Nereo Rocco – Intervista febbraio 1973

Tutti i miei errori in 30 anni di calcio

«Ho perso lo scudetto nel 71 perché non ho impiegato Trapattoni all’ala destra contro l’Inter» – «Per quattro anni ho creduto che Rognoni fosse un goleador» – «Guidavo il Torino: fra Orlando e Hamrin, purtroppo ho preferito acquistare il primo» – «Quando allenavo i granata, ho sempre avuto troppa paura della Juventus» – «Ho capito nel Milan che il vero problema per un tecnico è far convivere venti milionari»

Non è facile per nessuno dire «Ho sbagliato», perché non è facile essere onesti. Non è facile, soprattutto, dirlo a un giornale, cioè alla gente, quando si ha un nome conosciuto: quando si è pubblici personaggi della cronaca, dello spettacolo, dello sport.

Noi, che nel mondo dello sport lavoriamo, novantanove volte su cento raccogliamo lamentele e polemiche, critiche e accuse: «Tu hai sbagliato, quell’altro ha sbagliato, io, no». L’eccezione è per lo più costituita da un contegnoso silenzio.

Sulla scena dello sport, e soprattutto su quella del calcio che in Italia è largamente il più diffuso e il più popolare, troppo spesso lo lealtà e la cavalleria non sono le regole normali di comportamento: esse vengono ritenute prove di debolezza, di scarsa personalità. Perché, purtroppo, il professionismo calcistico, che muove interessi capitali e fa rotolare valanghe di miliardi, è vittima di calcoli machiavellici ove il cinismo supera di gran lunga la solidarietà e la sincerità.

Viviamo di affermazioni banali, di grottesche reticenze oppure di fatti e di episodi veri, accaduti e puntualmente smentiti. Chi osa parlare da uomo è considerato generalmente un pazzo e, presto o tardi, viene chiamato a pagare dal «sistema», che ritiene di prosperare con la manovra di corridoio (mai provata) e con gli scaricabarile al termine dei quali tutti si ritrovano innocenti.

In un’epoca in cui è cosi raro imbattersi in un atto di coraggio, pubblichiamo con piacere e quasi con sconcerto la «favola negativa» che Rocco ci ha raccontato di se stesso. Anche l’allenatore del Milan — un personaggio che avrebbe fatto la felicità di Carlo Goldoni — sa tacere e sa mascherare i propri stati d’animo, quando lo giudica consigliabile. Ma nella sua carica vitale e nello sua istintiva estroversione impastata d’ironia e d’umorismo, c’è stato da sempre una spinta irresistibile verso la spontaneità.

Ha vinto coppe e scudetti, è un personaggio di punta: non sta bene ch’egli ammetta di avere commesso degli errori — da oggi commenteranno tanti. E invece la «favola» ch’egli ci ha raccontato gli fa onore. Probabilmente, a sessant’anni passati, ne sentiva la necessità. O, altrimenti, chissà?, è voluto uscire dal «sistema». Resta il fatto che Nereo Rocco ci ha detto: «Ho sbagliato». E’ un uomo di sport.

Nereo Rocco racconta. Non le imprese, i successi. i trionfi. Racconta gli sbagli, gli errori. Racconta alla sua maniera trentanni di calcio italiano che l’hanno visto figurare tra i protagonisti, personaggio unico e singolare tra personaggi che normali certamente non sono. Ma anche nel raccontare le sue sconfitte Nereo Rocco rimane sempre fedele a se stesso, mescolando con noncuranza la lingua italiana e il dialetto veneto, passando dai toni accesi ai toni da confessionale.

Non è un racconto organico, ma è senz’altro il racconto genuino e «parlato» di un uomo che ha lottato, che ha sbagliato, che ha indovinato avendo come compagno di questa stimolante avventura soltanto quel buon senso che madre natura gli regalò un lontano giorno di sessantun’anni or sono a Trieste.

