Come è cambiato il calcio e come ha cambiato la vita degli italiani. Una storia sociale dello sport nazionale dalle origini a oggi.
John Foot, storico londinese di 42 anni, allievo di Paul Ginsborg, è riuscito effettivamente a scrivere una storia del calcio nazionale come vero Rinascimento. L’Italia non la fecero Cavour e gli altri. L’Italia l’ha fatta il calcio, il gioco del pallone. Racconta John Foot: «Durante gli anni Novanta, iniziai presto a capire che in Italia il calcio non era solo un fenomeno sportivo di massa, ma anche qualcosa che rispecchiava e influenzava gli orientamenti politici, culturali e sociali: era pressoché impossibile comprendere l’Italia senza conoscere il calcio, e viceversa».
Questa convinzione, prosegue Foot, divenne definitiva quando Silvio Berlusconi «scese in campo» in politica e chiamò il suo movimento con il grido tipico dei tifosi alle partite della Nazionale: Forza Italia. All’inizio la storia di Foot è divertente, come dovrebbe essere divertente la storia di un gioco. Racconta la storia del capitano del Milan primi Novecento, l’inglese Herbert Kilpin, detto Lord, che aveva l’abitudine di nascondere una bottiglia di Black and White in una buca dietro la porta per farsi un sorso rincuorante di whisky quando la sua squadra prendeva un gol.
Ma il calcio italiano non è più un gioco e Foot l’ha definitivamente capito quando si è imbattuto in un gioco da tavolo, «Akkiappa l’arbitro», lanciato nel 2003 da Enrico Preziosi, industriale del giocattolo e presidente del Genoa condannato per illecito sportivo. «Akkiappa l’arbitro» funziona così: «Si trattava di un gioco piuttosto semplice: un piccolo campo da calcio plastificato sul quale erano attaccati alcuni pupazzetti a forma di arbitro, sul cui testone appariva un pulsante luminoso. Alcuni di questi pupazzetti erano completamente calvi, come Pierluigi Collina, all’epoca il fischietto più famoso d’Italia». Attenti perché ora viene il bello. «Nella scatola erano inclusi due guanti imbottiti. Lo scopo del gioco? Colpire, nel minor tempo possibile, la testa dell’arbitro illuminata». Il gioco, come si capisce dalla descrizione, non era un granché ma, osserva Foot, «come metafora del rapporto tra gli italiani e l’arbitro è perfetto». Gli arbitri italiani, pur se armati solo di fischietto, ricordano a Foot gli sceriffi del Selvaggio West: «Cercano di imporre la sempre più fragile autorità della legge e dell’ordine per fronteggiare il sospetto, l’ostilità e la violenza». La generale avversione alla figura dell’arbitro è riconducibile secondo Foot a un sospetto avanzato da Paul Ginsborg, il suo maestro. Ginsborg ha ravvisato nei rapporti tra i tifosi italiani e l’arbitro gli stessi sentimenti (diffidenza, disprezzo, cinismo, odio) «che caratterizzano il rapporto tra gli italiani e lo Stato».
La storia d’Italia è dunque la storia del non rapporto tra gli italiani e l’arbitro (lo Stato). Basterebbe questo ma nel libro c’è molto altro. Il titolo è secco: Calcio. Il sottotitolo è ambizioso: «1898-2007. Storia dello sport che ha fatto l’Italia». L’autore è inglese e si chiama John Foot ed è il nome vero anche se sembra, visto l’argomento trattato, uno pseudonimo (Giovanni Piede). Dico subito che il libro è all’altezza della sua ambizione. Raccontando del Grande Torino e della sua tragedia, Foot cita l’articolo che Vittorio Pozzo, il commissario tecnico che vinse due mondiali con la Nazionale azzurra e che poi diventò giornalista della Stampa, scrisse su Superga. Scrisse Pozzo: «Il Torino non c’è più, è scomparso, bruciato, polverizzato… è morto in azione, come uno di quei plotoni arditi che, nella guerra, uscivano dalla trincea coi loro ufficiali al completo, e non ritornava nessuno, al complesso». Leggendo Pozzo mi è venuto di pensare che la tragedia del Grande Torino fu anche un modo per l’intera nazione elaborare il lutto della Seconda guerra mondiale (e forse anche della Prima). Fu un modo per illudersi, grazie a Valentino Mazzola e ai suoi compagni, di essere stati eroi. Il calcio come transfert, i campioni di calcio come eroi di una guerra perduta.
