Quando Schrojf condannò la Cecoslovacchia

1962: Brasile vs Cecoslovacchia. Lo squadrone che aveva dominato i mondiali di quattro anni prima contro un’anonima squadra dell’Est Europa.


La finalissima del Mondiali cileni del 1962, che il 17 giugno richiamò al Nacional di Santiago 68 679 spettatori (parecchie migliaia in meno rispetto alla semifinale col Cile: la conferma che il Mondiale era stato seguito soprattutto in funzione della squadra di casa) era meno scontata di quanto la dipingessero le unanimi previsioni, tutte convergenti ovviamente sul Brasile per il fascino dei suoi solisti e la suggestione di uno spettacolare gioco offensivo.

In realtà la Cecoslovacchia aveva progressivamente incrementato il suo rendimento con l’avanzare del torneo: la formidabile preparazione atletica la portava ad emergere con sempre più evidenza, man mano che la fatica degli impegni ripetuti pesava sulle forze degli avversari. Un fenomeno simile si era già verificato nel 1954, quando una Germania Ovest forse “sovralimentata” aveva clamorosamente colmato, nella finalissima, il gap tecnico che la separava dalla grande Ungheria, originando la più straordinaria sorpresa nella storia dei Mondiali.

Per Rudolf Vytlačil, il tecnico della squadra boema, il cammino verso il grande traguardo era stato tutto in salita. A partire dalle qualificazioni, quando la Cecoslovacchia – chiuso il girone alla pari con la Scozia – aveva dovuto guadagnarsi il ticket per il Cile con uno spareggio in campo neutro, che l’aveva vista prevalere sugli irriducibili scozzesi per 4-2, soltanto dopo i tempi supplementari.

La Cecoslovacchia di Rudolf Vytlačil

Negli ottavi di finale, finita nel girone di ferro con Brasile e Spagna, aveva avventurosamente ribaltato il pronostico avverso, raccogliendo tre punti contro i favoriti e cedendo invece alla cenerentola Messico.

Ma da quel momento il rendimento si era impennato: Ungheria e Jugoslavia avevano pagato un duro pedaggio al pragmatismo tattico di Vytlačil e alle prodezze di un portiere, Viliam Schrojf, cosi prodigiosamente baciato dalla grazia da apparire agli occhi dagli attaccanti avversari come un angelo invulnerabile.

Vytlačil aveva già alle spalle il parziale fallimento del 1958, quando la Cecoslovacchia era attesa con curiosità e invece si era fatta eliminare negli ottavi dall’Irlanda del Nord. Aveva cominciato a impostare la squadra sul modello dell’Ungheria di Sebes, ma proprio in Svezia il Brasile di Feola gli aveva dato l’idea giusta per una revisione tattica, sulla falsariga dell’imperante 4-2-4 rivisitato in chiave europea (quindi con maggior attenzione alla copertura difensiva e al contropiede).

L’uomo determinante era il mediano Josef Masopust, vero cervello del centrocampo, le cui scintillanti prestazioni in Cile gli valsero il Pallone d’Oro 1962; in fase di ripiegamento lo affiancava superbamente lo sgobbone Andrej Kvašňák, lungo e infaticabile, schierato con un fittizio numero nove, in realtà centrocampista aggiunto. La punta autentica era l’interno Scherer, stoccatore opportunista e micidiale, mentre le due ali Pospichal e Jelinek agivano alternativamente da tornanti.

In sostanza, Vytlačil era riuscito a trasformare uno schema spiccatamente offensivo come il 4-2-4 in una tattica di contenimento; ma la buona qualità tecnica e la duttilità dei suoi giocatori gli consentivano repentine variazioni sul tema, in grado di frastornare gli avversari. Fu così anche nella finalissima.

