi, di disertare i loro raduni. Come se non mi costasse… Fra loro conto gli amici più sinceri, i compagni di lunghe avventure, sarei felice di mescolarmi e scambiare confidenze e ci ho anche provato all’inizio, i tecnici di club al seguito della Nazionale. Ricordi quante malignità ne sono derivate? E le ridicole interpretazioni a certe scelte, come se fossi uomo da farmi influenzare dai rapporti personali, dalle simpatie. Così vado solo quando è strettamente necessario, quando fa parte dei miei compiti istituzionali. Ma ce ne sarà sempre meno bisogno, credo, perché qualche giovane, che ha inventato il calcio in questi giorni, ha dichiarato che non sono in grado di spiegare il fuorigioco e magari avrà pure ragione lui, cosa vuoi che ti dica? Io ho incontrato molte Nazionali che praticavano il fuorigioco e spesso ci abbiamo cavato la pelle, ma come posso insegnare a chi sa già tutto?».

La lingua batte dove Fascetti duole e io gli dico che gli attacchi di Fascetti portano bene, alla vigilia di un Mondiale: non era in Spagna che i tecnici italiani dovevano vergognarsi di essere rappresentati all’estero da Bearzot? Ma il «vecio» è già lontano, coi pensieri.

«Il terzo mondiale, il più pericoloso. Perché agli altri due sono arrivato fra gli insulti, a questo mi avvicino cosparso di miele. E la gente crede che sia normale che un campione del mondo vada a vincere, sennò che campione del mondo è? Normale e magari anche facile. La gente non sa che la concorrenza è sempre più spietata, che se l’Italia finisse nelle prime quattro avrebbe realizzato una grandissima impresa. E io credo che se non centreremo questo traguardo minimo saranno pomodori, al rientro, perché questa volta nessuno è preparato a una delusione, nel 78 e nell’82 era diverso, si dava così poco credito alla nostra squadra che tutto quello che avrebbe portato a casa andava benedetto. Ora io vado in giro, osservo e annoto e, ad essere sincero, mi sembra che tutti abbiano dei problemi (anche noi, ci mancherebbe ) e che insomma non ci sia in circolazione il fenomeno davanti al quale sei costretto ad arrenderti prima ancora di scendere in campo. Però, ecco il rovescio della medaglia, non c’è neppure un avversario, dico uno, con il quale tu ti debba ritenere sicuro di aver vinto prima di giocare. Saranno, tutte le partite, durissime e incerte battaglie. Si segneranno pochi gol, perché il gol è una merce rara e io vedo che tutti giocano con un centrocampista in più e con una punta in meno e di questo passo il vituperato e difensivistico calcio sarà il più offensivo e spregiudicato di tutti, perché dimmi tu chi ormai si concede il lusso di mandare in campo due attaccanti puri e un tornante aggressivo come Bruno Conti. Si segnerà poco anche perché sarà un Mondiale condizionato dall’altura e chi avrà la fortuna di trovare il vantaggio farà di tutto per tesorizzarlo e risparmiare energie per l’impegno successivo. Anche l’altra volta in Messico — a parte qualche storica eccezione — non furono frequenti gli alti punteggi, malgrado all’altura si desse meno importanza di oggi, per carenza di studi scientifici. E quindi più che un Mondiale spettacolo sarà un Mondiale sofferto, per uomini veri. Questo sia chiaro, mi conforta. E mi ha aiutato nelle scelte».

RICONOSCENZA. Già, le scelte. I giochi sono fatti, ormai, e il miele cui accennava Bearzot, un miele prodotto non dalle api ma dalla cattiva coscienza, ha soffocato molte latenti polemiche che in altri momenti sarebbero esplose con fragorosa virulenza. E però non tutte le motivazioni sono apparse immediatamente comprensibili, le motivazioni di certe preferenze e di certe esclusioni. Qui il vecio non scende ovviamente in dettagli, ma chiede a gran voce una precisazione.

«Di tante cose che ho letto, una mi ha dato particolarmente fastidio. Che io avrei inserito nella lista dei ventidue qualche giocatore “per riconoscenza’’. Che significato può mai avere questa parola per un tecnico? Per riconoscenza avrei sovvertito una graduatoria di merito? Non sarei stato onesto e avrei fatto il male della squadra e quindi il mio. Nessuno è stato scelto per riconoscenza, ciascuno perché ritenuto la soluzione migliore a un certo problema. Attento, io debbo scegliere quindici-sedici giocatori che andranno in campo e sei-sette che stanno a vedere. Questi ultimi ricopriranno il ruolo più difficile. Se le cose dovessero andar male, lo sappiamo, gli esclusi diventerebbero automaticamente i migliori. Pensa quindi con quanta responsabilità essi dovranno gestire la loro presenza in seno alla squadra, non turbare gli equilibri, non alterare la serenità. Per questo ho sempre detto che in Spagna i campioni del mondo erano stati tutti i ventidue e non ho mai accettato discriminazioni: non era retorica, era profonda convinzione. Si può arrivare a un traguardo soltanto tirando tutti dalla stessa parte. A volte basta una voce stonata per far fallire il coro. Altro che riconoscenza, ho guardato al mio interesse, dico mio per dire di tutti, in ogni decisione che ho preso».

ROSSI. Anche chiamando Rossi, un Rossi mortificato da una stagione amara, successiva a una deludente, depresso per prospettive non esaltanti?

