Un purosangue, un uomo libero, uno che neanche nella vita non ha mai potuto soffrire le marcature
Con quelle treccine passare inosservato era impossibile. Con quel fisico e quella stazza saltare più in alto dei difensori avversari era semplice, naturale. E il gol probabile. Ruud Gullit ha fatto epoca. La sua immagine è una delle icone del calcio europeo a cavallo tra gli anni ottanta e novanta. Di lui si ricordano, nell’ordine, le vittorie, i colpi di testa, il sorriso e la schiettezza. E una disarmante capacità di marchiare con il proprio nome le partite che contano.
Nato ad Amsterdam il primo settembre del 1962, dà i primi calci nei dilettanti olandesi dei Meer Boys (1973-1975) e successivamente del Dws (1975-1979), esordendo nei professionisti con l’Haarlem nella stagione 1979/80, dove rimane tre stagioni (91 presenze e 30 gol) prima di passare al Feyenoord con cui dal 1982 al 1985 disputa altre tre stagioni collezionando 85 presenze e 30 gol nella Eredivisie olandese, vincendo uno scudetto e una Coppa d’Olanda nel 1984. Approda al PSV Eindhoven nel 1985/86 dove in due stagioni si impone alla scena internazionale con 68 partite e ben 48 gol in campionato (uno “score” da cannoniere), vincendo due scudetti e entrando a far parte della Nazionale olandese.
Lo vede Nils Liedholm al Torneo Gamper di Barcellona e dice: «È come Falcao». È il 1986, Silvio Berlusconi ha acquistato da pochi mesi il Milan. Il Barone dice al Cavaliere: «Un grande, possente atleta, può giocare in tutti i ruoli. Può fare il libero e il centravanti». In quell’occasione Ruud Gullit, l’olandese con le treccine, comincia in difesa e poi gioca a tutto campo. Berlusconi è incantato dalla sua strepitosa personalità calcistica. Parte alla carica e ordina: prendiamolo. E lo prende, superando Giampiero Boniperti che lo stava corteggiando per la Juve da mesi. Gullit ha ventiquattro anni, la società bianconera gli propone: «Ti acquistiamo e ti mandiamo un anno in prestito all’Atalanta». Un piano già riuscito prima con il giovane danese Laudrup, girato provvisoriamente alla Lazio. Ma il Milan si inserisce con energia e decisione e convince il Psv Eindhoven: dodici miliardi di lire più accordi commerciali fra la Fininvest e la Philips.
Ruud arriva a Milano nell’estate del 1987, lo presentano in via Turati e gli mostrano la gigantografia di Gianni Rivera: «Chi è?», sgrana gli occhi l’olandese. La gaffe passa alla storia, come le sue esternazioni. Gullit diventa subito uno straripante personaggio. Più di Van Basten, più di Baresi. Lui, nel bene e nel male (infortuni compresi), fa sempre notizia. I suoi gol, le sue partite, le sue polemiche, i suoi concerti, le sue dediche, le sue famose scelte di vita.
Alcuni mesi dopo vince il Pallone d’Oro, Maradona da Napoli lo attacca: «Bella forza, dietro di lui c’è Berlusconi con la sua televisione e il suo potere economico». Botta e risposta rovente sui giornali e poi in campo. Ai primi di gennaio 1988 a San Siro, dopo la sosta natalizia, è in programma Milan-Napoli: i rossoneri vincono quattro a uno, Gullit è devastante, il migliore in campo, segna e fa segnare e a fine partita dirà a Dieguito: scusa, ti serve altro?
Il Pallone d’Oro lo dedica a Nelson Mandela, il leader sudafricano. Il suo impegno sociale fa discutere. Come le sue prese di posizione con gli allenatori e con i compagni. È un ragazzone allegro e intelligente, e sa sempre toccare i tasti giusti. Tutto quello che fa e dice è mirato e raggiunge l’obbiettivo. Guadagna molto e molto spende. Un giorno, un lunedì, un popolare conduttore televisivo, pur di averlo in trasmissione, gli promette un’auto in regalo. Gullit risponde sdegnato: «Oggi è il mio giorno libero e sono anni che ormai non vado più a piedi. Grazie, non ne ho bisogno».