Il Brasile di Moreira

Il Brasile, che si attendeva una Cecoslovacchia guardinga e arroccata, fu completamente sorpreso dall’inizio arrembante degli europei, che cambiarono letteralmente pelle e si impadronirono dell’iniziativa del gioco. E chissà come sarebbe finita se, proprio nell’occasione più importante, l’eroe dei Mondiali, l’angelo invulnerabile Viliam Schrojf, non si fosse bruciato le ali, condannando la sua squadra con errori imperdonabili…

Il Brasile, se n’erano accorti tutti, non era più la macchina perfetta di quattro anni prima. Il patetico tentativo di fermare il tempo, riproponendo in pratica gli stessi uomini, si era arenato contro gli invalicabili limiti dell’anagrafe. E il forfait di Pelé, sia pure egregiamente sostituito da Amarildo, aveva tolto alla Seleção un punto di riferimento imprescindibile, sia nella costruzione sia nella finalizzazione del gioco.

Due uomini, soprattutto, non poterono garantire l’altissimo rendimento del 1958: Nilton Santos e Didi. Quest’ultimo, geniale e puntualissimo regista, 34 anni e il fallimento nel Real Madrid alle spalle, si era ormai limitato a un cabotaggio di routine, in una fascia di terreno sempre più ristretta. Fortuna del Brasile, un grandissimo Zito, mediano formidabile seppur non adeguatamente valorizzato, seppe caricarsi sulle spalle anche il lavoro del celebre collega, risultando forse (con Garrincha) il più determinante protagonista della seconda conquista mondiale.

Quanto a Nilton Santos, fu l’involontario responsabile di una fondamentale rivoluzione tattica: il passaggio dal 4-2-4 al 4-3-3, che in breve tempo divenne il modulo più praticato nel mondo. Infatti l’impossibilità
da parte dell’anziano terzino sinistro (36 anni in Cile!), detto «a enciclopedia» per la sua inarrivabile scienza difensiva, di coprire adeguatamente la propria corsia esterna, indusse Moreira a chiedere a Zagalo ripiegamenti sempre più frequenti. Da quarto componente dell’attacco, Zagalo si ritrovò cosi a operare da terzo centrocampista e la sua interpretazione del tornante di sinistra risultò in effetti straordinaria.

Amarildo in rete nel match contro la Spagna

Era dunque un Brasile pieno di acciacchi e Vytlačil, che lo sapeva, aveva deciso di attaccarlo in forze, per metterne subito a nudo i limiti. La vigilia del Brasile fu movimentata da due casi. Pelé, solleticato dall’idea di partecipare al trionfo finale, insisteva per giocare e chiedeva un provino che verificasse la sua condizione fisica. In realtà lo stiramento era lungi dall’essere assorbito e, con ammirevole fermezza, la «junta medica» resistette alle pressioni del re del calcio, si rifiutò di autorizzare il test e offri a Moreira l’occasione di confermare il preziosissimo Amarildo.

L’altro caso, più serio, riguardava Garrincha. Espulso nella semifinale con il Cile, avrebbe dovuto essere squalificato. Ma qui si scatenò la bagarre, che contribuì a rendere ancora meno credibili quei Mondiali già così compromessi. Intervenne pesantemente il governo brasiliano e, sulla sua scia, anche quello peruviano (l’arbitro Yamasaki, che aveva osato espellere il campione, era peruviano e il Perù rischiava di subire il contraccolpo dell’impopolarità, oltre che le ritorsioni del potente vicino).

Le pressioni si fecero insostenibili e a quel punto la Cecoslovacchia, per guadagnarsi simpatia, chiese ufficialmente che a Garrincha fosse consentito di giocare. E anche probabile che lo scaltro Vytlačil avesse fatto bene i suoi conti. Garrincha, colpito alla testa da una pietra quattro giorni prima, non era in perfette condizioni: fra l’altro, era stato febbricitante sino alla vigilia. Sta di fatto che, sul campo, di Garrincha si prese carico l’esperto Novak, con puntuali raddoppi del tornante Jelinek: e il fuoriclasse brasiliano in pratica non incise sulla partita.

