L’Inter di Angelo Moratti

La storia dell’Inter di Angelo Moratti, che negli Anni 60 trasformò il club nerazzurro in un modello di organizzazione societaria e la squadra in una sorta di invincibile armata, capace di vincere tre scudetti, di sfiorarne altri tre e di conquistare consecutivamente due Coppe dei campioni e due Coppe intercontinentali.

Quando Angelo Moratti accetta di diventare il quindicesimo presidente interista è la metà esatta degli Anni 50. Il passaggio delle consegne tra Carlo Rinaldo Masseroni e il ricco petroliere originario di Somma Lombardo, in provincia di Varese, avviene nella serata del 28 maggio 1955. Il prezzo è un centinaio di milioni. «Ero pieno di dubbi — racconterà in seguito il patron più amato nella storia dell’Inter —. Da poco avevo aperto una raffineria in Sicilia e decisi di andarla a seguire da vicino, sperando che nel frattempo qualcuno si facesse avanti per rilevare l’Inter». Non succede nulla, invece. Al suo rientro a Milano, Angelo scopre che l’offerta è sempre valida e che tra chi sarebbe felice se lui l’accettasse c’è pure sua moglie Erminia, tifosa nerazzurra sin da bambina.

Il binomio Inter-Moratti muove i primi passi in uno scenario calcistico dominato dallo strapotere economico della Juve degli Agnelli, del Milan dei Rizzoli e del Napoli di Achille Lauro. I «colpi» iniziali di Angelo Moratti si chiamano Vonlanthen, un centravanti svizzero che ha contribuito a eliminare l’Italia dal Mondiale ’54, e Ferrario, un gigantesco, ma stagionato stopper proveniente dalla Juve. I risultati non sono confortanti e il presidente, visceralmente sospettoso verso gli allenatori, avvia il primo atto di una girandola che in cinque stagioni registrerà undici avvicendamenti sulla panchina nerazzurra. Via Campatelli, arriva Meazza, un mito per chi tifa Inter. È il campionato-boom della Fiorentina e i nerazzurri lo concludono al terzo posto, staccati però di 14 punti.

Inter_1957-1958
Inter 1957/58

«Si intuì allora — scriverà Gianni Brera — che Angelo Moratti era nato per vincere e che a perdere non ci stava proprio». Cambiare mister serve a poco, però, specie se i rinforzi in arrivo sfiorano già la trentina, come Pandolfini e Bearzot, che non innalzano l’Inter oltre un deludente quinto posto, nonostante il solito Meazza sia subentrato a Frossi. Nell’estate del ’57 Moratti decide di pescare oltre frontiera. In panchina arriva Jesse Carver, un allenatore inglese che sette anni prima ha guidato la Juve al suo ottavo scudetto, e al centro dell’attacco Antonio Valentin Angelillo, un argentino appena ventenne che in patria, con Sivori e Maschio, formava il trio «degli angeli dalla faccia sporca».

Angelillo segna gol a raffica (16 nella prima stagione, addirittura 33 nella seconda, un record ancora imbattuto per la serie A a 18 squadre) ed entra nel cuore di Moratti che se lo coccola come un figlio. «Non dimenticherò mai la notte del mio primo Natale milanese — racconterà Angelillo —. Ero solo perché i miei genitori erano rientrati a Buenos Aires. Il presidente mi invitò a casa sua e dopo cena trovai sotto l’albero tanti bellissimi regali. Provai la gradevole sensazione di trovarmi in famiglia». Neppure le prodezze di Angelillo servono però a spingere in alto l’Inter, soltanto nona nel campionato 1957-’58, il peggior piazzamento della gestione Moratti.

C’è chi a San Siro invoca in coro il nome di Masseroni, che in tredici anni aveva conquistato due scudetti. Moratti è demoralizzato, in tre stagioni non ha vinto nulla, ma il suo orgoglio gli suggerisce di non mollare. «Il dovere di un presidente — confessa — è quello di spargere felicità tra la gente che ama la propria squadra. E nel calcio la felicità proviene dalle vittorie». Nella stagione seguente se ne va Lorenzi, un vessillo ormai logoro, mentre l’allenatore è Bigogno, che da Udine porta a Milano lo svedese Lindskog, un biondo lungagnone sapiente, ma lento. L’Inter finisce in terza posizione, staccata di sei punti dal Milan. Stanno però già germogliando i primi semi di quella che diventerà la favolosa squadra degli Anni 60. Si chiamano Guarneri, un promettente difensore prelevato a Como, e Mariolino Corso, un fantasista mancino appena 17enne, che per i tifosi nerazzurri diventerà «il piede sinistro di Dio» e per Moratti un altro pupillo da coccolare.

