Come il calcio nell’Italia del dopoguerra passò da sport “sospetto” a potente strumento della Chiesa Cattolica: una storia di fede, politica e passione che ha plasmato generazioni di italiani attraverso gli oratori e i campi di periferia.
All’inizio del XX secolo, il calcio era considerato con diffidenza dalla gerarchia cattolica per due ragioni principali: la sua presunta violenza e, soprattutto, le sue origini protestanti britanniche. Furono i primi democratici cristiani, guidati da Romolo Murri, a intuire il potenziale del calcio come simbolo di modernità e strumento di confronto con la società civile. Essi compresero che le partite di calcio potevano diventare un’arena dove affermare la presenza cattolica nella società, specialmente nelle regioni tradizionalmente anticlericali come l’Emilia o la Romagna.
Questa “conversione” al calcio si consolidò negli anni ’20, nonostante alcuni gerarchi fascisti preferissero ancora giochi tradizionali come il “foco” o la “volata”. Anche quando il regime fascista sciolse la Federazione delle Associazioni Sportive Cattoliche Italiane (FASCI) nel 1927 e proibì tutte le attività sportive cattoliche nel 1931, il calcio continuò a essere praticato segretamente negli oratori parrocchiali.
Nel dopoguerra, la Chiesa comprese pienamente il potenziale del calcio come mezzo per stabilire una presenza capillare in tutti gli strati della società. Non si trattava più solo di un gioco, ma di uno strumento di mediazione pastorale e di promozione di progetti politici. Questa trasformazione segnò l’inizio di un periodo in cui il calcio divenne parte integrante della strategia della Chiesa per riconquistare la sua influenza nella società italiana.
L’Oratorio: il cuore del movimento

L’oratorio rappresentò il fulcro della strategia cattolica nel dopoguerra italiano, evolvendosi da semplice luogo di preghiera a centro nevralgico dell’aggregazione giovanile. Questa trasformazione fu guidata principalmente dai Salesiani, la congregazione religiosa fondata da Don Giovanni Bosco nel 1859, che comprese per prima la necessità di adattarsi alle esigenze della società industriale.
La peculiarità dell’oratorio stava nella sua capacità di stabilire un codice morale e religioso pur rimanendo aperto a tutti, indipendentemente dall’adesione a tale codice. Gli oratori accoglievano giovani di ogni classe sociale, con una particolare attenzione verso i più emarginati e bisognosi di educazione.
La struttura tipica dell’oratorio combinava sapientemente attività religiose e ricreative. Una domenica tipo prevedeva la messa alle dieci, seguita dal catechismo per i più piccoli, e poi attività ricreative come la proiezione di un film e le partite di calcio. Questa organizzazione si rivelò particolarmente efficace nelle periferie delle grandi città, dove spesso l’oratorio rappresentava l’unico vero spazio di socializzazione disponibile per i giovani.
La diffusione degli oratori fu impressionante, specialmente nel Nord Italia. Nel 1954 si contavano 5.387 oratori in tutto il paese, di cui 4.074 solo nelle regioni settentrionali. Ogni oratorio diventava un microcosmo dove la vita religiosa, sociale e sportiva si fondevano, creando un ambiente formativo completo che avrebbe influenzato profondamente la società italiana del dopoguerra.
La struttura organizzativa: il Centro Sportivo Italiano

La fondazione del Centro Sportivo Italiano (CSI) l’11 giugno 1944, mentre Roma era ancora sotto occupazione, segnò un momento cruciale nella storia dello sport cattolico italiano. Questa organizzazione nacque dalle ceneri della FASCI (Federazione delle Associazioni Sportive Cattoliche Italiane) e fu guidata da Luigi Gedda, che già dal 1931 aveva sostenuto attraverso il giornale “Lo Sport” l’importanza di non lasciare il calcio nelle mani della gerarchia fascista.
Il CSI fu strutturato secondo un modello organizzativo che combinava sapientemente elementi laici ed ecclesiastici. A livello nazionale, una Presidenza centrale coordinava 18 comitati regionali, che a loro volta si articolavano in sottocomitati provinciali. L’aspetto innovativo stava nel fatto che l’unità di riferimento poteva essere sia la provincia che la diocesi, permettendo una flessibilità organizzativa senza precedenti.
Le Unioni sportive territoriali, che costituivano la base dell’organizzazione, potevano essere sia club sportivi laici che associazioni parrocchiali. Quando queste ultime erano maggioritarie in una provincia o diocesi, si creava un comitato di zona autonomo guidato da un ecclesiastico. Questa struttura ibrida permetteva al CSI di mantenere un piede sia nel mondo laico che in quello religioso.
La strategia di Gedda mirava a fare del CSI il punto di riferimento centrale per tutto lo sport cattolico italiano. Attraverso una rete capillare di comitati e associazioni, l’organizzazione riuscì a penetrare anche in territori tradizionalmente ostili alla Chiesa, come l’Emilia-Romagna, dimostrando l’efficacia di questa struttura organizzativa nel perseguire gli obiettivi sia pastorali che politici della Chiesa.
Il calcio come strumento di mediazione religiosa