Le sue performance in campo esaltano San Siro e gli stadi d’Europa, il primo e unico scudetto di Arrigo Sacchi è soprattutto legato alle sue prodezze. I suoi dribbling fuori dal campo impegnano severamente paparazzi e settimanali scandalistici. Gullit è sempre in prima pagina. Anche per i divorzi, gli amori e i matrimoni. Si sposa tre volte: la prima con una compagna di scuola olandese, Yvonne; la seconda con Cristina, una ragazza di Lecco, ex fidanzata del pilota Ayrton Senna; la terza con Estrelle Cruijff, nipote di Johan, il mito dell’Ajax, forse il più grande calciatore olandese di tutti i tempi. Avrà cinque figli.
Con il Milan vince molto, la gente lo ama, Sacchi lo adora (ricambiato), Berlusconi invece ha più feeling con Van Basten e Rijkaard. Il campione con la personalità più spiccata entra spesso in contrasto con il presidente. Un giorno Ruud dichiara a un settimanale olandese: «Berlusconi vanitoso come uomo e come presidente». I rapporti diventano difficili e Gullit, dopo la sconfìtta nella finale di Coppa dei Campioni contro il Marsiglia, lascia il Milan. La decisione non è poi tanto clamorosa: aveva rotto anche con l’allenatore Capello. I due, una mattina negli spogliatoi di Milanello, erano arrivati quasi alle mani.
Ruud abbandona Milano per la Sampdoria e dice: «E’ una scelta di vita». Si trasferisce a Nervi, sul mare, e con i blucerchiati gioca il suo miglior campionato italiano: maggior numero di presenze (trentuno), maggior numero di gol (quindici). Uno, spietato e rumoroso, lo segna anche al suo Milan. E’ il 31 ottobre 1993 a Marassi, contro i rossoneri di Capello, si manifesta per l’ ennesima volta quel sesto senso unico, quell’ istinto del killer che si materializza nel momento decisivo. Dodici minuti alla fine, 2-2, palla al limite dell’ area e destro secco che si infila nell’ angolino. Da ex rossonero avrebbe potuto contenersi, limitare la sua esultanza. E invece no. Corsa rabbiosa verso la gradinata blucerchiata. E uno sguardo a quella panchina che non aveva bisogno di commenti. L’allenatore Boskov lo vede così: «Ruud Gullit è grande cervo che esce di foresta».
La bellissima stagione ligure lo convince ad accettare la nuova corte del Milan. Berlusconi lo richiama: «Ruud torna, dimentichiamo quello che è successo». Torna ma non è più come prima. Anche perché lui è molto cambiato. È il 1994, in estate aveva litigato con i dirigenti e i compagni della nazionale d’Olanda e aveva abbandonato il ritiro alla vigilia dei mondiali negli Stati Uniti. Anche in quell’occasione polemiche violente, attacchi, insulti e accuse di razzismo al commissario tecnico Dick Advocaat.
Il nuovo legame con il Milan dura poco, solo otto partite. In novembre Ruud torna a Genova, ancora Sampdoria. Ed è la sua ultima stagione. Ha trentadue anni, potrebbe giocare ancora, la Samp insiste per confermarlo, le richieste non mancano ma lui sceglie l’Inghilterra. Altra scelta di vita?, lo stuzzicano. «Dì la verità, sei scappato?». Risponde: «Io non sono mai fuggito, sono un olandese e noi olandesi abbiamo dentro lo spirito dell’avventura. Ho lasciato il Psv per il Milan. La Samp per il Milan. Ancora il Milan per la Samp. Io sono cittadino del mondo».
Diventa allenatore-giocatore del Chelsea ed entra subito in contrasto con Gianluca Vialli, il suo giocatore più prestigioso. In Inghilterra resta quattro anni e qualcuno gli fa i conti in tasca: ha guadagnato sedici miliardi di lire. Il Chelsea lo licenzia nel 1998: è la prima grande sconfitta calcistica, dieci anni dopo il trionfo con il Milan nel campionato italiano e con l’Olanda all’europeo in Germania.
Chiude con il Newcastle United: al primo anno arriva in finale di FA Cup ma il secondo anno comincia malissimo, collezionando un solo punto nelle prime 5 gare di campionato. Arriva puntuale l’esonero nell’agosto del 1999. Si trasferisce con la nuova, biondissima e bellissima moglie Estrelle in un appartamento in un quartiere residenziale di Amsterdam. Agli amici milanesi manda a dire: «L’Italia è sempre nel mio cuore, quando penso all’Italia penso al Milan». Ma non tornerà, dicono i pochi che sono in contatto con lui: Estrelle non vuole e lo marca strettissimo. Da allora solo comparsate in panchina tra Olanda, Stati Uniti e, recentemente, in Russia. Ruud Gullit: un purosangue, un uomo libero, uno che neanche nella vita non ha mai potuto soffrire le marcature…