«Taca la bala» gridò H.H. e arrivò il primo scudetto

Il campionato 1959-’60 è il quinto della gestione Moratti, il primo senza Skoglund, il fuoriclasse svedese che per nove stagioni, genio e sregolatezza, ha deliziato il pubblico di San Siro e arricchito i night-club milanesi. La vita notturna seduce anche Angelillo, che s’invaghisce di un’affascinante soubrette e segna soltanto undici gol, un terzo rispetto al torneo precedente. Moratti non riesce però ad arrabbiarsi con il suo pupillo argentino, al quale perdona tutto. Quello che invece il presidente non perdona all’allenatore Campatelli è la sconfitta per 5-3 nel derby di ritorno. In panchina si siede Cappelli, lo scopritore di Corso, che guida l’Inter al quarto posto, lontana però 15 punti dalla Juve.

Cinque stagioni hanno ormai insegnato a Moratti che la ragione deve prevalere sulla passione. Lui sogna di vedere in maglia nerazzurra Pelé, per il quale offre invano 400 milioni. Anche il portoghese Eusebio sfugge alla caccia dell’Inter. Chi non scansa l’offerta del presidente nerazzurro è un allenatore di origine argentina che guida il Barcellona e la nazionale spagnola. Il suo nome è Helenio Herrera, il suo ironico soprannome è Habla Habla, la sua suggestiva definizione è mago. Contattato dal general manager Alberto Valentini, Herrera viene in Italia per osservare l’Inter a Udine. «Com’è lenta — commenta —. Qui c’è tutto da rifare».

Ingaggiato dall’Inter in cambio di un contratto fiabesco (40 milioni all’anno, premi doppi e multe pagate dalla società per i suoi frequenti pepati commenti su arbitri e avversari), Herrera rivoluziona organico e preparazione. Pretende una mezza dozzina di acquisti, compresi Buffon e Picchi, e impone allenamenti estenuanti e ritmi elevatissimi. «Taca la bala» è il suo motto, antenato dell’attuale pressing. L’avvio dell’Inter targata Herrera è confortante ma alla settima giornata arriva lo scivolone in casa del Padova di Rocco. Una lezione salutare che al mago, strigliato da Moratti, consiglierà una svolta tattica. Niente più assalti dissennati ma difesa e contropiede.

Lo scudetto sembra finalmente a portata di mano nel ’61. A infrangere le speranze di Moratti interviene però la Caf che cancella il 2-0 assegnato ai nerazzurri e dispone la ripetizione della partita tra Juve e Inter, sospesa dall’arbitro perché gli spettatori erano straripati ai bordi del campo. Affiorano pesanti sospetti, alimentati dalla doppia carica di Umberto Agnelli, presidente bianconero e della Figc. Moratti è infuriato e per protesta impone a Herrera di schierare a Torino la squadra ragazzi, nella quale gioca il diciottenne Sandro Mazzola, che il presidente incoraggia affettuosamente: «Vai. Sandro, oggi comincia la tua carriera. Hai un nome da onorare. Sei bravo, buona fortuna». Ovviamente, la Juve straripa, stacca l’Inter e conquista il suo dodicesimo titolo.

Dopo aver soltanto accarezzato il suo primo scudetto, Moratti deve aspettare ancora prima di agguantarlo. Il campionato 1961-’62 si conclude con l’ottava vittoria del Milan, che lascia l’Inter a cinque punti. Il presidente nerazzurro è deluso, anche perché Herrera gli ha imposto la cessione di Angelillo. «Non serve alla squadra che sto progettando» è la ruvida spiegazione del «mago». Moratti inghiotte il boccone amaro ma nell’estate ’62 medita di sbarazzarsi di Herrera, che ha accettato di guidare la nazionale spagnola al Mondiale in Cile. Non se ne fa nulla, però, anche perché Fabbri, candidato alla panchina dell’Inter, sceglie di diventare c.t. azzurro.

Il ripensamento è felice perché undici mesi più tardi giunge l’ottavo scudetto dell’Inter, il primo della presidenza Moratti dopo sette anni di attesa. Ormai sta prendendo forma la grande squadra dei favolosi anni ’60. E’ già arrivato Suarez, arrivano anche Burgnich e Jair, si fanno largo Mazzola e Facchetti, il primo terzino-attaccante nella storia del calcio. A imprimere la svolta è ancora il presidente, però, che dopo la sconfitta di Bergamo strapazza i giocatori e soprattutto Herrera, che contro l’Atalanta ha schierato una formazione discutibile. «Una cosa dovete mettervi in testa tutti, dall’allenatore all’ultimo rincalzo: stavolta non possiamo perdere lo scudetto». Detto e fatto. Quarantanove punti, quattro in più della Juve, il terzo attacco del campionato (56 gol segnati) e la difesa migliore (solo 20 gol incassati).

Vienna ’64: la prima Coppa non si scorda mai

Dopo sette anni di attesa, Angelo Moratti ha potuto finalmente festeggiare il suo primo scudetto da presidente nerazzurro. Molto ha sbagliato ma moltissimo ha imparato. E’ la primavera del ’63, data di nascita della grande Inter. La governa lui, il ricco petroliere di Somma Lombardo trapiantato a Milano. La guida Helenio Herrera, lo stravagante «mago» argentino che la geniale intuizione di Moratti ha trasferito dalla Spagna in Italia. La ispira Italo Allodi, il giovane manager prelevato a Mantova.