Con Superga finì davvero la guerra e di lì a poco l’Italia conobbe il miracolo economico, il benessere. E il calcio si fa trovare puntuale all’appuntamento con la storia. Scrive Foot: «Per tutti gli anni Sessanta, Milano è la capitale incontrastata del calcio. Inter e Milan hanno vinto entrambe due Coppe dei Campioni in quel decennio, con i nerazzurri che fallirono il tris nella finale del 1967 contro il Celtic Glasgow… E il capoluogo lombardo era anche la capitale morale dal momento che era la città attorno alla quale ruotava l’economia italiana degli anni Sessanta». Il simbolo di quell’epoca felice è Gianni Rivera. Foot lo onora in maniera molto inglese quando ricorda la risposta di sir Alf Ramsey, mister dell’Inghilterra campione del mondo, la volta che gli chiesero di elencare i quattro giocatori italiani più forti degli anni Settanta. «Rivera, Rivera, Rivera, Rivera», disse Ramsey.
L’altro personaggio simbolo di quella Milano e di quella fetta di storia d’Italia fu il Mago Helenio Herrera, allenatore della Grande Inter. Foot dà una efficacissima definizione di HH e della sua filosofia di vita: «Una bizzarra combinazione tra un sergente inflessibile e Buddha». Nel libro si riporta anche un brano di Fiora Gandolfi Herrera, la moglie del Mago, in cui si capisce che Herrera fu un personaggio favoloso degno di un libro come Cent’anni di solitudine: «Helenio Herrera è nato in un’isola bianca del Rio de la Plata o del Tigre, non si sa bene quando… Il mondo era la sua patria: aveva scelto di essere straniero, cioè diverso, ovunque… parlava e scriveva un curioso miscuglio di idiomi: francese, italiano, spagnolo, inglese e arabo». Foot non dimentica l’altro grande mister dell’epoca, il milanista Nereo Rocco e lo descrive come una specie di istruttore di marines («uno stile alla Full Metal Jacket»), dai memorabili detti in triestino: «A tutto quel che se movi su l’erba, daghe. Se xe ‘l balon, no importa».
Gli anni Sessanta finirono presto e anche il boom. Vennero anni di stragi e terrorismo e ancora una volta (il meccanismo messo a punto da Foot no perde un colpo) il calcio racconta a suo modo quell’epoca. A rappresentarla meglio di qulasiasi altra cosa è la Lazio dello scudetto 1974. Più che una squadra, una mezza dozzina dove quasi tutti giravano armati (l’aria del tempo). Foot riporta una dichiarazione del portiere Felice Pulici: «In quella quadra la pistola ce l’avevamo più o meno tutti… giravamo con la fondina sotto l’ascella, come gli ispettori dei polizieschi americani».
Gli anni Ottanta sono gli anni del Milan di Sacchi e del Napoli di Maradona. Il primo è pura algebra e l’inizio di quello che è stato chiamato il neo-calcio, il calcio del business e della televisione. Il secondo è un luogo di culto. Foot cita l’ex autista del Pibe de oro, Pietro Pugliese: «Secondo Pugliese, durante la sua permanenza a Napoli, Maradona era andato a letto con 8.000 donne, molte delle quali “trovate” grazie al suo autista. Pugliese rivangò inoltre la vecchia storia dello scudetto gettato al vento nel 1988 per le pressioni della camorra che dirigeva le scommesse clandestine in città».
E qui prende il via un’altra fetta della storia d’Italia che arriva fino ai nostri giorni e che è stata drammaticamente narrata da Roberto Saviano in Gomorra. Potrei fare altri esempi ma ormai avrete capito che la tesi di Foot funziona: il nostro calcio è la nostra storia.
John Foot
1898-2007. Storia dello sport che ha fatto l’Italia
Rizzoli, 2007
pp. 621