Nel 1955, sfidando il veto del potente arcivescovo McQuaid, l’Irlanda affrontò la Jugoslavia comunista a Dublino. I 22.000 spettatori che assistettero alla partita segnarono un momento storico di disobbedienza all’autorità ecclesiastica.
L’Irlanda degli anni ’50 era un paese dove la religione cattolica permeava ogni aspetto della vita quotidiana, dalle scuole agli ospedali, dalle istituzioni governative fino alle attività ricreative. In questo contesto, la Football Association of Ireland (FAI) si trovò ad affrontare una delle decisioni più complesse della sua storia: accettare o meno la proposta della Federazione jugoslava di disputare un’amichevole a Dublino.
Per una nazione periferica come l’Irlanda, le partite internazionali rappresentavano occasioni preziose. Non solo garantivano entrate economiche significative, ma offrivano anche l’opportunità di misurarsi con le migliori squadre europee e di guadagnare visibilità internazionale. La FAI aveva sempre mostrato un approccio pragmatico nella scelta degli avversari: negli anni ’30 aveva affrontato tre volte la Germania nazista e, nel dopoguerra, aveva disputato diverse partite contro le squadre delle dittature di destra di Spagna e Portogallo.
Ma la Jugoslavia rappresentava una sfida diversa. Il regime comunista di Tito era regolarmente sotto i riflettori della stampa irlandese per la persecuzione del clero cattolico. L’incarcerazione dell’arcivescovo di Zagabria Alojzij Stepinac, condannato per collaborazionismo con il regime fantoccio croato durante la guerra, aveva scatenato proteste di massa a Dublino, con oltre 100.000 persone radunate in O’Connell Street nel maggio del 1949.
In questo clima di tensione, la FAI si trovò stretta tra le pressioni ecclesiastiche e il desiderio di sviluppare il calcio irlandese. Nel 1950 e nel 1952, la prudenza prevalse e le proposte jugoslave furono declinate, seguendo il consiglio dell’influente arcivescovo McQuaid.

La svolta del 1955
Nel 1955, la situazione politica e sportiva era leggermente cambiata. La vicenda dell’arcivescovo Stepinac, pur rimanendo una ferita aperta, non occupava più le prime pagine dei giornali irlandesi. Inoltre, sia l’Irlanda che la Jugoslavia erano entrate a far parte della neonata UEFA, creando un nuovo contesto di relazioni calcistiche internazionali che non poteva essere ignorato.
In questo nuovo scenario, la FAI prese una decisione senza precedenti: accettare l’invito jugoslavo senza consultare l’arcivescovo McQuaid. Una mossa audace che segnava una rottura con la prassi consolidata di deferenza verso l’autorità ecclesiastica. La partita venne fissata per il 19 ottobre a Dalymount Park.
La reazione della Chiesa non si fece attendere. Padre John O’Regan, cancelliere della diocesi di Dublino, contattò immediatamente il segretario della FAI, Joe Wickham, esprimendo preoccupazione per questa decisione unilaterale e suggerendo di cancellare l’evento. Ma Wickham mantenne una posizione ferma: era troppo tardi per annullare, la partita si sarebbe giocata come previsto.

Questa resistenza alle pressioni ecclesiastiche scatenò una reazione a catena. McQuaid, colto di sorpresa dall’atteggiamento della Federazione, mobilitò i suoi contatti al più alto livello governativo. Il premier irlandese John A. Costello, noto per la sua profonda devozione cattolica e membro dei Cavalieri di San Colombano, si schierò immediatamente dalla parte dell’arcivescovo. Il governo di coalizione si trovò così coinvolto in una controversia che andava ben oltre il semplice ambito sportivo. La tensione tra autorità calcistica e religiosa aveva raggiunto un punto di non ritorno.
Gli “strumenti di Tito” a Dublino
La squadra jugoslava che sbarcò a Dublino nell’ottobre del 1955 era ben diversa dall’immagine dipinta dalla propaganda anticomunista. Lungi dall’essere un gruppo di potenziali disertori o “strumenti di Tito” (“Tools of Tito”) – come li definirono i Boy Scouts cattolici irlandesi – questi calciatori rappresentavano l’élite del calcio europeo del dopoguerra.
La nazionale jugoslava aveva costruito una reputazione formidabile: medaglia d’argento in tre Olimpiadi consecutive (1948, 1952 e 1956), avrebbe poi raggiunto i quarti di finale in tre Mondiali successivi (1954, 1958 e 1962), prima di conquistare l’oro olimpico nel 1960. Nel contesto della Guerra Fredda, questi atleti svolgevano un ruolo diplomatico cruciale, incarnando la politica di non allineamento della Jugoslavia di Tito.
Ancora più significativo era il loro ruolo interno: in un paese dilaniato da sanguinosi conflitti etnici durante la Seconda Guerra Mondiale, la nazionale di calcio diventava simbolo vivente di riconciliazione e unità. La squadra che scese in campo a Dalymount Park rifletteva questa diversità, con giocatori provenienti da tutte le regioni e gruppi etnici della Jugoslavia.
Un dettaglio particolarmente ironico, ricordato dal debuttante irlandese Liam Tuohy, fu vedere diversi giocatori jugoslavi farsi il segno della croce entrando in campo. “C’erano quasi più cattolici nella loro squadra che nella nostra“, avrebbe commentato in seguito, sottolineando l’assurdità di quella contrapposizione ideologica che aveva rischiato di impedire l’incontro.
La partita della disobbedienza

