Quando il Milan mise la treccia

L’avventura rossonera di Ruud Gullit: arrivò a Milanello insieme a Arrigo Sacchi e fu subito chiaro che il Milan sarebbe cambiato per sempre

Correva la seconda metà degli anni Ottanta: Silvio Berlusconi era appena entrato nel mondo del calcio con i suoi elicotteri, ma i successi non erano stati all’altezza delle aspettative e delle promesse. Ad Arrigo Sacchi, geniale intuizione presidenziale, donò una squadra straordinaria, arricchita da tre perle olandesi (anche se lui preferiva l’argentino Borghi): il fantastico Van Basten, l’insostituibile Rijkaard e l’irregolare Gullit.

Tutti forti, anzi fortissimi, ma Gullit più degli altri conquistò la fantasia dei tifosi, che fecero la felicità dei venditori ambulanti fuori dagli stadi comprando tutte le parrucche rasta. Il Milan, insomma, si mise la treccia e superò tutti; e nel “tutti” c’era anche il Napoli di un certo Diego Armando Maradona, che perse la pazienza quando Ruud venne eletto miglior calciatore d’Europa.

Sacchi e Gullit: stessa visione del calcio

Non giocava come centravanti, ma segnava tanti gol. Non giocava come centrocampista, ma dominava il centro del campo. Non giocava come difensore, ma iniziò la sua carriera da libero. Non era solo una di queste cose, era tutto quello che si poteva desiderare. Era Ruud Gullit, più che un calciatore (e che calciatore!), un’icona. Per averlo, Berlusconi nel 1987 sborsò una cifra stratosferica, quasi 14 miliardi di lire: fu il miglior affare della storia.

Arrivò a Milanello insieme a Arrigo Sacchi e fu subito chiaro che il Milan sarebbe cambiato per sempre: da una parte, l’allenatore che insegnava a Baresi e Maldini i segreti della difesa a zona (sigh), dall’altra il giocatore che si adattava a ogni ruolo, seguendo il suo istinto e il bene della squadra. Non ci furono mai scontri tra i due: erano troppo intelligenti per non apprezzarsi a vicenda anche nelle differenze. Arrigo chiedeva allenamenti duri, massima concentrazione e Ruud glieli garantiva; Gullit chiedeva libertà di movimento, di scegliere in campo la posizione migliore e Sacchi gliela dava.

Insieme – Arrigo in panchina e Ruud in campo – portarono il Milan a una rimonta incredibile sul Napoli di Maradona, che nel 1987/88 sembrava destinato a vincere il campionato, il secondo consecutivo. Una cavalcata trionfale, lo scudetto conquistato proprio sul campo dell’avversario, il San Paolo. Ma, soprattutto, la consapevolezza di essere Grandi in un campionato di grandi. Perché all’epoca la Serie A era davvero il campionato più bello del mondo, quello che dopo aver ammirato Falcao, Zico e Platini aveva accolto con entusiasmo Maradona e Careca, Van Basten e, appunto, Gullit.

Corpo atletico, sorriso seducente, reputazione di “spacca cuori”, gesti tecnici di classe: la Gullit-mania esplose in un attimo. Non ci sono dati ufficiali, ma si può scommettere che gli ambulanti davanti agli stadi vendettero più parrucche rasta che Cesare Ragazzi toupet nei suoi centri anti-calvizie. Ai tifosi, Ruud piaceva per il suo spirito ribelle, per quella grinta che gli permetteva di essere sempre al centro del gioco con un ruolo da protagonista. Piaceva molto anche alle donne, e il sentimento era ricambiato con passione. Lo conferma Estelle Cruijff, nipote di un’altra icona del calcio mondiale – che chiese il divorzio per… troppa concorrenza: «Lui non è una persona malvagia, ma ha solo un difetto molto grave, e gli auguro di trovare qualcuna che possa renderlo veramente felice, perché è evidente che in questi anni io non ci sono riuscita».

La sua esperienza milanista durò poco più di sei anni, arricchiti da tre scudetti, due Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali, due Supercoppe Europee, due Supercoppe Italiane e un Pallone d’oro. Proprio l’assegnazione del premio da parte di France Football fece irritare Maradona: «Ha vinto perché dietro di lui c’è la potenza televisiva ed economica di Berlusconi». Una gelosia del Pibe, punita a breve distanza di campionato. 3 gennaio 1988, il Napoli primo in classifica arriva a San Siro con 5 punti di vantaggio e segna per primo, con Careca. Ruud è un leone ferito, suona la carica, trascina i compagni a una strepitosa vittoria (4-1) e a fine partita, con la faccia un po’ così, incrocia lo sguardo di Dieguito, quasi a volergli dire se aveva subito abbastanza gol.

Gullit è il campione indiscusso. Non ha le qualità tecniche di Van Basten, né la saggezza tattica di Rijkaard, ma per i tifosi è lui il leader. Sacchi ne approfitta e non si disturba, il presidente Berlusconi invece lo vive con un po’ di fastidio: le espressioni di Ruud gli rubano la scena e questo, a quanto pare, viene tollerato a fatica, anche perché il ragazzone non ha studiato Diplomazia: «Berlusconi è un vanitoso come uomo e come presidente».

Passano gli anni, passano i successi, passano anche gli allenatori. Sacchi diventa Commissario Tecnico della Nazionale, al suo posto arriva un altro personaggio poco conciliante, Fabio Capello. Il quale, a differenza del predecessore, mostra subito di non apprezzare la spumeggiante personalità dell’olandese. Sul campo il Milan continua a fare pienamente il proprio dovere, ma nel privato dello spogliatoio l’aria si fa più pesante per Gullit, che un giorno – secondo voci mai confermate ma soprattutto mai smentite – arriva allo scontro fisico con il tecnico.

Così, dopo aver perso la Coppa dei Campioni contro l’Olympique Marsiglia (Gullit quella sera, a Monaco, non è in campo), le strade tra lui e il Milan si dividono: Ruud va alla Sampdoria, dove in breve diventa l’idolo dei suoi nuovi tifosi, vince la Coppa Italia e poi… torna al Milan, richiamato – nuovo Figliol Prodigo – da papà Berlusconi, che gli propone di mettere una pietra sopra il passato e ricominciare da zero.

Il vitello Grasso – continuando nella parodia della Parabola – viene cotto e mangiato troppo in fretta: bastano 8 partite (arricchite da 3 gol) per far capire a Gullit che niente potrà mai più essere come prima. Berlusconi forse ha perdonato, Capello invece no e a novembre Ruud torna a vivere a Genova, lato blucerchiato, per scrivere l’ultima pagina italiana del suo appassionante romanzo. Poi se ne andrà in Inghilterra, al Chelsea, ma a 33 anni è già iniziata la discesa e a 34 inizia la sua carriera da allenatore, sostituendo Glenn Hoddle.

Chi la fa, l’aspetti: nel corso della stagione 1997-98 dovrà a lui cedere il posto a un altro calciatore-allenatore, Gianluca Vialli. Da allora ha girato mezzo mondo sedendosi sulle panchine di Newcastle, Under 19 e Nazionale (come vice di Advocaat) olandese, Feyenoord, Los Angeles Galaxy e Terek Grozny. Perdendo le treccine rasta, sembra aver perso anche la sua forza, come un Sansone qualunque. Ma il ricordo delle sue sfide offensive, dei suoi colpi di testa trasformati in potenti colpi di frusta al pallone, quelli non sono finiti nel dimenticatoio.