Si comincia da uno sbaglio clamoroso, che lui non può dimenticare. «Non si può dimenticare anche perché è vicino nel tempo: febbraio ’71. Vigilia del derby. Noi guidiamo la classifica con tre punti di vantaggio sull’Inter, dopo averne avuto anche sette. Se battiamo i nerazzurri nello scontro diretto, abbiamo lo scudetto in pugno. In caso contrario, può succedere di tutto. Il venerdì sera a Milanello affronto il problema della formazione. So che la squadra non è nelle condizioni migliori, d’altronde i tre punti di vantaggio mi potrebbero anche indurre a puntare al pareggio. Il problema, in conclusione, è uno solo: mettere o non mettere Giovannino Trapattoni all’ala destra affidandogli Corso. Però, penso al pubblico. Agli spettatori che hanno pagato sicuri di assistere a un buono spettacolo. Un derby è sempre un derby e noi allenatori abbiamo anche degli obblighi. Decido perciò d’impiegare Rognoni. Vince l’Inter per 2-0 e lo scudetto sarà suo».

Uno scudetto si può perdere pure cosi. Ma in quel momento cosa si scatena in un allenatore, in un uomo che ha sbagliato? «Niente. Si sbaglia nella vita, figuriamoci nel calcio. E poi ancora è da dimostrare che con Trapattoni non avrei perso. Io cerco sempre di operare la scelta più sensata e per questo parlo con i miei collaboratori, parlo anche con la commissione interna dei giocatori. Espongo le mie tesi, ascolto le loro. Tuttavia le conclusioni è sempre il sottoscritto a trarle. In campo non si fa nulla senza il mio permesso».

Eppure si racconta che a Wembley, nella famosa finale della Coppa dei campioni contro il Benfica, furono Ghezzi e Maldini a rimediare ad una marcatura sbagliata. Tolsero Eusebio a Benitez e l’affidarono a Trapattoni. Ed il Milan, che in quel momento perdeva per 1-0, vinse per 2-1. «Guardi: Maldini e Ghezzi sono ancora vivi e potrà chiedere conferma di quanto le dirò. Non è assolutamente vero che furono loro due a cambiare. Il giorno prima, anzi la sera prima, ci eravamo riuniti il sottoscritto, il povero Viani, Maldini, Ghezzi, Rivera e Sani studiando la partita. Le disposizioni erano ben precise: cominciare con Benitez su Eusebio e, caso mai, utilizzare Trapattoni. Quindi, tutto era stato previsto».

Trapattoni ala tattica. Trapattoni su Eusebio. Finora si è parlato di errori tattici, di errori tecnici. Di errori, in una parola, professionali. Rocco però rifiuta questa interpretazione del ruolo di allenatore. Per lui è qualcosa di molto più complesso, più profondo. «Siamo sinceri: per mettere il difensore più veloce sull’attaccante più veloce o il difensore più grintoso sull’attaccante più battagliero non ci vuole molto. Sono cose che sappiamo fare tutti. Nei corsi di Coverciano le insegnano molto bene, ma dovrebbero anche insegnare come si la a trattare una squadra. Io parlo per esperienza e perché nel Milan vivo quasi quotidianamente queste situazioni. Io, Nereo Rocco da Trieste, alleno il Milan, una delle migliori squadre d’Europa, una società che cerca sempre di darmi i giocatori migliori. Quindi non ho grossi problemi sul come impiegarli o farli giocare. Al massimo, si tratterà di studiare qualche mossuccia prima di una partita impegnativa».

«Il vero problema e l’ho capito al Milan c un altro E’ fare convivere venti milionari che provengono dai ceti più disparati Appianare le possibili divergenze che possono sorgere, attutire i contrasti tra i diversi clan che inevitabilmente si formano in seno all’ambiente — perché non dimentichiamo che Dio fa gli uomini e tra loro li accoppia — cercare, in una parola, di mandare avanti questo gruppo di persone senza tanti sbalzi e senza tante polemiche. La tattica, l’allenamento con i giri di campo e la ginnastica mi fanno ridere. Non si vincono così le partite, si vincono soprattutto nel chiuso dei ritiri. E quando li vedo ridere spensierati, questi ragazzi, allora tiro un bel sospiro di sollievo. Anche per questa volta è fatta, mi dico. Ma domani c’è da ricominciare: bisognerà essere il papà, l’amico esperto, il consigliere».