Il 19 ottobre 1955, Dalymount Park divenne teatro di uno straordinario atto di disobbedienza civile. Nonostante l’esplicito divieto dell’arcivescovo McQuaid e le pressioni della Chiesa, oltre 22.000 persone si radunarono nello storico stadio dublinese per assistere alla partita. Un numero considerevole se si pensa al contesto: un mercoledì sera, in un’Irlanda dove il dissenso verso l’autorità ecclesiastica era praticamente inaudito.
All’esterno dello stadio, un piccolo gruppo della Legion of Mary manifestava con cartelli anti-comunisti, mentre un solitario protestante sventolava una bandiera papale giallo-bianca. Ma questi gesti di opposizione apparivano quasi simbolici di fronte alla marea umana che affluiva agli ingressi, alcuni arrampicandosi persino sui muri del Dalymount per non perdersi l’evento.
L’assenza delle autorità governative e delle consuete cerimonie ufficiali conferiva alla serata un’aria di ribellione silenziosa. Niente banda militare per gli inni nazionali, che furono diffusi attraverso gli altoparlanti. A presentare le squadre non c’era il Presidente della Repubblica, ma Oscar Traynor, presidente della FAI ed ex militante dell’IRA, accolto da un’ovazione che sembrava celebrare più la resistenza all’autorità che il protocollo sportivo.

Sul campo, ovviamente, la Jugoslavia dimostrò la sua superiorità tecnica, vincendo 4-1. Ma il vero risultato storico si stava consumando sugli spalti, dove migliaia di irlandesi cattolici stavano pacificamente affermando il loro diritto di separare lo sport dalla politica e dalla religione. Non si trattava di una protesta anti-cattolica – la maggior parte degli spettatori era di fede cattolica praticante – ma piuttosto dell’affermazione di un principio di autonomia civile in un ambito specifico della vita sociale.
Il “Dalymount Roar“, il tradizionale ruggito dello stadio dublinese, quella sera risuonò con un significato diverso, più profondo: era la voce di una società che, pur mantenendo la sua identità cattolica, cominciava a rivendicare spazi di indipendenza dal controllo ecclesiastico.
Le conseguenze

La partita Irlanda–Jugoslavia del 1955 segnò un punto di svolta nel complesso rapporto tra Chiesa e sport. Sebbene l’arcivescovo McQuaid tentasse di rafforzare il suo controllo sulla FAI attraverso l’istituzione di un comitato di quattro sacerdoti guidato da padre George Finnegan, l’episodio aveva dimostrato i limiti dell’influenza ecclesiastica anche in un’Irlanda profondamente cattolica.
La trasformazione divenne evidente negli anni successivi. Quando nel 1957 si presentò l’occasione di una partita contro la Romania comunista, le proteste furono molto più contenute. Nonostante alcuni gruppi cattolici estremisti come Fírinne tentassero di sollevare nuovamente la questione della persecuzione dei cattolici nei paesi comunisti, la situazione fu gestita diversamente. Il fatto che Oscar Traynor, ancora presidente della FAI, fosse nel frattempo diventato ministro della Giustizia contribuì significativamente a spianare la strada.
Negli anni seguenti, l’Irlanda giocò regolarmente contro nazioni del blocco comunista – Polonia e Cecoslovacchia – senza controversie significative. Una normalizzazione delle relazioni sportive che rifletteva un cambiamento più ampio nella società irlandese: la graduale emancipazione di alcune sfere della vita pubblica dal controllo diretto della Chiesa.
Fonte: HOSTING ‘THE TOOLS OF TITO’—IRELAND V. YUGOSLAVIA, 19 OCTOBER 1955 di James Quinn pubblicato su History Ireland – luglio/agosto 2023