«La vera scommessa su Paolo Rossi, se vogliamo essere precisi, l’ho fatta nell’82, in condizioni assai più sfavorevoli di quelle attuali. Rossi venne con noi in Spagna che aveva giocato due partite in due anni. Ebbe le sue notevoli difficoltà, la compattezza dell’ambiente consenti di poter insistere su di lui anche quando i risultati non erano francamente esaltanti. Paolo trovò la forma giocando e segnò sei gol nelle ultime, decisive, tre partite. Rispetto ad allora, Rossi sta giocando con discreta continuità: per metterlo a punto il tempo c’è. Io non posso ignorare certi fatti e la riconoscenza non c’entra proprio. È un discorso che vale anche per altri».

ARBITRI. Gli è caduta in testa un’altra tegola, più o meno come alla vigilia degli Europei dell’80. Un’ondata di fango sul calcio italiano, una picconata alla sua immagine, la difficoltà di tenere la Nazionale fuori della mischia.

«La differenza, semmai, è che questa volta non ne siamo stati coinvolti in prima persona. Allora, ricorderai, mi vennero a mancare in un colpo i due attaccanti titolari e poi ci fu chi mi accusò di imprevidenza per non aver preparato le giuste alternative. È giusto, però, il concetto di immagine inquinata ed è ingiusto che possa farne le spese (mi auguro di no) una squadra come questa Nazionale che ha sempre avuto, nel bene e nel male, un comportamento esemplare. Ma io penso ad altri fattori, agli arbitri, per esempio. Ti immagini quali difficoltà si troverà ad affrontare un arbitro chiamato a dirigere le partite dell’Italia? E fatale che scatti un meccanismo inconscio, al momento di prendere una decisione a nostro favore: non sarà male interpretata, non penseranno che io… Sia chiaro, non parlo di ostilità preconcetta, parlo di difficoltà psicologica, che oltretutto comprendo benissimo: non è un caso che molti arbitri di valore abbiano tentato in tutti i modi di schivarci, nel periodo premondiale. Speriamo bene, anche se non posso fare a meno di ripensare agli Europei 80, al portoghese Garrido che ci negò anche la finale e fu una decisione incredibile, perché il fallo l’aveva visto, però l’arretrò di due metri almeno per poter mettere la palla fuori dell’area. Dopo, si mostrò pentito e ti posso dire che l’ho incontrato recentemente e teneva gli occhi bassi, ma va un po’ a capire cosa passa nella mente di un arbitro in quei decimi di secondo che deve prendere una decisione e magari gli frullano in testa strani pensieri. Questa è una mia legittima preoccupazione, credo, ma non deve essere un alibi. Dovrebbe esserci chi ci tutela, chi ci assicura condizioni regolari di gioco. O no?».

IL CONTRATTO. Ma il contratto, Enzo, il famoso contratto sul quale molto si è scritto e romanzato, quella specie di vitalizio per la panchina azzurra, l’hai firmato oppure no?

«Non stava lì il punto; il punto, il nodo da sciogliere, era quella intricata questione dei premi che aveva sollevato un polverone molto gratuito, con i soliti moralisti alla finestra, pronti a prendere la palla al balzo e a demonizzare i giocatori senza neppure conoscere i termini della questione, è incredibile quanta gente parli senza sapere quello che dice. Il nodo era quello perché aveva determinato una tensione fra prestatori d’opera e datore di lavoro, se vogliamo sindacalizzare il discorso, e io non potevo portare in Messico una squadra scontenta e convinta di aver ricevuto un torto proprio da parte di chi doveva incitarla a battersi. Non potevo firmare il mio contratto sin quando non si fosse sciolto quel nodo, cosa che fortunatamente è avvenuta in tempo e anche in fretta perché a volte basta guardarsi negli occhi per mettersi d’accordo, fra persone perbene».

Sta di fatto che non hai ancora firmato, neppure dopo la risoluzione della questione premi…

«Ma non è più un problema, siamo d’accordo, per me la stretta di mano vale una firma, la firma posso metterla anche dopo i Mondiali». Io la metterei prima. Mica per sfiducia…

VETERANO. Enzo, si è ritirato Michel Hidalgo, non ho sottomano l’elenco di tutti i ventidue tecnici del Mondiale, ma a occhio e croce sei rimasto il più vecchio, intendo come milizia, perlomeno fra i più conosciuti. Ti dovrebbe essere abbastanza vicino Guy Thys, il santone del Belgio…

«L’ho tenuto a battesimo proprio io, si era nel ’77, in preparazione all’Argentina, e io portai qui in Belgio una Sperimentale nelle cui file esordiva in maglia azzurra un ragazzino di ventun anni che stava segnalandosi nel Vicenza, sì, proprio Paolo Rossi. Pensa che qualcuno lo definì un giocatore da oratorio e qualche mese dopo, in Argentina, ebbe la faccia tosta di sostenere che io mi ero deciso a portarlo ai mondiali soltanto dietro la pressione della critica, lui e Cabrini, che io facevo giocare nelle Rappresentative quando nella Juventus era una semplice riserva. Bene, quella Sperimentale vinse uno a zero, con un gol su punizione di Antognoni e sulla panchina del Belgio, che aveva schierato la Nazionale A, debuttava appunto Guy Thys. Sì, è passato del tempo. Ne ho vista cambiare, di gente. Ma adesso si ricomincia, ed è sempre la prima volta».

  • Intervista di Adalberto Bortolotti, Guerin Sportivo Maggio 1986