Appassionato ma lungimirante, generoso ma risoluto, Moratti stabilisce profondi rapporti umani coi suoi giocatori. «Firmavamo i contratti in bianco perché avevamo assoluta fiducia in lui» riferirà Facchetti. «Era come un padre, burbero e affettuoso al momento giusto» racconterà Mazzola. Il pupillo del presidente e della sua famiglia resta Corso, che Herrera giudica invece troppo estroso e discontinuo. Ogni anno il «mago» scrive il nome del fantasista sull’elenco dei giocatori da cedere, ma Moratti lo cancella puntualmente. «Mariolino non si tocca — spiega il presidente —. Le sue giocate valgono da sole il prezzo del biglietto».

Le domeniche a San Siro diventano sempre più festose per Moratti, per Lady Erminia e per i loro figli, tutti contagiati dalla fede nerazzurra. Fioccano i premi, quelli ufficiali e quelli che Angelo e sua moglie distribuiscono ai giocatori più meritevoli sotto forma di marenghi e sterline d’oro. Un giorno il presidente arriva ad Appiano Gentile, nel centro sportivo voluto da lui, al volante di una fiammante Giulietta. Corso gli chiede di provarla. «E’ fantastica» commenta dopo un giro. Moratti gli porge le chiavi. «Tienila, è tua».

La stagione 1963-’64 potrebbe regalare a Moratti il suo secondo scudetto, se non ci fossero il giallo del doping e dei tre punti tolti e poi restituiti al Bologna, che batte l’Inter nello storico spareggio all’olimpico. E’il 7 giugno ’64, ma la delusione è largamente compensata dalla vittoria di dieci giorni prima sul mitico Real Madrid nella finale di Coppa dei Campioni. «Il giorno più bello di tutta la mia presidenza» confesserà Moratti, che sul prato dello stadio viennese ride felice, portato in trionfo dai suoi giocatori. Quattro mesi dopo arriva anche la Coppa intercontinentale. Merito di Corso, che segna all’Independiente il gol decisivo nella «bella» di Madrid.

Il ciclo trionfale è ormai avviato. A rinforzare un organico già straordinario provvedono gli acquisti di Domenghini e Peirò e il lancio del giovane Bedin. E’ il campionato 1964-’65, quello della fantastica rincorsa al Milan, che aveva accumulato sette punti di vantaggio. Quindici partite utili filate consentono all’Inter di scavalcare i cugini e di aggiudicarsi il suo nono scudetto, il secondo targato Moratti. A completare una stagione da incorniciare arrivano la seconda Coppa dei Campioni e la seconda Coppa Intercontinentale, conquistate a spese del Benfica e ancora dell’Independiente. Si consolida il mito dell’Inter euromondiale, che viene giudicata la squadra più forte del globo.

Virtualmente senza storia il campionato successivo, che l’Inter conduce dalla sedicesima giornata in poi. Cinquanta punti e 70 gol, dieci dei quali firmati da Facchetti. E’ il decimo scudetto, quello della stella, il terzo dell’azzeccata triade Moratti-Herrera-Allodi. Qualcosa comincia a scricchiolare, però. Si fanno sempre più aspri e frequenti i contrasti tra allenatore e manager. Cresce pure la tensione tra Herrera e alcuni giocatori, che non sopportano più gli interminabili ritiri imposti dal «mago». Scudetto e Coppa dei Campioni sono però ancora a portata di mano, prima che l’Inter inciampi nella sua settimana più amara. Il 25 maggio ’67 i nerazzurri si arrendono al Celtic nella finale europea di Lisbona e sette giorni più tardi si fanno sorpassare dalla Juve, complice a Mantova una papera del portiere Sarti.

Moratti è deluso, stanco, amareggiato, al punto da consentire a Herrera di smantellare l’organico che ha dominato nel mondo. Se ne vanno Guarneri e capitan Picchi, la cui spiccata personalità ha sempre infastidito l’allenatore. Se ne vanno pure Jair e Vinicio, l’anziano bomber brasiliano che Moratti ha voluto ma che Herrera ha utilizzato soltanto otto volte. Il quinto posto nel campionato 1967-’68, a 13 lunghezze dal Milan, è la goccia che fa traboccare il vaso. Il presidente si dimette e trasferisce le proprie azioni a Ivanoe Fraizzoli (18 maggio 1968) in cambio di 140 milioni, una cifra irrisoria, quasi la stessa che tredici anni prima Moratti aveva versato a Masseroni. Lasciano l’Inter anche Allodi e Herrera, che in seguito spiegherà: «Moratti non voleva cambiare i giocatori che amava di più. Quando comprese che bisognava farlo, preferì lasciare».