Il calcio nell’Italia del dopoguerra si trasformò in qualcosa che andava ben oltre il semplice sport: divenne un potente strumento di mediazione religiosa, dove il campo da gioco si trasformava in un’estensione naturale dell’attività pastorale. Questo fenomeno si manifestava in modo particolarmente evidente attraverso la figura del sacerdote-allenatore, un ruolo che combinava la guida spirituale con quella sportiva.
La testimonianza di Don Lorenzo Marchi, parroco di Sant’Agnese a Roma durante la liberazione, illustra perfettamente questa strategia. Preoccupato dal calo di partecipazione alla messa e al catechismo tra i giovani del quartiere, Don Marchi comprese che non bastava lamentarsi delle sale da ballo o della moda moderna: era necessario offrire alternative concrete e attraenti. La sua soluzione fu integrare il calcio nel programma domenicale della parrocchia, creando un sistema che combinava sapientemente doveri religiosi e piacere sportivo.
Questa strategia si rivelò particolarmente efficace nelle periferie delle grandi città, dove la povertà del dopoguerra si combinava con la mancanza di strutture ricreative. Il film “Roma città aperta” di Roberto Rossellini cattura perfettamente questa realtà, mostrando un sacerdote che arbitra una partita di calcio dopo aver gestito la mensa dei poveri. La figura del prete-allenatore divenne così comune che entrò nella cultura popolare, trovando la sua rappresentazione più celebre nel personaggio letterario di Don Camillo, il combattivo parroco che allenava la squadra dei “Bravi” contro i “Dynamos” comunisti di Peppone.
Attraverso il calcio, la Chiesa riusciva a mantenere un contatto costante con i giovani, trasformando lo sport in un veicolo per trasmettere valori religiosi e morali in modo accessibile e coinvolgente.
La dimensione politica: calcio e Guerra Fredda

Nel contesto della Guerra Fredda, il calcio assunse una dimensione politica fondamentale, diventando terreno di scontro ideologico tra cattolici e comunisti. Questo confronto si manifestava principalmente attraverso la rivalità tra il Centro Sportivo Italiano (CSI), legato alla Chiesa, e l’Unione Italiana Sport Popolare (UISP), vicina al Partito Comunista Italiano.
Questa competizione ideologica si rifletteva perfettamente nelle partite tra squadre cattoliche e comuniste, dove i colori delle maglie diventavano simboli politici: il rosso con falce e martello per i comunisti, il bianco per i cattolici. Le partite assumevano un significato che andava ben oltre il risultato sportivo, come illustrato brillantemente nei racconti di Don Camillo, dove le sfide tra i “Bravi” della parrocchia e i “Dynamos” comunisti rappresentavano in miniatura il più ampio confronto ideologico nazionale.
È interessante notare come la diffusione geografica di queste organizzazioni riflettesse la mappa politica italiana. L’UISP aveva una forte presenza nelle “regioni rosse” come l’Emilia-Romagna e la Toscana, dove si concentrava circa il 43% dei suoi 66.385 tesserati. Il CSI, partendo dalle sue basi nelle “regioni bianche” come Lombardia e Veneto, riuscì a penetrare anche nei territori tradizionalmente comunisti, dimostrando una notevole capacità strategica.
Tuttavia, è importante sottolineare che, nonostante i toni apocalittici spesso utilizzati dalla gerarchia ecclesiastica, l’UISP non raggiunse mai i numeri del CSI negli anni ’50. Questo successo dell’organizzazione cattolica venne riconosciuto anche dall’osservatore britannico John Ward, che già nel 1947 lodò l’abilità dei democratici cristiani nell’estendere la loro egemonia sul mondo del calcio.
L’eredità del sistema