Questo papà, quest’amico esperto, questo consigliere ha mai sbagliato, però, nel giudicare un giocatore, un «muleto», come lo chiama lui? «Ma sì, certo che ho sbagliato Ed ho sbagliato nel valutare bene giocatori che poi si sono rivelati inutili e nel valutare male giocatori che invece si sono rivelati utili. I nomi? Cominciamo da Fontana, il terzino che abbiamo preso dalla Roma. Sembrava chissà cosa, con noi però non è mai riuscito ad ingranare. Proprio non s’inseriva nell’ambiente, nella mentalità. Scala: per il nostro gioco non serviva. Al Vicenza ed alla Fiorentina, invece, è stato quasi sempre indispensabile. L’anno scorso a Firenze fu proprio Scala l’artefice primo del successo toscano. Ed in questi casi è Nereo Rocco che sbaglia, che non “vede” il giocatore. Ma io ho da pensare soprattutto alla squadra, agli schemi che le sono più congeniali. Un giocatore può anche piacermi, ma non servirmi. Come nel caso di Rognoni. Pensavo di trovare chi sapesse concludere il lavoro degli altri e mi sono trovato davanti un rifinitore. L’ho tenuto quattro anni, ma è stato inutile. Oppure prendete Zignoli: all’inizio non ero per nulla convinto delle qualità di Giulio, oggi ammetto che è uno dei nostri “jolly” più preziosi. Ma, gli errori alla Zignoli, io li benedico, me li auguro ogni anno. Non mi auguro invece di essere costretto a scegliere tra due giocatori da acquistare».

«Allenavo il Torino e in estate, assieme a Pianelli, si decide di rafforzare l’attacco. Ci rivolgiamo alla Fiorentina. Due nomi: Orlando, che aveva vinto la classifica dei cannonieri, o Hamrin, che non era più un ragazzino di primo pelo. Qual è in questi casi la scelta logica? Prendere il più giovane e che dimostra di essere anche il più in forma. Qualcosa, però, nel mio intimo, mi diceva di puntare ancora su Hamrin: l’avevo conosciuto al Padova, appena arrivato in Italia dalla Svezia, sapevo che non era finito. Tuttavia, in ultimo, cedo alla ragione. Con il risultato che Orlando disputa un brutto campionato, non si ambienta nella società, non va d’accordo con il pubblico. Ma lo sbaglio mi è servito perché, due anni dopo, ho avuto il coraggio di portare Hamrin al Milan, in cambio di Amarildo, e con Kurt ho vinto la coppa delle coppe, campionato e coppa dei campioni».

Rocco vola via veloce sulla parentesi torinese. Eppure, sono quattro anni della sua vita, e non da buttare. Con lui il Torino è arrivato terzo cominciando a forgiarsi quel carattere che in seguito doveva esplodere con Giagnoni. Ma per il «paron», quella di Torino rimane una parentesi quasi da dimenticare. Forse ha avuto il torto di venire subito dopo le due trionfali stagioni con li Milan, all’indomani di quel suo divorzio che molti ancora oggi gl’imputano come uno sbaglio. «Ho sbagliato a lasciare il Milan nel ’63? Non lo so. E quand’anche sia stato uno sbaglio, sarei pronto a ripeterlo subito. I dirigenti di allora mi tennero per due mesi in sospeso, senza dirmi una sola parola, anzi creandomi attorno un’atmosfera non proprio favorevole. Cosa avrei dovuto fare? Andare a pietire uno stipendio? Nossignori, mi sono guardato in giro ed ho cercato una sistemazione. In più, non dimentichi che erano i tempi in cui non andavo molto d’accordo con il professor Boselli, il capo dei medici; non voleva accettare la suddivisione dei compiti e nascevano sempre dei contrasti. Io non mi sono mai intromesso in questioni mediche, ma pretendo che altrettanto facciano loro».

«Insomma, me ne andai dal Milan e se anche fu un errore l’ho pagato in prima persona dato che a Torino non ha trascorso quattro anni felici. E questo per esclusiva mia colpa, perché sono Nereo Rocco e ho le mie abitudini, le mie idee. Non mi trovavo come tipo di vita con la città e forse non mi trovavo molto con i tifosi: sono incapace di fare proclami o di affermare pubblicamente che sono il più forte, il più bravo. Poi, ed in questo ha perfettamente ragione Pianelli, avevo una paura matta della Juve. Una paura cosi non l’ho mai provata, però io allenatore del Torino temevo la Juventus perché la vedevo bella, omogenea, più squadra di noi in ogni reparto. E magari, inconsciamente, trasmettevo queste mie ansie ai giocatori. Anche se una volta, in coppa Italia, questa Juventus l’abbiamo battuta. Ecco perché sono sincero quando dico che ammiro Giagnoni per come sa caricare il Torino. Il vecchio Toro ha proprio bisogno di un allenatore come lui».