Arbitro il sovietico Latishev, Brasile e Cecoslovacchia iniziarono dunque la finalissima con una singolare inversione dei ruoli prestabiliti. Il grande Brasile costretto alla difensiva, davanti a Gilmar, e la Cecoslovacchia (fino a quel momento bastonata dalla stampa sudamericana per il suo «jogo distrutivo baseado no contra-ataque») sollecita ad attaccare a ranghi schierati.

Il vantaggio ceco di Masopust

Dopo un quarto d’ora, una geniale giocata di Tomáš Pospíchal liberava Masopust, bravissimo a sganciarsi dal centrocampo per presentarsi in zona tiro e battere Gilmar con un rasoterra da distanza ravvicinata. La sensazione della sorpresa cominciava appena a prender corpo, alimentata dalla superiore iniziativa della Cecoslovacchia, quando nel giro di due minuti scarsi un colpo di genio di Amarildo ristabiliva il punteggio.

Il «garoto», dopo essersi liberato di Pluskal, si portava sulla linea di fondo e, quando tutti si attendevano il cross, azzeccava un tiro dalla traiettoria impossibile, che trovava l’angolo di uno Schrojf impietrito. Si annunciava cosi la giornata nera del portiere cecoslovacco, che avrebbe conosciuto altri amari capitoli.

L’uno a uno chiudeva il primo tempo e appariva un risultato benigno per il Brasile, chiaramente sopravanzato sul piano dell’iniziativa e della pericolosità. Veniva qui in luce una delle doti di questo Brasile non scintillante e tuttavia pratico e sornione: la buona tenuta difensiva, con Djalma in grande spolvero e la coppia centrale MauroZozimo difficilmente superabile. I puntuali arretramenti di Zagalo consentivano di assorbire la momentanea inferiorità senza ulteriori danni.

La ripresa non cambiava di molto il copione. La Cecoslovacchia, confidando nella sua collaudatissima tenuta alla distanza, non affondava i colpi più di tanto, dando l’impressione di attendere l’inevitabile calo atletico degli avversari per inscenare uno dei suoi finali esplosivi. Ma a questo punto, entrava nuovamente in scena Schrojf. Al 24 l’inafferrabile Amarildo (che nella finale si sostituiva allo spento Garrincha come autentico match-winner) scivolava ancora via sulla sinistra, pennellando un morbido cross. Schrojf, solitamente un autentico «gatto» nelle uscite alte, restava a guardare e si faceva scavalcare dalla parabola. Zito, concedendosi uno dei rari momenti di libera uscita, piombava sul pallone e di testa lo spediva in porta.

Il 2-1 scatenava scene di delirio sugli spalti: per una volta, il gol aveva premiato e portato alla ribalta un giocatore preziosissimo, ma condannato in un cono d’ombra dalla straripante personalità dei colleghi. Non era finita. A tredici minuti dalla conclusione, discesa e cross di Djalma Santos sulla destra, Schrojf guizzava per una parata plateale, afferrava il pallone che però gli sgusciava dalle mani, finendo sui piedi di Vavà, eternamente all’agguato. 3-1 e Vytlačil disperato.

«Mi avessero detto che avrei perduto la finale col Brasile, a causa di due errori incredibili del mio uomo migliore, non ci avrei mai creduto». Per vincere il più grigio Mondiale della storia era stata sufficiente un Brasile vecchio e acciaccato, acceso nei momenti importanti dalle invenzioni di Garrincha e Amarildo, il «garoto» che non avrebbe mai giocato senza l’infortunio di Pelé.

17.06.1962 (14.30) Santiago, Estadio Nacional
BRASILE-CECOSLOVACCHIA 3-1
Reti
: 0:1 Masopust (15), 1:1 Amarildo (17), 2:1 Zito (69), 3:1 Vava (78)
Brasile: Gilmar, D. Santos, N. Santos, Zito, Mauro (c), Zozimo, Garrincha, Didi, Vava, Amarildo, Zagalo
Cecoslovacchia: Schrojf, Tichy, Novak (c), Masopust, Popluhar, Pluskal, Pospichal, Scherer, Kadraba, Kvasnak, Jelinek
Arbitro: Latichev (URSS)