L’impatto del sistema calcistico cattolico nell’Italia del dopoguerra si può misurare attraverso numeri impressionanti che testimoniano la sua capillare diffusione sul territorio nazionale. Nel 1954, le associazioni cattoliche gestivano 2.017 campi da calcio in tutto il paese, con una distribuzione che rifletteva le differenze socio-economiche tra Nord e Sud: 1.326 campi nel Nord, 422 nel Centro, 192 nel Sud e 77 nelle Isole.
Questa distribuzione non era casuale, ma rifletteva una strategia di espansione ben precisa che partiva dai grandi centri urbani per poi diffondersi gradualmente verso le città medie e piccole. Il processo si completò prima in regioni come la Lombardia e il Veneto, dove la presenza cattolica era storicamente più forte, per poi espandersi in altre aree. Particolarmente significativo fu il successo in Emilia-Romagna, dove il CSI riuscì a stabilire una forte presenza nonostante l’ambiente politicamente ostile.
L’oratorio divenne anche un importante vivaio per il calcio professionistico. Il caso più emblematico è quello di Gianni Rivera, nato nel 1943 ad Alessandria, che iniziò la sua carriera nella squadra parrocchiale Don Bosco prima di diventare una stella del calcio italiano. Questa connessione tra oratorio e calcio professionistico divenne così stretta che l’espressione “calcio d’oratorio” entrò nel linguaggio comune per indicare un particolare stile di gioco.
Questa eredità persistette fino alla fine degli anni ’70, quando i profondi cambiamenti sociali e culturali portarono a un graduale declino del ruolo dell’oratorio come centro della vita sociale giovanile.Un cambiamento efficacemente rappresentato ne “La Messa è finita” di Nanni Moretti (1979). Nel film, un giovane prete viene spinto a terra dai ragazzi che giocano a calcio nell’oratorio in rovina. Un’immagine potente che simboleggia la fine di un’epoca, quando il calcio non aveva più bisogno della Chiesa per essere giocato e amato.
Una teologia del calcio

Nel tentativo di sacralizzare il calcio, la Chiesa Cattolica del dopoguerra elaborò quella che potremmo definire una vera e propria “teologia del pallone“. Non era solo un modo per giustificare la presenza dello sport nelle attività parrocchiali, ma una profonda riflessione sul significato spirituale del gioco.
Papa Pio XII, soprannominato “il Papa degli sportivi“, fu l’architetto principale di questa visione. Nel suo storico discorso della Pentecoste del 1945, dipinse il calcio come un “antidoto efficace alla mollezza e alla vita comoda“. Lo sport non era solo attività fisica, ma forgiava il carattere, insegnava l’autocontrollo e il disprezzo del pericolo.
La metafora calcistica si prestava perfettamente all’insegnamento religioso. Il campo da gioco diventava un microcosmo della società cristiana ideale: i giocatori (i fedeli) che obbedivano al capitano (il pastore), tutti uniti verso un obiettivo comune (la salvezza). Come scrisse Aldo Notario sulle pagine di Stadium: “La sottomissione all’autorità è la prima lezione che si impara giocando a calcio“.
Le preghiere del calciatore, che oggi potrebbero sembrare ingenue, erano prese molto sul serio. Recitavano di corpi “forti e agili” donati dal Signore, della vittoria su se stessi prima che sugli avversari, dell’umiltà e della purezza. Il calcio diventava una forma di preghiera attiva, dove il sudore e la fatica erano offerte a Dio.
Questa teologia del calcio può sembrare oggi forzata, ma ha lasciato un’impronta profonda nella cultura calcistica italiana, contribuendo a creare quel mix unico di passione e spiritualità, di agonismo e moralità, che ha caratterizzato per decenni il nostro modo di vivere e interpretare il calcio.
Fonti utilizzate:
«Il calcio e l’oratorio: Football, Catholic Movement and Politics in Italian Post-War Society, 1944-1960» di Fabien Archambault
